Fernando Massimo Adonia (1982) è giornalista e saggista, collabora con "LiveSicilia", "Il Giornale Off", "Cultura Identità" e il mensile "S". Dirige il magazine "Paesi Etnei Oggi". Si è occupato del rapporto tra le forme del potere politico e il dominio religioso.

Recensione a: C. Calli, Democrazia, ultimo atto?, Torino, Einaudi 2023, pp. 144, € 15,00.

È in quel punto interrogativo lasciato penzoloni nel titolo che viene fuori – senza bisogno di ulteriori accertamenti – tutta l’inquietudine dell’autore. Con Democrazia, ultimo atto? Carlo Galli prova a ricapitolare l’ampia letteratura scientifica e le preoccupazioni che da più di due decenni hanno in oggetto la crisi del sistema politico occidentale. Un rischio che lo stesso professore modenese sta denunciando da tempo attraverso, soprattutto, quelle pubblicazioni che hanno, anche per l’agilità della mole cartacea, una più spiccata missione divulgativa.

Ci ha pensato con i recenti libri editi dai tipi del Mulino nella collana “Parole controtempo”, Ideologia (2022) e Sovranità (2019). Prima ancora, aveva affrontato le medesime diagnosi con Il disagio della democrazia (Einaudi, 2011) e Democrazia senza popolo: cronache dal parlamento sulla crisi della politica italiana (Feltrinelli, 2017), testo quest’ultimo che ha un valore teoretico e biografico particolare, perché dà testimonianza dell’esperienza vissuta da una visuale privilegiata quale deputato, prima, del Pd guidato da Pierluigi Bersani, poi, di Sinistra italiana e, in ultimo, di Articolo 1, formazione d’ispirazione socialdemocratica nata dalla scissione interna al Partito democratico guidato da Matteo Renzi.

Il professore emerito di Storia delle dottrine politiche dell’Università di Bologna ritorna a battere sullo stesso tema, prendendo di petto i recentissimi fatti storici, collocandoli in un medesimo piano inclinato: la grande crisi del 2008, che ha rivelato le imposture e le fragilità della finanza globale, il ritorno devastante della guerra in Europa, la gestione emergenziale dell’epidemia da Covid 19 e la crescente invasività della tecnica, irrobustita dalle possibilità offerte dall’intelligenza artificiale. Un libretto, insomma, che mette assieme diagnosi e possibile cura, una terapia – per inteso – che prevede «un forte investimento politico». Quello pubblicato non vuole essere lo spartito di una messa da requiem, semmai un appello (forse disperato). Carlo Galli auspica, infatti, la «rivitalizzazione» delle democrazie occidentali e il ritorno a quella dimensione dove «libertà, uguaglianza e trasparenza» stiano in una equilibrata convivenza, seppur conflittuale. Un rapporto che, evidentemente, è entrato in sofferenza, se non in agonia. E non a causa delle cosiddette democrature partorite in contesti territoriali che non hanno conosciuto i travagli dell’età Moderna di marca europea. E neanche dai sovranisti o dalle proposte populiste: questi sono semmai segnali importanti di un malessere che deve essere ancora pienamente rappresentato. Le ragioni stanno altrove, all’interno.

L’avvio dello squilibrio, per Galli, è arrivato con la graduale riprogrammazione delle democrazie liberali nelle democrazie liberiste. Lo snodo storico è individuabile in quel lasso di tempo che, da un lato, ha visto trionfare, in un tandem che teneva insieme le due sponde dell’oceano Atlantico, le ricette sostenute da Margaret Thatcher e Ronald Reagan; e, dall’altro, dal collasso dell’Unione sovietica sotto le macerie del muro di Berlino e del socialismo reale.

