Dottore in Scienze della Politica, si è laureato nel 2020 presso la Scuola “Cesare Alfieri” dell’Università degli Studi di Firenze con una tesi dal titolo “Populisti si nasce: mentalità, azione e cultura populista nella democrazia americana”, relatore Prof. Marco Tarchi.
Attualmente è borsista del “Seminario Silvano Tosi” promosso dall’“Associazione per gli Studi e le Ricerche Parlamentari”, dove si occupa dello studio dei provvedimenti adottati in riposta alla crisi pandemica SARS-CoV-2.
Dal 2019, partecipa alla pubblicizzazione degli eventi dell’associazione “Sottosopra; Idee per ripensare il futuro”. I suoi ambiti di ricerca concernono la teoria politica, la storia delle istituzioni e la filosofia normativa.
Recensione a
S. Žižek, Guida Perversa alla Politica globale
Ponte alle Grazie, Milano 2022, pp. 418, € 22,00.
Dopo Virus, e il suo successo, Slavoj Žižek ha deciso di rifarlo. Il format “diario-filosofico politico” sta diventando la cifra stilistica del pensatore sloveno, perlomeno quando il suo intento è, più o meno, limitatamente divulgativo e rivolto al grande pubblico. L’intuizione del “meta-diario” pandemico, aggiornato giorno per giorno, visibile h24 e con tanto di suggerimenti da allegare nella sezione commenti, durante il primo lockdown nella primavera del 2020, aveva condotto ad una rinnovata popolarità del teorico di Lubiana, e la sua forma organizzata e cartacea (in Italia sempre edita da Ponte alle Grazie) era ampiamente attesa e richiesta.
Con Heaven in disorder (titolo originale), Žižek si prende “il suo spazio”: sprovvisto dell’interattività della sezione commenti che aveva alimentato la “diffusione” di Virus, si avverte l’esigenza dell’autore di non voler omettere nulla di ciò che è accaduto nel mondo e nella sua mente in questo convulso biennio. Cinquantasei capitoli, tutti relativamente brevi, divisi in sei sezioni e spalmati su quasi quattrocento pagine piuttosto scorrevoli, che spaziano dalla pandemia al disastro climatico, dalle relazioni internazionali alle battaglie del femminismo e della sinistra, sino agli ultimi capitoli dedicati al conflitto russo-ucraino. Tutto questo senza farsi mai mancare, ovviamente, il consueto pastiche di analisi dei testi delle band heavy-metal tedesche, recensioni di film neppure visti (è il caso di Matrix Resurrection), esegesi sulla figura di Gesù Cristo, riflessioni sui concetti di etica, libertà, sviluppo all’interno del «neo-capitalismo digitale feudale» (p. 193) e molto altro.
Un intento, dunque, certamente nobile e incredibilmente ambizioso, determinato dal desiderio di far correre liberamente la penna, con lo scopo di fare chiarezza nella mente dello stesso autore, oltre che del lettore, i cui risultati però, bisogna ammettere, non si rivelano sempre all’altezza della fama (meritata) dell’Autore.
La prima parte, Dal grande reset ad Omicron, la più corposa, riprende il discorso là dove si era interrotto in Virus, con la specificazione, appunto, della necessità di un focus sulla drammaticità della situazione politica attuale, riuscita nell’innaturale impresa di “dividere il cielo” – per riprendere il titolo di un libro di C. Wolf. «Oggi è sempre più il Cielo interno di ciascun mondo a mostrarsi diviso […] una scissione radicale ed escludente dello stesso universo simbolico che abitiamo che non può suggerire soluzioni chiare […] né formule universali: andranno a volte sostenute politiche progressiste e moderate, in altri casi l’unica strada è lo scontro radicale; in altre un silenzio eloquente» (pp. 6-8).
Riconoscere la pandemia e i suoi disastrosi effetti per quello che sono, ossia «parte della crisi globale del nostro intero stile di vita capitalistico» (p. 37), rifiutando la stasi di «un tracollo che avvertiamo ogni giorno ma che appare eternamente procrastinato» (p. 50), per «accettare lo sconforto come riconoscimento della disperazione assoluta del dramma – solo passando attraverso questo punto zero possiamo costruire la società a venire» (p. 61). Questo, sommariamente, è l’intento pedagogico più ricorrente in tutta l’opera.
