Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia. È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a: P.F. Peloso, Franco Basaglia, un profilo. Dalla critica dell’istituzione psichiatrica alla critica della società, Carocci, Roma 2023, pp. 250, € 19,00.

Si avvicina il centenario della nascita di Franco Basaglia. Accanto alla recente ripubblicazione dei suoi Scritti, per i tipi de Il Saggiatore, spicca questo volume di Paolo Francesco Peloso, psichiatra e saggista genovese: si tratta di un agile, ma denso profilo biografico, pensato non per gli specialisti o i professionisti della salute mentale, ma per tutti. È un testo divulgativo, ma che cerca di rendere evidente quanto possa essere tuttora utile per il dibattito pubblico il pensiero di Basaglia, il suo impegno per la liberazione dei “folli” dalla segregazione manicomiale, ma anche dalle gabbie culturali che finiscono sempre per separare, respingere, emarginare.

A riprendere in mano i libri di Basaglia, a rileggere le sue interviste – questo un punto centrale del libro di Peloso – non può che emergere infatti l’attualità di quella “rivoluzione” che ha caratterizzato l’Italia degli anni Sessanta e Settanta: da Gorizia a Colorno, da Trieste a Roma, il lavoro di Basaglia si è caratterizzato per una sorta di slancio utopico sempre rinnovato, per una scelta radicale, ma meditata, per la libertà (con tutti i rischi che essa inevitabilmente comporta). Parlando di Basaglia, ovviamente, parliamo in realtà di un movimento vasto e variegato che ha posto la questione, in un preciso momento della storia italiana, della inaccettabilità dei manicomi, istituzioni intrinsecamente violente e patogene: in tanti luoghi del Paese si sono sviluppate esperienze di lotta anti-istituzionale, si sono organizzati gruppi di studenti e di studiosi che hanno cercato di “assediare” i manicomi per distruggerli. D’altra parte è vero – come dimostra bene la prima parte del libro di Peloso – che, attorno e grazie alla figura carismatica di Basaglia, quel movimento si è potuto affermare ed esprimersi. A questo proposito Peloso parte appunto dalla fine, dall’inevitabile dibattito accesosi sulla figura e sull’eredità di Basaglia all’indomani della morte di questi, nel 1980. Ne emergono questioni di assoluto interesse, a partire dal significato della Legge 180 del 1978 (detta impropriamente “Legge Basaglia”) e sulle sue conseguenze per la vita dei malati e delle loro famiglie.

Questo volume racconta Basaglia attraverso le sue esperienze, a partire da quella “eroica” nel manicomio di Gorizia, ma sopratutto attraverso i suoi libri. Ciò permette anche di mostrare quanto Basaglia fosse tutt’altro che un filantropo o, peggio, un “politicante”, ma uno psichiatra a tutti gli effetti, attento al dibattito scientifico e a quello culturale. Come è noto, Basaglia fu profondamente influenzato sia dalla fenomenologia (Sartre su tutti) sia dal marxismo (Gramsci). Da vero scienziato anti-accademico, egli scelse di mettere in pratica, anzi di rendere veri praticamente, valori come la libertà e la difesa della dignità umana.

Basaglia fu indubbiamente uno “psichiatra politico”, seppe fare massa critica attorno alla sua idea di chiusura dei manicomi, sapendo andare oltre le differenze ideologiche e sfruttando anche il sostegno della stampa. Ciò è tanto più vero e importante, se pensiamo che la sua fu allora una figura davvero scandalosa. Lo scandalo è consistito anche – crediamo – soprattutto nel fatto che la denuncia dei manicomi suscitava inevitabilmente un senso di colpa nella coscienza degli italiani, nel fatto che l’ideologia securitaria che ne era alla base avesse comportato una violenza segregante, tanto da far costantemente paragonare i manicomi stessi ai Lager dell’epoca nazista.

Soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, l’attenzione di Basaglia si spostò progressivamente sempre di più dai manicomi al fuori, alla società in generale e alla necessità di attivare una critica sociale che permettesse di non ripetere all’esterno gli errori e le aberrazioni proprie delle istituzioni chiuse. Basaglia non fu mai un “antipsichiatra”, non negò mai la realtà della sofferenza mentale, ma cercò anche di tenere assieme la follia con le condizioni sociali (povertà, marginalità) in cui essa soprattutto si manifestava.

Dovendo scegliere soltanto uno fra i diversi lemmi che compongono il “lessico basagliano” proposto da Peloso alla fine del volume, emerge soprattutto per noi il conflitto, la necessità che anche fra un “folle” e il suo terapeuta ci sia una lotta. Accogliere la libertà di ciascuno, anche dei malati più problematici, significa anche farsi carico – come dicevamo più sopra – dei rischi che quella libertà porta con sé, anche quella dose di aggressività che pure fa parte della soggettività umana.

Per Basaglia, il conflitto è elemento essenziale del rapporto fra malato e psichiatra, senza il quale il più debole non potrebbe mai costituire la propria soggettività. Ed è anche in termini di conflitto che egli costruisce la sua relazione con la psichiatria e con la società. Basaglia è, e fa di tutto per essere, un pugno nello stomaco per lo psichiatra, e non solo per lui. Quando scrive è uomo di rottura, massimamente divisivo, non è uomo di pace e così credo che sia giusto recepirlo senza ammorbidirlo, edulcorarlo (pp. 212-213).

È questo il senso dell’auspicato “ritorno a Basaglia” – per riprendere il titolo di un precedente libro di Peloso (Genova, 2022) – che questa biografia intellettuale ci consegna.

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