Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.

Asma Meditatio Mortis

Proust era bambino quando, per la prima volta, si accorge di stare male. Un dolore abitava dentro di lui, e sembrava avere “dimora” stabile. Il dottor Martin aveva comunicato ai genitori che Marcel soffriva di asma da fieno, e che sarebbero state necessarie delle cauterizzazioni. Il bambino, dopo qualche giorno dalla visita e dalle cauterizzazioni, fece un viaggio in campagna con i genitori e annusando un lillà venne assalito da una nuova crisi.

Verso il 1895 l’asma di Proust si trasforma in un sistema generatore continuo di malattie secondarie e rituali che obbligarono a un radicale cambio nell’organizzazione della giornata. Non si presentava con delle cadenze stabili, poteva capitare in qualsiasi stagione. Una delle bibbie di Proust divenne L’higiène des asthmatiques del dottor Brissaud. L’asma si presentava con crisi che potevano durare anche quaranta ore e in quelle ore, evidentemente, non poteva fare nulla, né mangiare, né dormire, né tanto meno scrivere.

L’asma fece conoscere a Proust l’insonnia. Intere notti ad occhi aperti, e così prese la decisione di iniziare a prendere dei sonniferi. Di lì a poco, a causa dell’aumento costante della dose, iniziò a soffrire di vertigini e problemi di equilibrio.

Aveva sviluppato una sensibilità acutissima, […] Aveva sempre freddo: la camera da letto era scaldata giorno e notte anche d’estate; e maglie sopra maglie, cappotti sopra cappotti, ciuffi di cotone idrofilo tra la pelle e la camicia dovevano impedire che l’aria, il più perverso e ostile degli elementi, entrasse in contatto con il suo corpo malato. […] Fumare sigarette antiasmatiche era nulla. Beveva decine di tazze di caffè, che tenevano lontane le crisi, ma rendevano più acuta l’insonnia. Faceva fumigazioni la mattina, o più volte al giorno, bruciando vicino al letto delle polveri Legras, che trasformavano la stanza in un antro delle streghe, dove si formavano e si dissolvevano delle pesanti nuvole oscure e bluastre, lasciando detriti su ogni lenzuolo, su ogni mobile, su ogni libro, su ogni quaderno[1].

L’higiène des asthmatiques del dottor Brissaud conteneva una affermazione su cui Proust riflettè a lungo, nondimeno rimase angosciato; in questo testo si affermava che ogni crisi d’asma distrugge qualcosa nell’organismo, avvicinando il momento finale della morte. I medici la chiamavano meditatio mortis che significa preparazione alla morte; ciononostante Proust continuò a leggere e a documentarsi, visionando di continuo libri di medicina e di neurologia. Trascorse ancora molte ore “sopra” L’higiène des asthmatiques, conteneva delle affermazioni in una certa misura affascinanti e, allo stesso tempo, rigorose. Per esempio, Proust leggeva che l’asma era più frequente tra gli ipocondriaci e, sempre nel manuale, si affermava che curando la nevrosi che fa da sostrato all’asma si sarebbe subito incorsi in una malattia che da secondaria sarebbe diventata primaria, una sorta di sostituzione. Tra queste possibilità di rimpiazzo Brissaud segnalava altre nevrosi: l’epilessia, la follia, la nevralgia del trigemino. In ogni caso, il manuale era chiaro: l’asma è una nevrosi. Facendo fede alle parole del Brissaud, Proust iniziò a documentarsi dettagliatamente rispetto alle nevrosi, e infatti la Recherche è la dimostrazione principale di quanto il suo autore fosse informato e aggiornato in materia. Nel terzo volume, Proust presenta il dottor du Boulbon, che nel testo svolge una sorta di portavoce della scienza neurologica. Il personaggio del dottor du Boulbon (controfigura del dottor Brissaud) così si esprime: «la nevrosi è un pasticheur di genio. Non c’è malattia che non sappia contraffare a meraviglia. Imita fino a trarre in inganno la dilatazione dei dispeptici, le nausee della gravidanza, l’aritmia del cardiopatico, la condizione febbrile del tubercolotico. Se è capace di ingannare il medico, come non ingannerebbe il malato?»[2] e ancora: «Tutto quello che conosciamo di grande, ci viene dai nevrotici… Sono essi, e non altri, che hanno fondato le religioni e composto i capolavori. Mai il mondo saprà tutto quello che deve loro, e soprattutto ciò che essi hanno sofferto per darglielo»[3]. Nella visione di du Boulbon-Brissaud la nevrosi si configura come strumento di conoscenza ed estensione. Proust conosceva profondamente i meccanismi che fanno da sostrato a questo stato d’animo, e forse per questo non volle guarire; considerava la sua condizione un «male sacro». Certo, tra gli stati secondari innescati dall’asma quello maggiormente presente e “invasivo” era l’insonnia. Si addormentava verso le nove di mattina risvegliandosi nel tardo pomeriggio. Ma non è tutto: arrivò ad andare a letto a mezzogiorno e al risveglio si preoccupava solo dell’unico impegno che stabilmente aveva: la Recherche.

