Fernando Massimo Adonia (1982) è giornalista e saggista, collabora con "LiveSicilia", "Il Giornale Off", "Cultura Identità" e il mensile "S". Dirige il magazine "Paesi Etnei Oggi". Si è occupato del rapporto tra le forme del potere politico e il dominio religioso.
Recensione a
M. Borghesi, Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e «ospedale da campo»
Jaka Book, Milano 2021, pp. 272, € 20,00.
Tra Papa Francesco e gli Stati Uniti d’America c’è un problema. Un problema serio che passa dalle lacerazioni che attraversano la nazione capofila delle democrazie occidentali e che mina fino alle fondamenta l’edificio della Chiesa americana. Riavvolgendo il nastro degli eventi e arrivando al 2013, anno della rinuncia di Benedetto XVI e dell’avvio del pontificato bergogliano, si ricorderà come fu decisivo l’attivismo dei cardinali statunitensi affinché al soglio non salisse nuovamente un europeo, e più precisamente un italiano. Un modo per arginare e punire quanti hanno messo in ombra le finanze vaticane e coloro che non sono stati in grado di affrontare la piaga dei preti pedofili. Sembra un’era fa, perché finita la luna di miele, le maggiori incognite per Bergoglio sono arrivate proprio dal clero americano.
Nella storia recente, mai un papa è stato tanto criticato dall’interno. Perché ritenuto liberal, globalista, progressista, finanche «comunista». E persino «eretico». Va da sé che le cose non stiano affatto così. Dall’altra parte dell’oceano Atlantico, però, tali attributi hanno trovato terreno fertile e un consequenziale riverbero mondiale: parte delle parole d’ordine contro l’attuale vescovo di Roma – o in maniera consapevole o in maniera riflessa – si abbeverano pienamente, infatti, alle coordinate del dibattito politico-culturale americano. Per capire la questione è necessario inquadrare il peso dell’agenda teocon nella vita pubblica statunitense.
Da anni, Massimo Borghesi ha avviato un programma di studi destinato a codificare gli statuti intellettuali di Jorge Mario Bergoglio. Esperto dell’opera dell’italo-tedesco Romano Guardini, non è stato difficile per lui individuare quanto il Papa sia in debito con una delle menti ispiratrici del cattolicesimo contemporaneo, concilio Vaticano II incluso. Riconducendo al principio della Gegensatz («l’opposizione polare») le linee guida della prassi pastorale di Bergoglio e il relativo approccio alle realtà mondane, Borghesi ha voluto prendere di petto e sfatare quel luogo comune che vuole l’attuale pontefice privo di un solido retroterra narrativo. Con il saggio Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e «ospedale da campo» (Jaca Book, 2021), l’ordinario di Filosofia morale a Perugia, fa un ulteriore passo in avanti nella comprensione dell’attuale pontificato: indagare le ragioni profonde di un dissidio tutt’altro che occultabile, una sfida aperta con il cattolicesimo d’Oltreoceano. Uno studio che vale inoltre quanto un’introduzione scientificamente intesa all’America contemporanea.
C’è un fatto che più di altri segnala plasticamente una frattura che col tempo ha assunto toni addirittura apocalittici: la clamorosa richiesta di dimissioni che l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio negli Stati Uniti, ha preteso dal Papa. Sullo sfondo la dinamica inedita di voler incoronare l’ex presidente Donald Trump a improbabile defensor fidei del cattolicesimo Usa e quindi mondiale.
Evidentemente qualcosa non torna. Scrive Borghesi:
Le sue due Lettere al Presidente, del 7 giugno e del 25 ottobre 2020, rappresentano un esempio unico, a tratti deliranti, del manicheismo-politico circolante in alcuni settori ecclesiastici. Se nella prima lettera si tratta di due schieramenti biblici, “i figli della luce e i figli delle tenebre”, il primo incarnato da Trump e il secondo dal deep state e dalla deep church globalista, è nella seconda lettera, quella di ottobre prossima alle elezioni, che il tono apocalittico raggiunge il suo acme. In essa Trump diviene il kathèkon paolino, il “potere che frena” la potenza del male, quella potenza che troverebbe espressione nel Papa romano dipinto come una sorta di anti-Cristo (p. 16).
