Marco Palladino (1993) è laureato in filosofia, presso l’Università Federico II di Napoli, con una tesi dal titolo Trascendenza e malum mundi. Karl Jaspers e Alberto Caracciolo. I suoi interessi di studio si rivolgono principalmente al rapporto tra filosofia e religione e tra filosofia e cinema. Di particolare interesse per la sua ricerca il dialogo con l’Oriente, come testimonia il saggio scritto per la rivista «Studi jaspersiani» sul rapporto tra Dōgen e Jaspers.
The Crow è l’adattamento della graphic novel underground di James O’Barr. Una storia che nasce dall’esigenza di trasfigurare il dolore e donare un significato diverso alla morte assurda della propria fidanzata, investita da un pirata della strada. L’assurdità della vicenda che ha cambiato per sempre la vita di O’Barr si riconnette all’assurdità che, tragicamente, ha posto fine alla vita del protagonista della pellicola, Brandon Lee, il quale, con questo film, giunge a svincolarsi definitivamente dall’ingombrante figura paterna dopo aver realizzato da protagonista e da coreografo l’action movie Drago d’acciaio.
Per calarsi perfettamente nei panni di Eric Draven, le cui fattezze fumettistiche si ispirano a quelle di Peter Murphy dei Bauhaus, Brandon dovette cambiare regime di allenamento. Oltre alle arti marziali, delle quali è sempre stato un assiduo praticante, introdusse molti esercizi aerobici e alcuni esercizi con i pesi per distendere ulteriormente i muscoli. Perse, in pochi mesi, la bellezza di 10 kg, raggiungendo il peso corporeo di 63 kg (era alto 183 cm).
A questo allenamento molto duro, di cut estremo, aggiunse l’immersione in una vasca gelida. Secondo Brandon Lee, la risurrezione di Eric Draven è l’emersione da un gelo abissale. Un gelo concreto, fisico e metaforico. La scena, infatti, fu girata in pieno inverno, sotto la pioggia. Ed è proprio nei frammenti che compongono quell’arco narrativo che possiamo ammirare l’ultra-definizione fisica di Brandon Lee. In particolare, nella scena in cui si arrampica sulle scale e in quella in cui assistiamo alla definitiva trasformazione nel Corvo, nell’angelo gotico della vendetta, è possibile constatare la perfezione estetica dei dorsali (i romboidi, in particolare, sono definiti al massimo, senza per questo perdere vigore).
Brandon Lee era un attore completo. Il Corvo fu la definitiva consacrazione delle sue doti di attore drammatico, ma anche la testimonianza della sua incredibile capacità di modellare e adattare il corpo alle esigenze del copione, la prova della sua totale connessione con la sapienza inscritta nei muscoli. Non è un caso che fu scelto dalle sorelle Wachowski per interpretare Thomas Anderson/Neo nel celeberrimo Matrix, ruolo che poi sarà proposto a Will Smith e, in seguito, a Keanu Reeves. Diversamente da questi ultimi, Brandon Lee era un atleta e un combattente, un conoscitore autentico del Jeet kun do.
The Crow, dunque, è una delle poche opere in cui ne va, letteralmente, della vita e della morte del protagonista e dell’autore. Brandon ha dato la sua vita per interpretare Eric Draven. James ha affidato alla scrittura e al disegno il compito di convertire la sua morte in catarsi. The Crow, come ha scritto giustamente Alex Proyas, non è solo un film. The Crow è, forse, il solo film che aderisce completamente alla vita e alla morte del suo protagonista. Il solo film ad autotrascendersi, ad annullarsi come rappresentazione, a distruggere completamente la funzione segnica dell’immagine. The Crow non è un film di..., The Crow è, interamente, l’esistenza di Brandon Lee.