L’ottimismo che ha accompagnato la fine del secolo scorso – che ha visto in molti settori la dimensione dell’io prevalere impetuosamente sulle ragioni del noi, favorendo meccanismi di competitività economica privi di compensazioni –  ha scatenato, invece, una molteplicità di contraddizioni che hanno minato gli equilibri precedentemente acquisiti in Occidente. Perché – in fondo – c’è un nesso implacabile tra democrazie e questa parte del globo. Parafrasando Novalis, autore di Europa ovvero Cristianesimo, dire Occidente è evocare la Democrazia tout court (e viceversa). Un’aderenza che tuttora coincide e che Galli – con una consapevolezza storica che può apparire disturbante – riconduce agli eventi della Seconda guerra mondiale e all’iniziativa militare statunitense. Una campagna in armi che ha permesso alle democrazie di «germogliare anche dai semi non molto fecondi delle precedenti esperienze», quelle tramortite dall’avvento dei fascismi in Italia e Germania; e impedito, allo stesso tempo, al comunismo di ispirazione sovietica di attecchire nel polmone ovest dell’Europa.

Quella fase storica ha determinato la stesura di costituzioni liberaldemocratiche tuttora formalmente efficaci, favorendo la ricostruzione materiale e morale del Vecchio continente, innescando inoltre un’importante spinta industriale e un’effervescente dialettica politica all’interno degli Stati  (talvolta esasperata fino alle pagine insanguinate dal terrorismo). Già dall’atto di nascita, però, le liberaldemocrazie pativano una contraddizione – un’aporia – interna irrisolvibile: reggersi contemporaneamente sulla libertà individuale – «quell’energia autonoma di attività morale, intellettuale, pratica, che si esprime attraverso la sequenza dei diritti: umani, civili, economici, sociali e politici» – e sulla libera sovranità statale. Due istanze che, in extremis, si elidono naturalmente a vicenda.

La democrazia liberista, che pratica e incoraggia una libertà ristretta all’utile economico, ha infatti amplificato le contraddizioni. L’iniziativa neo liberale ha messo fine a quella sorta di compromesso socialdemocratico – gestito de facto da forze politiche di ispirazione popolare – che ha favorito la ridistribuzione delle ricchezze e lo sviluppo dello stato sociale quale fiore all’occhiello della convivenza civile. Il risultato è stato l’aumento delle diseguaglianze e l’assottigliamento del ceto medio. Un processo regressivo che ha visto le istanze dell’economia prevalere su di una politica sempre più spoliticizzata e riprogrammata su asettiche funzioni amministrative.  «Perché» – si chiede Galli – «la crisi del mondo liberale è sopravvenuta senza che le forze della sinistra l’abbiano vista arrivare, né riuscissero a porvi rimedio? Perché quella crisi è invece sfruttata a destra? E la risposta è che solo se si affrontano a viso aperto contraddizioni e aporie, riconoscendole, si può gareggiare alla pari con chi quelle contraddizioni e quelle aporie conosce, sa sfruttare, giocandole oltre e contro la democrazia» (p. 11).

C’è una democrazia da salvare, dunque. Ma da cosa? Innanzitutto dal ritorno prepotente delle opacità: della non chiarezza, cioè, dei processi decisionali, regrediti in pratiche sempre più oligarchiche in antitesi con le premesse che la Modernità aveva posto aprendo la strada alle democrazie. Il presente, intanto, si muove in una direzione per certi versi simile a visioni distopiche tutt’altro che rassicuranti: «La trasparenza si è rovesciata: trasparente – nonostante la tanto menzionata privacy – è il soggetto, visto, spiato controllato ed eventualmente punito dal “capitalismo della sorveglianza” come lavoratore, dallo Stato come “Buon cittadino”, come contribuente e come portatore di vaccinazioni, dalle autorità locali come fruitore indocile della nettezza urbana digitalizzata e come automobilista da disciplinare e da multare; monitorato dalle piattaforme come consumatore di beni e servizi; profilato e indirizzato, governato (la cibernetica ritrova qui la propria etimologia) non all’ingrosso, come quando i soggetti venivano inquadrati e irreggimentati da tecnologie meccaniche, ma al minuto, con strategie mirate, personalizzate, costruite su misura attraverso la raccolta dei dati, delle tracce, dei documenti, che lo stesso individuo assoggettato lascia dietro di sé più o meno consapevolmente» (p.109), scrive Galli evidenziando come la dimensione amministrativa del vivere quotidiano sia divenuta prevalente rispetto ai diritti dei cittadini, con il rischio concreto di conculcarli.