Serve un passo indietro per comprendere quanto sia profondamente mutato il rapporto tra cattolicesimo e Stati Uniti d’America negli ultimi quarant’anni, da quando cioè il repubblicano Ronald Reagan era l’inquilino della Casa Bianca e lavorava al collasso dell’Urss stabilendo un ponte ideale con Giovanni Paolo II, il papa polacco che ha dato la spallata decisiva ai regimi dell’Est. Prima di allora, il peso della Chiesa romana nella vita nazionale statunitense era assai ridimensionato rispetto ai tempi attuali. Con la caduta del Muro di Berlino trionfa l’idea che non ci siano alternative possibili al liberal-capitalismo e a uno sviluppo differente dalla storia mondiale. Il primo maggio del 1991, a un secolo dalla Rerum Novarum di Leone XIII, il pontefice pubblica l’enciclica Centesimus Annus di Giovanni Paolo II. L’interpretazione di Michael Novak, filosofo cattolico e conservatore che legge nel documento papale il manifesto che pone fine all’orientamento anticapitalista della dottrina sociale della Chiesa, fa breccia nella cultura americana e spiana ampi sentieri non sempre in linea con l’orientamento romano. Da qui l’abbraccio tra cattolicesimo e capitalismo. Per Massimo Borghesi si tratta di un’ermeneutica tanto erronea quanto fuorviante, ma che produce effetti teologico-politici notevoli, contribuendo a polarizzare il tessuto civile statunitense, fino alle lacerazioni attuali. Se il mondo liberal, la sinistra, è favorevole all’aborto e attento alle istanze lgbt; il cattolicesimo conservatore, stringendo alleanza con i conservatori di matrice evangelica, sposa in toto le battaglia culturali (cultural wars) a difesa della vita e contro i matrimoni omosessuali. Una contrapposizione irriducibile, che in un certo qual modo Papa Francesco decide di superare rimettendo al centro dell’agenda cattolica la solidarietà, l’ambiente e un passo missionario verso quelle che il pontefice definisce «periferie esistenziali». Il risultato è invece che Bergoglio, in questo scontro muscolare, ci finisce dentro, risucchiato in un vortice carico di conflittualità che non si esaurisce nel dibattito americano, ma ha proseliti anche in Italia.
Scrive Massimo Borghesi, proponendo un’analisi esaustiva:
Perché é la prospettiva del Papa non viene compresa? Perché viene liquidata come modernista, progressista, addirittura “eretica”? Che cos’è che non funziona più nel pensiero cattolico contemporaneo dal momento che non riesce più a tradurre il messaggio del Concilio dell’ora presente? Nel caso americano per capire la coupure, la “rottura”, occorre partire dalla storica sentenza “Roe versus Wade”, con cui la corte suprema degli Stati Uniti legittima nel 1973 il diritto di aborto, e dalle reazioni e dalle trasformazioni del cattolicesimo americano, durante la presidenza di Ronald Reagan (1980-1989). È allora, con la corrente dei Neoconservative promossa da intellettuali cattolici come Michael Novak, George Weigel, Richard Neuhaus, Robert Sirico, che prende forma l’orientamento dei teoconservatori. Una corrente importante che, a partire dagli anni ’90, diverrà egemone nel mondo cattolico statunitense, al punto da definire i due pilastri di una nuova Weltanshauung: piena conciliazione tra cattolicesimo e capitalismo e cultural wars sul terreno etico. Sorge il cattocapitalismo, nuova forma dell’«americanismo cattolico» dominato dall’esigenza di una piena compenetrazione tra la fede e l’ethos americano. L’orientamento politico viene a condizionare quello religioso (p. 22).