Tuttavia, se al lettore meno avvezzo all’opera di Žižek questi potranno sembrare vuoti appelli al catastrofismo, conditi con un po’ di ecologismo new-age, non bisogna dimenticare che il filosofo sloveno non difetta di onestà intellettuale: l’accettazione del reale in tutta la sua cupezza, dipanata anche attraverso esempi scelti per sfociare nell’osceno e nel macabro – marchio di fabbrica dell’autore – è anche il grimaldello concettuale con cui si individuano colpevoli comunemente ignorati o non considerati. Nel mirino ci sono spesso i vecchi “compagni” d’avventura dell’autore, trasmutati attraverso figure idealtipiche. Su tutte, spicca più volte il «contestatore decaffeinato: è un contestatore del sistema che dice o canta sempre cose giuste, ma le spoglia di piglio critico. Inorridisce per il riscaldamento globale, sessismo, razzismo […] e tutti sono invitati ad unirsi al sentimento di solidarietà globale – ma stringi stringi il significato è che chi contesta non è tenuto a cambiare vita (al massimo un po’ di elemosina e sdegno). È determinato nel perseguire la sua carriera, competitivo in modo spietato, privo di umanità, ma si schiera dalla parte giusta. […] Al suo pubblico dà sempre quello che vuole sentire. Cos’è questo? È l’atteggiamento predominante fra gli accademici della “sinistra radicale”» (pp. 65-66).
Ancora, nel finale della sezione, subito prima del riconoscimento della «nostra unicità come specie che non può esser negata […] dobbiamo accettare che siamo una delle tante specie sul pianeta, ma al tempo stesso agire come supervisori della Terra» (p. 77), non mancano gli ammonimenti ad un ecologismo settario e controproducente che vuole rincuorarsi nella “modestia della nostra mortalità”, da evitare ad ogni costo per non condurci a «cedere ai radicali che invocano un cambiamento rivoluzionario in quanto superstizione volta a ottenere l’opposto: ossia impedire ogni cambiamento reale. Come l’odierna sinistra accademica, che critica l’imperialismo culturale capitalistico, prova in realtà orrore all’idea che il suo campo di studi possa esser spazzato via, auspicando inconsciamente immutabilità» (p. 99).
La parte seconda “Proteste, resistenze e rese è un giro di ricognizione dei più importanti teatri di lotte del mondo: dalla tragica situazione del popolo curdo, alla crisi iraniana, passando per i confini di casa nei Balcani, con un focus sulla rinnovata contesa religiosa in Bosnia, sino al nuovo regime talebano e la sua rinnovata estromissione delle donne dal mondo. Particolarmente dettagliata l’analisi politica del movimento “Apruebo” per il referendum costituzionale in Cile, forte dell’esperienza diretta dell’autore, invitato più volte da varie università cilene dopo il plebiscito dell’ottobre 2020. In queste pagine “l’Elvis della filosofia” rispolvera Laclau e la sua teoria sul populismo come metodo di costruzione dell’identità, collegandola, parzialmente, alla funzione che i significanti assolvono nella costruzione dell’identità dell’individuo in Lacan. In questa sezione Žižek sembra dare quasi una connotazione positiva al populismo sudamericano, necessario a ricostruire una comunità dopo trenta anni di costituzione “normalizzante” post-Pinochet, che ha condotto a «una rapida post-modernizzazione liberale: esplosione di edonismo consumista, superficiale permissivismo sessuale, individualismo competitivo […] gli eredi di Pinochet […] si sono resi conto che uno spazio sociale atomizzato può contrastare in maniera più efficace di una oppressione statale diretta ogni progetto di sinistra, che si affida alla solidarietà: le classi continuano ad esistere in sé ma non per sé, vedo gli appartenenti della mia classe come concorrenti che come membri di uno stesso gruppo» (pp.123-124); «la vittoria di Apruebo non dimostra tanto l’assenza di manipolazioni ideologiche ma […] ha vinto a seguito di una lunga e attiva lotta per l’egemonia ideologica […]; lotta, direbbe Laclau, per i significanti padroni, che riguardano il come si andrà ad organizzare lo spazio politico (p.132). «Ciò non significa che le battaglie politiche possano ridursi a conflitti discorsivi. Significa che il livello del discorso possiede una sua logica autonoma […] nel senso radicale che il modo in cui gli interessi vengono percepiti è già mediato da processi del discorso […] Chi sminuisce una retorica che costruisce il popolo come passi verso un idealismo discorsivo, dovrebbe ricordare l’ossessione di Lenin per i dettagli dei programmi e che la presenza/assenza di una certa parola può modificarne il destino» (pp.134-135).