Attorno a La Recherche, per nutrire l’opera infinita, Proust decise di imporsi dei rituali. Citati li raccoglie e sintetizza in alcune frasi del suo La colomba pugnalata: «Nessuno che gli camminasse sopra la testa negli appartamenti vicini: nessun falegname o muratore che battesse il martello o il piccone nelle case prossime: persiane e cortine robustissime, che impedissero al minimo raggio di sole di penetrare nella stanza; e, alla fine, a boulevard Haussmann, il rivestimento di sughero che lo proteggeva come una madre»[4].

La Recherche fa parte delle grandi opere che si sviluppano tra le angosciose pareti della mente. In questo “territorio” sono nati, per esempio, i Racconti di Poe, La sonata a Kreutzer di Tolstoj, La tana di Kafka. Durante il grande impegno, Proust si interessò unicamente ai paesaggi interiori, nature morte e vive che emergevano dalle distanze traversate: dalle penombre che abbiamo attraversato. È qui, in questi luoghi, che organizzava i suoi scavi archeologici e le sue vigili attese. Nonostante la “reclusione”, Proust continuò a desiderare, amare, volere bene agli amici. Ogni giorno rivolgeva loro dei pensieri. Continuava a desiderare e amare, non a sperare perché era conscio della potenza irreparabile e irrimediabile del tempo.

Irreparabilità e irrimediabilità del tempo, la disperazione di ciò che non può più ritornare, la temporanea assenza di una nostalgia del futuro capace di riaprire l’agostiniano presente presente, la caducità come movimento impossibile da governare: sono questi i nuclei tematici che, attraverso le riflessioni di Proust, portano indietro nel tempo, verso una poesia di Emily Dickinson.

V’è una certa Angolazione della luce,
I Pomeriggi d’inverno –
Che opprime, come la Gravità
Di Melodie di Cattedrali –

Una Celeste Piaga, ci procura –
Non ne troviamo la cicatrice,
Ma solo intime differenze,
Dove i Significati, stanno –

Niente può insegnarla – Nessuno –
È il Sigillo della Disperazione –
Un’imperiale afflizione
Mandataci dall’Aria –

Quando viene, il Paesaggio ascolta –
Le Ombre – trattengono il respiro –
Quando se ne va, è come la Distanza
Nello sguardo della Morte –[5]

Questa poesia, dal titolo Vi è una certa inclinazione di luce, solleva dei temi cari a Proust; oltre a quelli già citati nelle righe precedenti, si trova la possibilità delle stagioni di dare una intensità e una chiarezza differente a certe catene di pensiero, la questione dei luoghi che non sono solo luoghi ma ecosistemi in cui la persona interagisce, con le ombre e con le inclinazioni della luce, con gli alti muri e con le trasformazioni del paesaggio.