Attraverso la lettura di alcuni passi dell’opera originale si possono carpire analogie e differenze, L’opera originale, a dispetto dell’adattamento, possiede una struttura meno lineare, più onirica, e più marcatamente debitrice delle influenze letterarie che l’hanno ispirata. La scrittura di O’Barr è una scrittura poetica che sembrare conservare la memoria di Rimbaud, Baudelaire e soprattutto di Edgar Allan Poe e del racconto che ne costituisce la fonte ispiratrice primaria: The Raven. Il Corvo del fumetto, come il Corvo del racconto di Poe, è più di una guida spirituale. È letteralmente la coscienza morale di Eric. Il tratto espressionista, l’atmosfera decadente e decadentista, unita al sostrato musicale (evidente l’influenza dei Joy Division, dei Cure, del post-punk inglese in generale. Peter Murphy, come detto, sarà il punto di riferimento visivo per la delineazione della figura di Eric Draven) confluiranno nell’adattamento di Proyas, il film più gotico degli anni Novanta e non solo. Qui il montaggio delle scene segue letteralmente la musica con un ritmo serratissimo. Burn dei Cure, scritta apposta per il film, scandisce il rituale della trasformazione di Eric in Corvo. Dead Souls dei Joy Division, reinterpretata magnificamente dai NIN, accompagna la corsa liberatoria di Eric sui tetti della città poco prima dell’incontro con Tin Tin. Da ricordare, in questo connubio felice tra musica e montaggio, la presenza dei Pantera (anche loro con un pezzo scritto per il film, The Badge) I Medicine (gruppo shoegaze della prima ondata), gli Stone Temple Pilots, i RATM, Jane Siberry, i Violent Femmes etc.
Ma alle evidenti influenze desunte dall’immaginario gotico, vi sono anche degli elementi teologici sovversivi: «Mother is the name for God on the lips and hearts of all children». Sono le parole che Eric Draven, in una scena che ricalca il meraviglioso episodio del vangelo in cui Gesù incontra la donna adultera, rivolge a Darla, la madre assente di Sarah. Dio è Madre perché le madri, generando, imitano l’atto de-creativo (ci riferiamo qui alla lettura weiliana dell’Inizio) compiuto al principio della creazione. Condurre una vita dal nulla all’essere vuol dire, al contempo, condurre se stessi dall’essere al nulla, un nulla fecondo, gravido di un amore che inverte la china dei gravi, il peso opprimente della forza. Eric Draven, dunque, sia nell’opera originale di O’Barr sia nella trasposizione di Proyas, potrebbe essere visto come una figurazione cristica, a metà strada tra vangelo e Apocalisse. Una figura cristica che ritorna dalla morte per separare i giusti dagli ingiusti. Egli si muove sempre tra giustizia e amore, tra vendetta e compassione. Egli ritorna nelle vite di Sarah, di Darla, dello stesso Albrecht, per mostrare che, nel dolore esistenziale, nella perdita verticale di ogni senso dell’esistenza, c’è un’altra via. Eric Draven è un angelo bifronte. Un angelo della vendetta e dell’amore incondizionato.
Il mondo rappresentato da The Crow è un mondo che annega senza sosta nella disperazione, nel sentimento dell’impossibilità di riannodare i fili del senso. Ma vi sono attimi di sosta, di tregua, in cui il ritmo della narrazione si stagna in una quiete irreale, nei quali l’eternità, col suo incedere silenzioso, affetta la necessità aprendo il varco insperato del possibile. Poco prima di incontrare Sarah sulla tomba di Shelly, Eric si appoggia alla trave di una impalcatura. Sosta nella consapevolezza che sta tornando a casa, da Shelly, sul suolo sacro del loro amore. Il suo spirito si rapprende tutto in un sospiro. Le note di Graeme Revell (On Hallowed ground) tessono la trama musicale di questo tempo assoluto, in cui l’oscurità sembra stingersi e trasfigurarsi in altro. La vista dei bambini che gli scorazzano intorno, che abitano per loro costitutiva natura un mondo altro, un tempo diverso, strappa un sorriso a Eric e permette che irrompa un grammo di innocenza negli abissi del male. Questo momento, insieme ai ricordi in flashback, non solo intensificano la componente squisitamente psicologica dell’opera, ma istituiscono all’interno della storia un nuovo legame tra tempo, eternità e dolore esistenziale.