Indubbiamente veritiero, almeno secondo chi scrive; i primi problemi sorgono però continuando a sfogliare i restanti capitoli “Washington e Pechino” e “Laburisti, democratici e altri catastrofisti”. Il leitmotiv delle sezioni tre è sostanzialmente un elenco degli innumerevoli modi con cui i populisti dell’alt-right condurranno alla più tragica rovinosa sovversione democratica; «la rinascita della democrazia non è un ritorno ad un’idealizzata età dell’oro ma una rottura radicale con il passato intero» (p.191). Personaggi come D. Trump sono posti al centro di quasi ogni capitolo e attaccati senza esclusione di colpi: «la mappa cognitiva di Trump è un’inversione speculare della mappa stalinista in cui chiunque si opponesse al partito era considerato complice della trama fascista […] come con Hitler e il nazionalsocialismo, lo stesso vale per Trump e il suo lascito. Il vero compito non è solo sconfiggerlo, ma “ucciderlo nel suo concetto” – esporne tutta la sua inane vanità e incoerenza ma anche domandarsi come qualcuno talmente inutile possa esser diventato presidente» (pp.188-189). «Dal momento che alle grandi cause di interesse pubblico manca ormai la forma di mobilitare persone alla violenza di massa, è allora necessaria una nuova grande Causa inviolabile, che ci faccia apparire volgari le inquietudini individuali per l’atto di uccidere (p.202). «Colpevoli di rappresentare l‘apice della disintegrazione sociale, introducendo forme di oscenità nel discorso e destituendo ogni dignità» (p.220), la soluzione proposta dall’autore è una scissione settaria che conduca ad un «comunismo neoconservatore» – nel senso etimologico di conservare (p.283), «una riorganizzazione complessiva. Che non realizzerà una nuova versione del partito leninista, ma neppure riproporrà la democrazia parlamentare; portandoci dinanzi ai palesi limiti di un socialismo democratico» (p. 235) poiché la «vera utopia non è la prospettiva del mutamento radicale ma lo stato delle cose mentre procedono indefinitamente» (p. 239).
In Laburisti, democratici e altri catastrofisti il focus cambia versante, e si sposta dalle critiche alla “destra internazionale”, alla “sinistra” tout court, figurando come una sorta di Vademecum dei ripensamenti e cambi di rotta che gli eredi dell’egualitarismo e del socialismo dovrebbero adottare per ottenere la secolarmente agognata egemonia. Numerosi sono i punti che potrebbero sollevare critiche all’interno dello “schieramento” e far storcere il naso ai progressisti di ogni latitudine. Spicca la dettagliata critica contro l’esaltazione paranoica del post-materialismo: giudicata un’ossessione, soprattutto nei militanti più giovani, che getta i Paesi dell’occidente tra le braccia dei leader populisti – ancora una volta l’esempio prescelto è D. Trump – che «giocano con i valori tradizionali e […] il loro conservatorismo è una pura manifestazione post-moderna, un gigantesco viaggio egoico» (pp. 239-240). La soluzione proposta è il recupero di un certo moderatismo sui temi canonici e più appropriati alla sinistra, incarnata da esponenti come Bernie Sanders, definito un “moralista vecchia maniera”. L’auspicio è quello di una sinistra «moderatamente conservatrice: che supera l’ossessione per le trasgressioni marginali ininfluenti per il sistema e si presenta con faccia tosta, come la voce della vera maggioranza morale. Più che mai oggi, le persone normalmente decenti non sono nostre nemiche» (p. 240). Tale critica, fa il paio con l’appello al mantenimento, con tutte le correzioni che il caso e gli eventi impongano all’ “essenzialismo di classe”, a partire dalla disamina di alcuni passi fondamentali de Sulla contraddizione di Mao Tze Tung; soltanto riconducendo lentamente tutte le istanze di libertà all’interno del concetto fondamentale di classe i movimenti rivoluzionari potranno tornare ad “espandersi per risonanza”. Il «ruolo della lotta di classe si perde quando la classe lavoratrice è ridotta ad uno dei tanti gruppi sociali di cui occorre tutelare l’identità […] si assiste oggi all’affermarsi di un concetto vago del cosiddetto “classismo”, essenzialmente la politica dell’identità declinata sulla classe […] il movimento operaio diventa così un altro elemento della catena delle identità, come un orientamento sessuale o l’appartenenza ad un’etnia. Una tale soluzione è quella che caratterizza il fascismo e il populismo: rispettano i lavoratori, ammettono lo sfruttamento e intendono (spesso sinceramente) migliorarne la posizione all’interno delle coordinate del sistema» (pp. 263-264). Per l’autore (e non solo per lui), il motore dell’analisi dei gruppi, tanto in Hegel quanto in Marx, è la determinazione oppositiva: l’universale antagonismo che attraverso l’intero campo sociale, affinché si possa “smettere di esser sé stessi, di esser quello che siamo”. La pacifica e rispettosa convivenza che le battaglie per il riconoscimento delle donne, delle identità etniche o sessuali, invocano, rischia di rivelarsi una trappola se non sottoposta e coordinata dalla lotta di classe in quanto «unico antagonismo puro: l’obbiettivo di quanti sono oppressi e sfruttati è l’abolizione delle classi in quanto tali, non la riconciliazione» (p. 266).