Negli ultimi tempi della sua vita Proust usciva poco, rimanendo nella stanza fumosa della nuova casa in Rue Hamelin; aveva solo una piccola luce verde che gli ricordava l’esistenza dei colori e quindi di un’altra vita. Non aveva più bisogno di vedere nessuno, affermava: aveva realizzato dentro di sé i doppi che gli erano necessari per avere compagnia e per portare avanti la sua opera-cattedrale. Viveva solo per far progredire l’opera che dentro di lui continuava a muoversi, subendo variazioni, ripensamenti, addensamenti, ripiegamenti. Non si concedeva il tempo per nessun altro lavoro e quando qualche editore gli proponeva di lavorare, per esempio, su Dostoevskij, lui rifiutava la scrittura del saggio, avvisando: Non possum descendere, magnum opus facio.

Visse gli ultimi anni nella malattia, assumendo troppi sonniferi e si faceva fare iniezioni di adrenalina e caffeina per tentare, di tanto in tanto, una passeggiata fuori casa. Non solo adrenalina e caffeina: Veronal in eccesso, adrenalina non diluita, dial e oppio. Celeste Albaret, nelle sue memorie di Monsieur Proust[6], sostiene che l’utilizzo da parte di Proust di dosi così massicce, sia dovuto al fatto che desiderava penetrare più profondamente nell’inconscio; sempre Albaret, afferma che capitava di trovarlo sulla soglia della morte per più giorni consecutivi. Tuttavia i medici lo rassicurarono, non doveva temere né uremia né malattie cerebrali; afasia, vertigini, stordimenti dipendevano dall’abuso di droghe. Rispetto ai medici, Proust temeva di essere ingannato, poiché, come scrive in una pagina della Recherche, la morte soggiornava dentro il suo corpo e occupava uno spazio tale da fargli compagnia, «incessante come l’idea dell’io»[7].

Il 18 novembre 1922 Proust moriva. La polmonite virale emersa dalle analisi cliniche postume, nelle ultime ore di vita veniva accompagnata da forti crisi di delirio; nondimeno, la malattia amplificava la lucidità e gli sprazzi di creatività. Durante questi ultimi momenti, teneva salda la volontà di continuare il lavoro di correzione delle bozze, ricordando La mort du loup di Vigny:

Pregare, piangere, gemere è ugualmente vile.
Fa’ energeticamente il tuo corto e pesante compito,
e dopo, come me, soffri e muori senza parlare[8].

Sì, rifiutò ogni cura propostagli dai medici, ma non era sua intenzione uccidersi. Si trattava di una conoscenza con necessità di vittoria verso la morte. Voleva portare al limite la conoscenza di se stesso attraversando la condizione ultima con le sue forze e le forze che, in altri modi e da ‘lontano’, giungevano dalla madre.

Sarebbe bastato poco per superare la malattia, e portare a compimento la Recherche. Invece seguì operativamente le righe di Vigny, enigmaticamente lasciando incompleto il suo ultimo grande lavoro. Una opera-cattedrale, ricca di navate incompiute e campanili lasciati a metà.

Note:

[1] P. Citati, La colomba pugnalata…, cit., pp. 80-81.

[2] M. Proust, Côté de Guermantes, in À la recherche du temps perdu, vol. II, Gallimard, Paris 1920, p. 601 (trad. it. M. Bonfantini, I Guermantes, in Alla ricerca del tempo perduto, vol. III, Einaudi, Torino 1978, p. 329).

[3] Ibidem.

[4] P. Citati, La colomba pugnalata…, cit., p. 84.

[5] E. Dickinson, Tutte le poesie (trad. it. S. Raffo, M. Bacigalupo, N. Campana, M. Guidacci, Mondadori, Milano 1994, J258-1861 / F320-1862).

[6] C. Albaret, Monsieur Proust, Éditions Robert Laffont, Paris 1973 (trad. it. A. Donaudy, Rizzoli, Milano 1974).

[7] P. Citati, La colomba pugnalata…, cit., p. 208; cfr M. Proust, Correspondance, vol. XXI, Plon, Paris 1970-1993 (posthume), p. 302.

[8] A. de Vigny, La mort du loup, 1843. https://www.atlasofplaces.com/essays/la-mort-du-loup/

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