I ricordi rappresentano un film all’interno del film, costruito sapientemente attraverso un montaggio alternato che fa perno sull’utilizzo di una fotografia immersa nel rosso. Proyas utilizza un colore nel quale si coagula originariamente un’ambiguità semantica. Il rosso, infatti, significa violenza, la violenza perpetrata dagli scagnozzi di Top Dollar ai danni dei promessi sposi Eric e Shelly, e allude alla passione e all’amore che della violenza e della morte sono la negazione. Il rosso di questi flashback sovvertono il tempo esteriore, cronologico, intingendo ogni immagine del tempo interiore. Queste folgorazioni istantanee, che ci conducono nella mente del protagonista, inducono Eric a istituire un nuovo rapporto col tempo, con l’esistenza e il male. Egli realizza sul piano esistenziale le parole di Shelly. Ogni attimo è immenso, latore di un significato. Non è vera la tesi dell’Ecclesiaste per cui tutto è vanità delle vanità. Tutto, anche il dolore, possiede un significato che non riusciamo a scorgere. Questo significato, che non annulla la fatticità del dolore, ma la trasfigura, convive con il male radicale. Un male che prima ancora di essere esplicitato sul piano narrativo, è tangibile sul piano eminentemente visivo.
La scenografia, in particolare, come nel successivo Dark City, mostrando il suo legame con la lezione espressionista, trasuda quella disperazione ontologica, quel malum mundi, centro nevralgico della meditazione di un grande filosofo italiano: Alberto Caracciolo. Il male, in The Crow, non è solo il frutto del libero arbitrio, di scelte morali erronee. Bensì, è la polpa dell’esistenza stessa. («Vittime, non lo siamo tutti?»). Il male non è privatio boni (Plotino, Agostino), ma tremenda realtà. Il male è metafisico, ontologico, innervato alle strutture dell’essere. È l’assurdo, evocato da Camus, il divorzio fra l’attore e la scena, fra la richiesta di senso e l’irragionevole silenzio del mondo.
Ma The Crow evoca il male e, al tempo stesso, convoca la sua negazione. È un cammino di vendetta, certo, ma soprattutto di redenzione. Un cammino in cui morte, amore ed eternità formano un nesso triadico indissolubile. È la morte, come sostiene la Weil, a conferire ad ogni istante il sigillo dell’eternità, del tempo irripetibile, della sua eccedente interiorità. Senza il finito, la morte, non ci sarebbe l’infinito. È la morte, paradossalmente, a rendere, come per Shelly, ogni cosa degna di essere vissuta, irradiante un senso ulteriore. La nostra vita è preziosa proprio perché è appesa alla voragine del nulla. Ma quella voragine non è tutto. L’amore è a-mors, non-morte. Nel bel mezzo della morte, della disperazione ontologica, si innalza l’altro dalla morte: l’amore. Amare significa dire, con Marcel: «Tu non morirai», benché la morte ci cinga da parte a parte, quantunque si muoia innumerevoli volte nell’arco di una vita. La storia d’amore al centro della vicenda, la storia tra Eric e Shelly, si sovrappone tragicamente, fin quasi alla identificazione, con la storia d’amore tra Brandon ed Eliza Hutton. Brandon, come Eric, si sarebbe dovuto sposare subito dopo la fine delle riprese, nell’aprile del 1993.
Egli è riuscito a essere Eric Draven perché, come lui, incarnava l’amore come porta di accesso all’assoluto, l’idea marceliana dell’amore come trascendimento della morte e attingimento della presenza esistenziale del tu amato. L’amore, sulla scorta di Marcel, ma anche di Erich Fromm, non è solo un bisogno, un desiderio, ma l’orientamento di tutta l’anima, l’atteggiamento di tutta l’esistenza, che elegge l’altro a singolo fra i singoli, intravedendo nella singolarità irriducibile della sua carne la divinità, la sacralità, l’inviolabilità, i segni della libertà. L’amore, questo ci insegnano Eric/Brandon, è promettere ciò che non si può promettere. È promettere, nello spazio della relazione, nello spazio in cui ognuno è se stesso e altro da sé, l’annullamento del tempo, l’ingresso nella finitezza radicale della vita di un barlume di eternità, un barlume che salva. Perché, come si dice ne Il cantico dei cantici, il libro più erotico della Bibbia, «forte come la morte è l’amore».
La scena finale di The Crow, con Shelly che si china su Eric, in questo orizzonte concettuale e simbolico, è un sogno, il sogno di Eliza. Shelly che accarezza Eric, che nel silenzio trascendente di uno sguardo d’amore lo rassicura, è Eliza stessa. In un tempo oltre il tempo, nel tempo dell’amore, Eliza/Shelly sussurra a Brandon/Eric queste parole: «le case bruciano, le persone muoiono, ma il vero amore – il nostro – è per sempre».