Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan (Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Fine anni Cinquanta. In un manifesto nella Cina di Mao, si vedono due bambini armati di fionda intenti a mirare a qualcosa. Lo slogan sottostante recita: «Venite a uccidere i passeri». La missione, affidata ai contadini, era parte del “Grande balzo in avanti” promesso dal Partito comunista. Inutile aggiungere che l’uccisione di milioni di volatili non servirà a incrementare i raccolti, anzi sarà tra le cause di una successiva grande carestia.

C’è dell’umorismo tragico in orde di contadini che si precipitano obbedienti in questa impresa autolesionista. Ma lo humor è un lusso. Nel libro Ombre cinesi di Simon Leys (pseudonimo di Pierre Ryckmans) si racconta di uno studente occidentale in visita in Cina con una delegazione di altri simpatizzanti maoisti. Durante un incontro evidentemente un po’ noioso, il ragazzo scarabocchia su un foglietto i personaggi dei Peanuts, e fa dire a Snoopy: «Viva il presidente Mao!». A fine incontro il foglio finisce nel cestino. Dei pignoli funzionari di partito, però, ispezionano pure i cestini della cartastraccia: la sera stessa, alcuni di questi si presentano alla porta del capo delegazione, agitando il foglietto con aria minacciosa. Come si era permesso quel ragazzo di far pronunciare il nome di Mao a un cane? Il dogmatismo ideologico, stupidamente efficiente per definizione, non sa certo apprezzare lo humor. Dopo un estenuante interrogatorio, il ragazzo è rilasciato, non prima di essersi pentito profondamente per il grave affronto al Grande Timoniere.

In queste storielle ci sono almeno due elementi che ci avvicinano allo scrittore Milan Kundera, appena scomparso, uno degli ultimi grandi romanzieri del Novecento europeo: l’umorismo e il totalitarismo. È a tutti noto che Kundera, nato nel 1929 e per due volte iscritto al partito comunista, sarà nei fatti costretto a lasciare la Cecoslovacchia dopo il 1968 perché ormai ostracizzato dalle autorità: si era schierato con il movimento riformista della Primavera di Praga. Tuttavia, non è lecito ridurlo ad un santino della dissidenza politica. È forse qualcosa in più di questo: del resto è risaputo che la prefazione di Louis Aragon a Lo scherzo (1967) confuse un po’ su questo punto l’intellighenzia francese. Kundera desiderava essere “solo” un romanziere e si rifiutava di ridurre tutta l’esistenza alla politica. E da romanziere, nei suoi undici romanzi, dal già citato Lo scherzo fino a La festa dell’insignificanza (2013), si è fatto portavoce dei propri personaggi, sollevando gli interrogativi umani di sempre, certamente ripetendoli, ma attingendo alla “ripetizione” intesa à la Deleuze, vale a dire a quella ripetizione che non riproduce ma produce, come l’amante autenticamente innamorato che ripete “ti amo” e nella ripetizione è ogni volta assolutamente originale.

Ripetizione che ha avuto, come si diceva, nello humor uno dei suoi tratti costanti e, a mio modesto parere, più attuali. Viviamo infatti in tempi in cui l’umorismo è spesso sospettato di eresia. Per riprendere il richiamo alla dittatura maoista, Guido Vitiello, in un articolo-saggio sul “Foglio” del 13 settembre 2021, denunciava – come molti altri  ̶  questa sorta di maoismo a bassa intensità del nostro tempo, in cui è facile inciampare nella scomunica del politicamente corretto di questa o quell’altra tribù culturale, con esiti talvolta molto pesanti per gli individui:

Oggi non fischia più il Vento dell’Est, come lo si chiamava all’epoca, ma qualche spiffero di maoismo sotto mentite spoglie è tornato a farsi sentire dalle nostre parti. Imprevedibilmente, però, sta spirando dall’Ovest, dai campus americani. […] Chi si avventura oggi in alcune zone impervie del dibattito – su genere, razza, identità, classe – rischia di restare impigliato ovunque in analoghi “doppi vincoli”, di cadere in queste trappole da Comma 22.

Come lo stesso Vitiello esplicita nell’articolo, il paragone con la Cina della Rivoluzione culturale, uno dei picchi sanguinari del Novecento, è solo un’iperbole: il punto di contatto tra quel passato e oggi è dato da una certa pedagogia inquisitoria altamente massificata, priva di sensibilità per i contesti discorsivi e dunque di qualsiasi senso dell’umorismo. Nel nostro Occidente libero, ridiamo col VAR: iniziamo a piegare la bocca e intanto guardiamo il replay per verificare che nessuna regola sia stata infranta. E l’incapacità di ridere è tipica del totalitarismo. Non a caso, ne Lo scherzo Kundera narra di un giovane, Ludvik, espulso dal Partito comunista, messo fuori dall’università e relegato a una grigia esistenza in un piccolo villaggio di periferia solo perché aveva spedito una cartolina irriverente alla fidanzata, impegnata in un campo estivo di partito: «L’ottimismo è l’oppio del genere umano! Lo spirito sano puzza stronzaggine. Viva Trotsky! Ludvik».

