Emanuele Gaetano Schilirò (1998) ha conseguito il diploma di liceo classico europeo in cotutela con la Francia (ESABAC: «Esame di Stato» italiano e «Baccalauréat» francese) nel 2015 con 100/100. Laurea in Lingue e Culture europee euroamericane ed orientali (specializzazione in Lingua e letteratura francese) nel 2021 con voti 110/110 e lode presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche - Università degli Studi di Catania, discutendo una tesi sperimentale e di ricerca dal titolo “Analisi linguistica sulla tradizione delle versioni francesi della Disciplina clericalis di Petrus Alfonsi”. Progetto in itinere su “Dialogus contra Iudaeos: mediazione culturale, ideologica e religiosa tra civiltà medievali contrapposte”. Esperto in digital Humanites, disciplina finalizzata all’integrazione di procedure computazionali e sistemi multimediali

06La seconda metà del Novecento ha assistito, non solo in Italia e nel Vecchio Continente, a una trasformazione formale e sostanziale di cui oggi sono evidenti le cause primarie, gli effetti morali con ricadute niente affatto casuali, non solo nel ristretto ambito letterario, ma anche negli ambiti più variegati della civiltà geograficamente globalizzata, politicamente sempre più contrapposta consapevolmente e generalmente incerta nelle proprie scelte ideologiche. Le grandi visioni ideali che animarono il Medio Evo europeo come la Commedia dantesca, ritrassero il trionfo della nascente borghesia  partendo dal ceto mercantile dipinto con simpatia dal fiorentino Boccaccio e poi, a secoli di distanza,  criticamente riconosciuto, nei suoi deleteri difetti, da Thomas Mann [1] in una Germania sempre più lacerata dai plutocrati di ascendenza ebraica: questi sono capolavori di indagine morale ricercata nelle sue estreme conseguenze politiche come la fuga dall’antico continente di comunità ebraiche che cercarono condizioni di vita più sicure negli Stati Uniti d’America, dove anche oggi vengono minacciate da crescenti episodi di insofferenza. Tutti questi esempi di dolorosi contrasti, di individualismi sempre più rancorosi, cercano espressione in creazioni letterarie dalle dimensioni epiche e dalle conseguenze politiche sempre più imprevedibili. Tutti questi indizi fanno comprendere come la sostanza della narrazione letteraria abbia subìto negli ultimi anni inaspettati ed imprevedibili sussulti.

Ritengo indispensabile averne fatto almeno una menzione, per chiarire come la letteratura (europea principalmente, ma non solo essa[2]) abbia fatto da cassa di risonanza di tematiche che al tramonto di questo primo quarto di secolo sono diventate sempre più divisive e minacciose di ulteriori, ferali, sviluppi. Non si tratta, ovviamente, di scrutare qui i possibili esiti futuri delle strade che vengono esplorate dai politici di oggi variamente occupando le pagine dei quotidiani, ma di riconoscere l’importanza che le scelte attuali stanno preparando per i nostri discendenti. Ovviamente, come ben sapevano anche gli antichi, il futuro è imponderabile; ma il passato è inconfutabile e rileggere le pagine scritte da raffinati osservatori del secolo scorso ci permetterà di cogliere gli errori dei pensatori di ogni scuola, fornendo utili parametri per distinguere le ideologie stagionali dalle verità cui sono giunti pensatori di incontestabile envergure. Rimarco il termine “pensatori”, i quali, come Tucidide tra i Greci e Tacito tra i Latini, non si limitavano a raccontare i fatti politici a loro più prossimi, ma sapevano anche darne adeguate interpretazioni. Le Historiai dello storiografo ateniese e gli Annales del secondo, non si limitavano a fornire narrazioni, più o meno precise, sulle vicende trascorse e sulle loro motivazioni politiche ed economiche. I discorsi che adornano le storie dell’autore greco e di quello latino probabilmente non rimontano ad attestazioni sempre sicure: sono piuttosto interpretazioni ex post, da parte di scrittori che miravano ad indicare i difetti della politica personale, dei calcoli faziosi che sempre mascherano i veri intendimenti dei trascinatori di folle di tutti tempi. Non casualmente i discorsi inseriti nelle pagine di Tucidide e di Tacito sono il commento degli Autori su quello che i contemporanei non avevano saputo cogliere. Dunque, gli storici antichi erano in effetti i chiosatori che, con il senno di poi, mostravano gli errori o i pregi dei protagonisti delle loro storie. Ma anche negli anni a noi più prossimi il fenomeno dello storico che parteggia per una fazione politica si ripete in modi che sono certamente più agguerriti di quelli adottati nei secoli avanti Cristo: ma che tuttavia ne utilizzano gli strumenti con manifesti intendimenti politici. Non casualmente Machiavelli si mise in urto contro i plutocrati fiorentini, contro le autorità ecclesiastiche che li spalleggiavano e soprattutto contro i cardinali che ne sostenevano le posizioni.