Le vicende dell’11 settembre 2001 e la successiva campagna globale contro il terrorismo di matrice islamista, «l’asse del Male», non faranno altro che esasperare la postura battagliera dei teoconservatori, i quali individuano nell’Islam e in quanti vorrebbero aprire finestre di dialogo con esso i nuovi nemici. Un atteggiamento manicheo sanzionato non soltanto da Bergoglio, ma prima ancora da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Ma è il papa argentino a finire sul banco degli imputati.
La laicità americana conosce una modulazione del tutto particolare, segnata da una sacralizzazione del potere e che di recente ha contagiato anche il mondo cattolico made in Usa. Una dimensione del pensare che distingue a fatica gli ambiti e che pone come orizzonte ultimo l’ideale messianico della nazione benedetta da Dio chiamata a una missione storica, quella di esportare la democrazia nel resto del globo. Si tratta di un credo implicito che, in un certo qual modo, accomuna destra e sinistra. Anzi, la novità del pensiero neocon è stata proprio quella di aver trasferito nel campo conservatore attese che in epoche precedenti stavano dall’altra parte della barricata.
Spiega Massimo Borghesi:
Il movimento teocon, che a partire dagli anni ’80 ha preso il posto del messianismo catto-marxista degli anni ’70, rappresenta una teologia politica conservatrice, una variante di destra della teologia politica di sinistra. Al pari di quest’ultima anche la prima concepisce la fede come un messaggio interamente terreno nei mezzi e nel fine, la usa come un volano di secolarizzazione. Per questo la sua parabola è interamente legata al movimento della politica americana con le presidenze Reagan e Bush jr. […] L’investitura messianica che segna l’era Bush implica una metamorfosi del politico, che diviene religioso, e del religioso, che diviene politico. […] Un processo che, dopo Bush, caratterizzerà anche il messianismo democratico promosso da Barack Obama. (pp. 30-31).
Gli effetti di questo complesso d’idee divampano dall’America sino all’Europa. Da qui il passaggio dall’essere cristiani all’essere cristianisti, secondo la definizione data dal vaticanista Lucio Brunelli e che Borghesi assume come bussola interpretativa:
Tutti i cristianisti hanno il piglio del cattolico da combattimento. Basta chiacchiere da ecumeniche, occorre un’identità forte. Si sentono minoranza. In politica stanno di preferenza con il centrodestra, in economia sono ultraliberisti, a livello internazionale, ferventi americanisti […] Ma la vera novità è il pathos che ci mettono. Lo spirito di militanza. E soprattutto la forte motivazione ideologico-religiosa. Dalla teologica dell’unicità di Cristo Salvatore discende senza dubbi un atteggiamento belligerante verso l’Islam. Dalla critica ortodossa del pelagianesimo viene l’accusa sprezzante a quei cristiani che si dedicano prevalentemente alle iniziative sociali in favore degli “ultimi”. Dalla denuncia dell’irenismo ideologico si arriva all’entusiasmo per le spedizioni militari alleate. Tutte queste caratteristiche sono l’essenza del perfetto cristianista.
L’impostazione di Papa Francesco, evidentemente, si muove su ben altre coordinate. In prima battuta c’è l’attenzione alla divina misericordia, posta su di una linea d’urgenza missionaria che precede la formulazione e la difesa delle singole verità morali. C’è il primato della solidarietà e della promozione umana dinanzi alle parole d’ordine del mercato. C’è in ultimo il primato della pace dinanzi ai proclami di guerra. Massimo Borghesi analizza e denuncia il fraintendimento tutto americano che vede in Bergoglio un pontefice «buonista, dal pensiero edulcorato e femmineo». Quello di Papa Francesco, secondo il filosofo con cattedra a Perugia, è un pensiero integralmente cattolico e che si abbevera non solo alle intuizioni di Romano Guardini e alla dottrina sociale, ma che è pienamente modellato sulla mistica di sant’Ignazio di Loyola. Il capostipite dei gesuiti. E il pontefice è gesuita.