Il paradosso attuale è che chi detiene taluni poteri è sempre meno visibile, riconoscibile, individuabile e quindi controllabile. Quella trasparenza che doveva essere condizione necessaria di un potere denudato dai pericoli connessi all’uso illimitato di ogni arbitrio, si è trasformata invece nella sistematica profilazione dei soggetti umani, ormai – loro sì – privi di zone d’ombre dinanzi all’occhio vigile delle nuove autorità non soltanto istituzionali. «Gli algoritmi» – denuncia Galli – «sono segreti (almeno quelli coperti da brevetti, cioè in pratica tutti), ma agiscono sostanzialmente raccogliendo dati e creando, da questi, modelli, pattern statistici che discriminano ciò che è anormale, segnalandolo» (p.109).

La questione della compressione dei diritti da parte dello Stato arriva anche da un altro fronte, quello della «gestione del caso d’eccezione», momento che rivela il luogo in cui ha origine la sovranità. Si tratta di un tema controverso che ha stimolato il dibattito teologico-politico del Novecento e che ha visto come protagonisti – da destra a sinistra – Carl Schmitt, Walter Benjamin, Jacob Taubes, Mario Tronti e Giorgio Agamben. Uno strumento tornato di prepotente attualità in forza del continuo ricorso a misure d’emergenza, divenute le «nuove forme di normalità», il cui utilizzo è divenuto sempre più necessario a scapito del corretto funzionamento delle democrazie e dell’erogazione dei diritti. Segnale, questo, di una instabilità che i sistemi occidentali non stanno più riuscendo a gestire senza il ricorso a massicce dosi di paura collettiva. La vicenda pandemica, in particolare, ha manifestato una dimensione che ha rafforzato le possibilità degli Stati di decidere aggirando le procedure democratiche e il legittimo controllo dei rappresentanti parlamentari. Carlo Galli denuncia un nuovo sistema di governo utile a ristabilire l’ordine muovendo le leve – a partire dalla legittimazione morale offerta dagli uomini di scienza – di un pericolo incombente da definire volta per volta, ma da neutralizzare a tutti i costi: «Paura per la stabilità finanziaria, paura per i risparmi, per la questione ambientale e climatica, per la sostenibilità del sistema pensionistico, per la crisi demografica, per la cosiddetta invasione dei migranti, per molteplici insidiose pandemie future, per la guerra». E aggiunge: «Non c’è paura che non sia utilizzata per rendere il cittadino fame futura famelicus, inquieto per l’oggi e per il domani, come i lupi dello stato di natura» (pp. 118-119).

Come detto, lo scopo dichiarato di Galli è salvare la democrazia e ri-democratizzare il sistema attuale, scommettendo sulla funzione della critica per arginare le spinte postdemocratiche e orientare nuovamente la politica verso la dimensione emancipativa che è propria del Moderno. «Della democrazia politica si deve certamente presupporre il soggetto attivo: in linea di principio il popolo, che rivendica la propria posizione di titolare della legittimità», afferma. Un’inversione di rotta che non sia il canto del cigno: ecco l’auspicio. Tuttavia c’è da fare i conti con un passaggio che soltanto gli storici, in futuro, sapranno decifrare.

Carlo Galli ha studiato l’opera di Carl Schmitt e di Juan Donoso Cortés, due cattolici europei che hanno visto venir meno le categorie politiche, sociali e culturali delle rispettive epoche. Nelle loro pagine c’era sia il disvelamento dei meccanismi originari di assetti prossimi al collasso, che l’ingenua speranza di tenerli in vita, anche a costo di ricorrere come estremo rimedio allo strumento terapeutico della dittatura. Il professore di Modena sta decisamente da un’altra parte. Tuttavia, anche in lui c’è la volontà, forse ugualmente disperata, di salvare il salvabile e invertire una rotta che stavolta non si muove verso un maggiore progresso civile. Sarà soltanto la storia a dirci se la sua è un’opera di testimonianza o l’innesco (magari non solitario) di un grande ripensamento.

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