Pensare sul pensare e Ucraina sotto attacco sono gli ultimi e più sintetici capitoli del testo. Il primo è in gran parte concentrato sulla figura di Julian Assange, sul suo contributo allo sviluppo del concetto di accountability mondiale, grazie a WikiLeaks, e sulle nefandezze perpetrate dai governi svedesi, britannici e statunitensi per condannarlo ad ogni costo. Moralmente ineccepibile, non aggiunge però molto alla trattazione, oltre a difettare di quegli spunti e quelle riflessioni al limite del paradossale che caratterizzano le opere del filosofo sloveno. Il secondo, si limita ad una sorta di rendiconto del primo mese di guerra – l’orizzonte temporale del libro si ferma alla prima decade di aprile – condito da un’aspra critica al presidente russo Vladimir Putin, assurto al ruolo di nemico di ogni essere umano sano di mente e alfiere del «peggior nazionalismo conservatore» (p. 366). Echeggia, in alcune righe, quasi una sorta di appello ad una santa crociata affinché anche i «Paesi del Terzo Mondo si rendano conto che difendere l’Europa equivale anche a difendere la loro libertà» (p. 373). Per tutti noi che assistiamo allo “stupro” dell’Ucraina, deve esser ben chiaro che solo una «decisa castrazione potrà impedire la tragedia […] auspicando che (la comunità internazionale) lo tratti come un’imbarazzante oscenità, come un uomo che defeca in pubblico, facendo poi, in certa misura lo stesso con gli US […] assicurandosi che al posto della loro autorità globale non cresca finalmente più nulla (p. 367)
Già ad una prima rapida occhiata, è evidente che un punto debole, il più manifesto di quest’opera, che non può esser ignorato, è contenuto nel titolo: sebbene esso sia una “Guida perversa alla politica globale”, è proprio nel commento ai fatti politici che l’autore commette evidenti errori, alcuni anche grossolani a detta di chi scrive – vedi il paragone tra gli antisemiti nazisti e i no-vax, che appare quantomeno eccessivo – e che sembra in alcune parti disconoscere quella “avalutatività” che dovrebbe esser il faro che guida l’analisi politologica. Lo stesso può dirsi per i commenti contenuti nell’ultima sezione, che più che descrivere il reale e fornire delle coordinate utili a sopravvivere (ossia ciò che dovrebbe fare una Guida, a prescindere che sia alla politica globale), sembrano tirar fuori una partigianeria che si addice più agli antichi Demes che ad un filosofo; fin troppo palese e inopportuna per un pensatore che ha saputo fare dell’alterità da ogni punto di vista comune, un punto di partenza e di forza della sua riflessione. Tutto questo, nonostante non manchino parole sprezzanti anche nei confronti dell’amministrazione di J. Biden e dei fallimenti che l’universalismo a stelle e strisce sta raccogliendo in giro per il mondo negli ultimi decenni (con la ciliegina sulla torta figurativamente rappresentata dalla rovinosa ritirata afghana).
Non sorprendentemente, invece, i contributi migliori del testo sono quelli in cui Žižek fa il suo lavoro, ovvero il filosofo. Illuminanti e capaci di scompaginare tutte le credenze del femminismo odierno, e non solo, le riflessioni sulla figura della donna all’interno delle religioni monoteiste (da leggere, sottolineare e imparare a memoria), così come le implicazioni che l’autore rintraccia partendo dai principi dell’eccesso di piacere nelle teorie di uno dei sui maestri, Jacques Lacan; a dir poco necessarie le prese di posizioni contro esponenti della sinistra come T. Negri e R. Vichi, così come contro “l’essenzialismo innocuo” (p. 261) di M. Lazzarato e il femminismo radicale e antihegeliano di C. Lonzi; ilari, ma dense di significato, le tipiche escursioni nella cultura pop dell’autore, che si focalizza su cinema, musica e social network per cercare di carpire aspetti della nostra personalità, ignorati da noi stessi.
Nonostante alcune pecche e punti deboli – forse più presenti del solito – Heaven in disorder non è comunque un’opera ideologica; S. Žižek sconta innegabilmente tutta la sua formazione di matrice marxiane (mostrando quantomeno l’onestà intellettuale di premetterlo fin dalla prima battuta), mettendo però sempre al centro della sua riflessione un’indeterminatezza spiazzante che è già costitutiva del suo motto degli ultimi anni (This is time to think, not to act), e svolgendo il lavoro del filosofo e del pensatore sistemico, anche al netto di tutti gli errori individuati, al suo meglio: ossia lasciando aperta la strada a infinite soluzioni e interpretazioni. Tante quante ogni lettore sarà capace di coglierne.