Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia. È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a: A. Bergomi, «Prima che partano!». Progetti di alfabetizzazione e scuole per gli emigranti nell’Italia liberale (1861-921), Rubbettino, Soveria Mannelli 2023, pp. 289, € 19,00.

Questo libro, ma solo all’apparenza, si occupa di un tema marginale, quello dell’istruzione (pubblica e privata) degli italiani destinati a emigrare all’estero dall’Italia post-unitaria. In realtà il soggetto coinvolge uno svariato numero di aspetti essenziali delle vicende politiche, economiche e sociali del nostro Paese. Anzitutto, esso mostra il modo in cui le classi dirigenti italiane hanno affrontato il problema delle emigrazioni da ampie zone del Paese (del Meridione, ma non solo) come necessità ineludibile. In secondo luogo, offre spunti di notevole interesse sulle politiche educative nel succedersi dei diversi governi dell’Italia liberale; inoltre, il volume ci mostra una volta di più quanto fosse “politica” la visione della cultura italiana come valore da difendere e da utilizzare, anche attraverso le partenze degli emigranti, per sostenere l’immagine del Paese e la sua crescita.

L’autrice, Alberta Bergomi, già nell’introduzione sottolinea giustamente quanto sia stata essenziale una vera e propria «pedagogia della partenza» da contrapporre alla più scontata «pedagogia del rimpianto», a cui subito si pensa riandando alle partenze di massa degli italiani.

La costruzione di una “pedagogia della partenza” [era] finalizzata a dotare i lavoratori italiani di conoscenze sufficienti ad assumere scelte ponderate. Da una parte si fornivano informazioni di utilità immediata, come, per esempio, gli avvisi di reclutamento di manodopera. Dall’altra, si proponevano messaggi dissuasivi sulle condizioni climatiche avverse, i rischi sanitari, le contingenze economiche e finanziarie del contesto internazionale (p. 19).

Un altro aspetto significato concerne il fatto che l’attenzione verso l’alfabetizzazione dei futuri emigranti sia stata forte tanto nel pubblico quanto nel privato (di matrice religiosa o politica), come mostrano le tante esperienze, più o meno estese, avviatesi soprattutto nei primi anni del Novecento. Il problema dell’acculturazione degli emigranti (soggetti due volte deboli, perché poveri e perché analfabeti) riguardava sì il prestigio nazionale, ma soprattutto la possibilità che il fenomeno migratorio avesse concretamente successo. Sicuramente le politiche migratorie, caratterizzate da fasi in cui dominavano rigide selezioni e chiusure, messe in atto da paesi come gli Stati Uniti (si pensi soltanto allo Shattuc Act), furono il principale volano per la realizzazione, a livello centrale, di vere e proprie politiche nazionali di educazione per adulti emigranti.

Uno degli aspetti più interessanti del libro è senza dubbio la minuziosa ricostruzione dei programmi di studio predisposti a seconda dei casi (ovvero del tipo di fruitori, della loro destinazione e che si trattasse, ad esempio, di emigranti definitivi oppure con la prospettiva di un ritorno in patria): si potevano privilegiare aspetti più “culturali”, come lingue, geografia, storia, oppure aspetti più pratici, come la preparazione dei documenti, i viaggi, le dogane ecc..

Questo libro potrebbe suscitare indubbiamente nuove ricerche: un argomento che potrebbe essere sviluppato, magari concentrandosi a livello locale, è quello della ricostruzione di come, in ambito amministrativo, si siano messe in campo azioni volte a concretizzare questo sostegno alle partenze, a volte dovendo vincere resistenze o vere e proprie opposizioni. Un altro spunto, di cui pure l’autrice già si occupa qui, è poi quello legato alle pubblicazioni specificamente rivolte agli emigranti: sarebbe di sicuro interesse sondare ciò che le case editrici italiane proposero per l’educazione degli emigranti, come le cosiddette “biblioteche di bordo”: «Una particolare iniziativa in questo campo venne realizzata dalla Società Dante Alighieri, che pensò di sfruttare a fini educativi le giornate di ozio che i nostri connazionali trascorrevano sull’Atlantico verso i porti delle Americhe» (p. 129).

Davvero in conclusione, riportiamo una notazione che Adolfo Scotto di Luzio fa nella sua prefazione al volume e che vale la pena di sottolineare per ciò che dice e per ciò che comunica, senza dirlo esplicitamente, sulla ricerca accademica italiana e sull’insegnamento scolastico come professione:

Questo lavoro nasce da una ricerca di dottorato, condotta tra il 2014 e il 2017 nell’Università degli studi di Bergamo e, come ormai accade sempre più spesso nella nuova università italiana che parla in continuazione di ricerca e di indicatori quantitativi della ricerca, è frutto del lavoro di una studiosa rimasta fuori dall’università. Alberta Bergomi lavora a scuola, in un liceo, in una istituzione schiacciata da mille problemi e da una miriade di incombenze burocratiche che non sono proprio l’ideale per portare avanti studio e riflessione (p. 6).

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