Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan (Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Ultimamente Napoli è diventata un brand ricercato. Il “rinascimento partenopeo” è sulle pagine dei giornali tutti i giorni, e soprattutto invade i social grazie ai tantissimi content creator di ogni parte d’Italia, che parlano della pizza, della frittura, del panuozzo, dei suoi panorami, delle abitudini, dei monumenti, del ragù, delle chiese, della sua storia. La moglie della rockstar Sting, Trudie Styler, le ha dedicato un documentario. I Coldplay hanno suonato allo stadio Diego Armando Maradona, cantando pure Pino Daniele. Il Napoli ha vinto lo scudetto. La musica Made in Naples è in cima al mercato musicale, basta vedere il successo di Geolier all’ultimo festival di Sanremo. Poi cinema e serie tv. In quanto napoletano ne sono molto felice, da napoletano alcune cose di questo successo mi lasciano a dire il vero perplesso. In quanto e da, infatti, delineano due condizioni distinte della stessa appartenenza.

Un napoletano che aveva chiara questa differenza era Massimo Troisi. Quando il Napoli vinse il suo primo scudetto, in una qualche località del nord Italia, certi personaggi affissero uno striscione con la scritta “Siete i campioni del Nord Africa”. Gianni Minà, in una mitica intervista televisiva, chiese a Troisi cosa ne pensasse. L’attore, con la sua solita genialità, rispose con un sottile riferimento all’apartheid: “Meglio essere campioni del Nord Africa, che fare striscioni da Sud Africa”. Tripudio in studio per la perla. Poco prima della freddura, però, disse pure, con aria quasi bonaria: “Sono invidie che chi vince si deve portare dietro”. Da una parte la bordata, ma dall’altra subito l’aristocratico distacco che plana sulle cose dall’alto, senza assecondare fino in fondo la tribalizzazione del conflitto, ma cercando un punto di fuga. Troisi era l’artista dal gesto incompleto e allusivo, dalla parola capace di penetrare, non però come la punta di un trapano, ma come fa il vento che arriva dal mare in estate, quello che porta uno scompiglio leggero, che ti rimescola i fogli sulla scrivania, ti suggerisce di cambiare sguardo, ma con garbo. Per questo, credo, Troisi non ha mai negato di pensare, recitare e parlare da napoletano (usava regolarmente il dialetto nei film e nelle interviste), ma ha sempre rifiutato di essere considerato “in quanto napoletano”, perché si è sempre sottratto ai regionalismi culturali, di qualsiasi genere fossero. Non ha mai voluto che “Massimo” fosse totalmente inglobato nella specie “napoletani”, voleva che la sporgenza della sua singolarità si vedesse bene oltre i bordi partenopei. Serve grande sapienza esistenziale per essere del tutto radicati e insieme del tutto originali, e Troisi ce l’aveva. Come l’avevano Eduardo De Filippo o Pino Daniele.

Quando gli chiedevano come e perché avesse cominciato a recitare, Troisi non ha mai nominato immancabili inizi difficili, la famiglia modesta, i genitori contrari, la periferia, insomma tutta quella retorica del riscatto oggi così in voga nel racconto dei successi (anche partenopei), che rifuggiva come la peste. “Eravamo una famiglia normale, il pomeriggio andavamo a teatro a divertirci e la sera trovavamo pure il piatto a tavola”, raccontava. Narrare una storia diversa, spiegava, sarebbe stato un tradimento alla fatica dei genitori, che hanno mandato avanti cinque figli coi sacrifici che possiamo immaginare. “Mio padre? Quando gli ho detto che volevo fare l’attore mi ha risposto: vuoi fare l’attore? Bravo! Veditene bene!”. A Minà che un giorno gli domandò il motivo della sua vocazione artistica, Troisi disse: “Un giorno lessi su un giornale che a Ornella Muti piaceva svegliarsi a mezzogiorno. E pensai: pure a me piace svegliarmi a mezzogiorno!”. Erano tutti modi per schivare l’incapsulamento nello stereotipo del ragazzo meridionale che esce dal ghetto e riscatta la sua schiatta sottomessa. Consapevole dell’esistenza del pregiudizio antimeridionale, che non era e non è una leggenda metropolitana, non accettava la più ammaliante delle segregazioni: quella della vittima investita di commiserazione.