In questa linea si inserisce uno dei più importanti allievi italiani di Kundera (e suo traduttore), Massimo Rizzante, scrittore e accademico, il quale ha affermato che la cosiddetta cancel culture o l’ortodossia del politicamente corretto non sono altro che la deriva del Kitsch inteso al modo di Kundera. Chi conosce lo scrittore di Brno, sa che questa è una parola cruciale: come è spiegato nella sua opera più famosa, L’insostenibile leggerezza dell’essere, e poi anche in altri punti, per Kundera il Kitsch è «la negazione assoluta della merda» (sic!), sia in senso letterale che figurato. Il Kitsch è quell’atteggiamento estetico che tende a eliminare dalla realtà tutto ciò che risulta inaccettabile e perturbante, ogni faglia, ogni frattura, tanto nel presente quando, eventualmente, passando al setaccio la storia. Così l’essere è abbracciato nella sua totalità ma solo per la piena conciliazione tra coscienza e mondo sottoposto previamente a bonifica. In tal senso, allora, dall’estetica si passa all’etica e alla politica. Il Kitsch è conformista, ossequioso, assertivo, collettivista: si prova piacere nel commuoversi per le stesse cose. «Com’è bello essere commossi insieme a tutta l’umanità alla vista dei bambini che corrono sul prato!» (L’insostenibile) e poi, a proposito del Kitsch comunista: «Il suo modello è la cerimonia detta del primo maggio. […] Quando il corteo si avvicinava alla tribuna centrale, anche i visi più annoiati si illuminavano di un sorriso, come a voler dimostrare di essere doverosamente contenti o meglio di essere doverosamente d’accordo» (ivi).

Ci illuderemmo molto, però, se pensassimo che il Kitsch riguarda altri e non noi, magari solo la vecchia società sovietica. Nient’affatto. Esso riguarda tutti, in forme diverse pervade potenzialmente ogni società, ogni gruppo umano. L’umorismo del romanzo o il riso romanzesco di Kundera, allora, non sono né disimpegno né cinismo, mi pare, ma scetticismo impegnato nella demistificazione di questo dispositivo coercitivo e instupidente. E la centralità dell’umorismo è ribadita anche nell’ultimo romanzo di Kundera, La festa dell’insignificanza, in cui uno dei personaggi, Ramon, afferma:

Nella sua riflessione sul comico, Hegel dice che il vero umorismo è impensabile senza l’infinito buonumore, ascolta bene, lo dice a chiare lettere: “infinito buonumore”; “unendliche Wohlgemutheit”. Non lo scherno, non la satira, non il sarcasmo. Solo dall’alto dell’infinito buonumore puoi osservare sotto di te l’eterna stupidità degli uomini e riderne.

L’ironia (che non è sarcasmo) è la carta da giocare, dunque, per costruire uno sguardo laterale e più libero sulle cose, prendendo le distanze anzitutto da sé stessi, nella consapevolezza dell’inevitabile scacco finale (il nostro autore non era un ottimista), senza appartenenze fisse. Così si comprende la scelta di Tomàs, il protagonista de L’insostenibile, che si rifiuta a sue spese di firmare due lettere: quella che gli sottopone il regime e quella che gli sottopongono i dissidenti del regime. A entrambe le offerte risponde: «non firmo lettere che non ho scritto io». Risposte destabilizzanti sia per i pretoriani del potere ufficiale, sia magari per chi, qualche decennio fa, andando in piazza a gridare col coro “Élections, pièges à cons!” abbracciava semplicemente un conformismo di diversa matrice.

Così come in parte destabilizzante era l’idea kunderiana di Europa, oggi condensata in Un Occidente prigioniero o la tragedia dell’Europa centrale (Adelphi), in cui si discute, tra le altre cose, del posto da assegnare a quella «incerta zona di piccole nazioni strette tra Germania e Russia». Quegli Stati, ha affermato Kundera, sono Europa centrale («Guardate la cartina: Praga è al centro dell’Europa», diceva lo scrittore ai suoi allievi). Budapest, Belgrado, Praga e Varsavia, hanno un’unica matrice culturale in comune con Vienna e Parigi. Agli occhi dell’Occidente invece – questa l’accusa di Kundera  ̶  durante la Guerra fredda sono state malamente considerate periferia occidentale del blocco sovietico. In tal modo si disconosceva una fratellanza spirituale e si ratificava pigramente un dominio basato sulla forza. Il tema, comunque la si pensi, è di scottante attualità: si ripropone oggi, fatti i debiti aggiustamenti, con la questione dell’Ucraina.

In seguito alla sua morte, su Kundera molto si è già scritto e moltissimo altro si dirà. Se agli esperti toccherà scandagliare ogni angolo della sua opera letteraria, richiamare il rapporto tra umorismo, libertà e potere, mi sembra il modo migliore per mettere in luce una cifra importante del suo lascito, fatto di letteratura che non vuole medicalizzare il mondo, aggiustarlo, sanarlo, ma che sa essere «un antidoto alla dismisura politica, che permette di tenere a bada il generale attraverso il particolare e dissolve i grumi del conformismo di massa», come disse anni fa il filosofo Alain Finkielkraut parlando di Kundera.

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