L’ironia era anche il modo per dribblare un altro stereotipo, quello del napoletano artista per trasmissione genetica, simile a quello dei “neri che hanno il ritmo nel sangue”. Se reciti bene, diceva, ti dicono che non fai nulla di speciale, tanto sei napoletano, tutti i napoletani sono attori dentro. Canti bene? Vabbè, a Napoli si canta da mattina a sera. Troisi lucidamente avvertiva che dietro l’apparenza di un complimento allargato alla gens, in realtà spesso si riconduce il talento dell’individuo a caratteri categoriali, riducendone surrettiziamente il valore in base a una sorta di determinismo applicato alla cultura: l’eccezionalità della specie neutralizza l’eccezionalità del singolo esemplare. Certo, la cultura non sfugge alla topografia, questo il Massimo nazionale lo sapeva fin troppo bene, ma se la geografia smette di essere la premessa, per diventare svolgimento, c’è il rischio che, in questo caso, l’uomo venga sequestrato dalla napoletanità.

Forse la summa di tutto questo discorso, si trova nell’esilarante pellicola No grazie il caffè mi rende nervoso, in cui Troisi recita sé stesso alle prese con un misterioso serial killer, Funiculì Funiculà, interpretato da Lello Arena. I due si divertono a prendere in giro i luoghi comuni su Napoli. In una scena l’assassino minaccia Troisi di morte, a meno che quest’ultimo non si faccia pubblico portavoce del seguente messaggio: Napoli non deve mutare, deve restare sempre uguale, con la pizza, il mandolino, il sole, le canzoni napoletane di una volta. La chiusura di Massimo, pronto ad assecondare Funiculì Funiculà per il terrore di fare una brutta fine, è strepitosa: “Infatti! Ma perché Napoli deve cambiare? Da piccolo sono stato a Rovigo, poi ci sono tornato poco tempo fa: è uguale! Perché Napoli deve cambiare? Cambiate Rovigo!”. Ecco, Arena e Troisi sfottono gli stereotipi abbracciandoli e portandoli al parossismo. La loro era la voce di un’intera generazione che non voleva più essere raccontata dalla solita oleografia, che pur rispettando e amando Murolo, De Filippo e Di Giacomo, aveva bisogno di discontinuità nella continuità, di fondere in un volto inedito tradizione e modernità.

Se questo abbozzo storico è esatto, c’è dunque una fondamentale differenza tra il rinascimento napoletano di fine anni ’70 e quello odierno, sulla quale a mio avviso bisogna riflettere: se il primo era un movimento di persone che volevano emergere “da napoletani”, rivendicando cioè le proprie radici ma per lasciarle sullo sfondo, il secondo pare avere più la tendenza a essere un movimento di persone che vogliono emergere “in quanto napoletane”, che esibiscono cioè appena possibile il distintivo con la scritta “Je song ‘e Napule”. E così tutto ciò davanti a cui Troisi e amici fuggivano, oggi viene messo in mostra come marchio IGP: la pizza, il golfo, pasta patate e provola, il riscatto dalla periferia, il dialetto napoletano come valore in sé, ecc.. Se per Troisi il genius loci partenopeo doveva essere demitizzato (non ripudiato, son cose diverse), per evitare che l’inserimento nella “eccezione napoletana” diventasse l’etichetta cortese per una forma di ghettizzazione, oggi il genius loci napoletano urla la propria eccezionalità, inconsapevole del rischio proprio della auto-ghettizzazione.

Per quanto cool possa essere percepito oggi il neapolitan power, per quanto febbrile sia il turismo che ormai prende letteralmente a morsi Napoli, più la napoletanità conquista l’Italia, assimilando però le proprie figlie e i propri figli, più, per un effetto paradossale ma perfettamente logico, essa diventa una sorta di specificità regionale, che può diventare un franchising culturale tanto frequentato quanto, in fondo, scorporato dal resto del Paese. È questo pericolo esiziale che credo Troisi percepisse vividamente e che oggi, a mio avviso, abbiamo dimenticato.

Le polemiche sanremesi seguite al contestato successo del napoletano Geolier, che hanno fatto evocare perfino il razzismo antinapoletano, rilanciano la questione. Se Napoli non vuole essere completamente assorbita dal resto d’Italia, declamando la propria specificità, fa benissimo. Se tale pretesa però si tramuta in una nuova oleografia 2.0, che sostituisce la pizza a portafoglio con la pizza gourmet e Nino D’Angelo con Clementino, allora, in quanto napoletano, chi scrive rivendica la propria specificità rispetto a Partenope: resisto all’idea di essere assorbito da Napoli.

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