Esisteva però un altro modus operandi che permettesse agli osservatori della politica di esprimere il loro parere senza esporsi direttamente alle tremende punizioni che colpirono il Segretario fiorentino[3] e il suo connazionale Giordano Bruno. Era il metodo di intrecciare tra loro la verità e la finzione narrativa. Lo aveva fatto Boccaccio gabbando religiosi e prelati con stile sarcastico. Altri autori sostenevano la politica manifestamente militante anche se ufficialmente le loro pagine erano solo destinate a sollazzare i lettori. Il racconto delle tre anella di Boccaccio[4] ne è attestazione più che sicura. Ce ne sono altre che devono uscire dal novero dell’intrattenimento narrativo, per entrare nella categoria della critica militante. Militante, ovviamente, nel senso di una difesa degli interessi di parte sotto le mentite spoglie della invenzione fantastica. Thomas Mann nei suoi Buddenbrooks[5] inventa una saga sulla lenta decadenza della borghesia commerciale nel rigoroso Nord tedesco, in contrasto con la politica economica[6] dei connazionali meridionali. Il lettore della vasta saga sulla plutocrazia degli ebrei in Germania crede di seguire le vicende sentimentali di una famiglia danarosa e severa del Nord, in contrasto con i comportamenti dei familiari di origine bavarese e cattolicamente possibilista. È proprio questo innesto culturale a determinare la fine di un mondo di valori commercialmente solidissimi. Qualcosa di simile avviene nel romanzo italiano Il Giardino dei Finzi Contini[7] e ha un vasto riflesso nel libro intitolato non casualmente La Storia, di Elsa Morante. Ma i suoi precedenti sono assai rilevanti, e per molti aspetti, degni di nota.

In Francia, Roger Martin du Gard (1881-1958) ne costituisce un cospicuo esempio: anche nella vita quotidiana. Nel 1906 si sposò con Hélène Foucault. I biografi[8] annotano che visse la luna di miele nell’Africa settentrionale che allora era colonia francese (e che tuttora è legatissima alla cultura francofona) e deve essere stata una occasione preziosa per annotare come civiltà assai diverse, quali sono la francese e la magrebina, possano convivere e condizionarsi a vicenda. È il fondamento umano che ritroviamo nelle sue opere della maturità dedicate ad indagare l’espansionismo francese, in ambito coloniale oltre che nello scacchiere europeo, sfociando nei volumi vastissimi e senza cedimenti romanzeschi, che pretendono un lettore serio, ponderato e attento non tanto alla trama, quanto alle leggi ineluttabili dell’economia e dei rapporti economici conflittuali. Gli imponenti volumi della sua saga hanno la pacata andatura dei classici annali sulla confluenza di movimenti sociali e contrasti economici, ma ne trattano con la dovuta pacatezza di chi sente il dovere di indicare i pericoli delle scelte avventate, delle decisioni affrettate che sono state alla base della politica europea fino alla prima metà del Novecento. Impossibile trattarne come se le sue fossero pagine di un ordinario autore di romanzi. Le stesse dimensioni dei suoi volumi (che si estendono per undici tomi) ci avvertono che siamo in presenza di una ricognizione post eventum di fatti che sempre serpeggiano nella storia umana, esplodendo luttuosamente nelle crisi rivoluzionarie. Così dovremo studiarlo, e non come un ordinario narratore. Bisognerà confrontare i fatti che narra, il modo di proporli, e indicarne i segreti riposti: sempre ricordando che egli traccia il profilo della Storia e non le vicende di avventurieri più o meno fortunati.

Considerata la mole dei suoi scritti non potremo logicamente indicarne i moventi, più o meno palesi, che li caratterizzano: cercheremo però di sottolinearne le tematiche più profonde. Consapevolmente rinunceremo a qualsiasi tentazione di esegesi stilistica: lo storico cerca di esporre le cause dei fatti e le loro conseguenze: tutto il resto può interessare quelli che i francesi chiamano littérateurs. E solo essi. Nel condurre le indagini appassionanti e ricche di inattese scoperte, cercherò di mettere assieme la precisione dei richiami con la interpretazione delle conseguenze: cosa che la estensione vastissima dei volumi rende periclitante tra semplificazioni frettolose e motivazioni indicanti i prodromi delle catastrofi successive. Il primo tomo fu stampato nel 1922[9]. La scena si apre su un collegio destinato ai rampolli dei ceti più abbienti: assicurando la formazione religiosa dei giovani che però, proprio nelle prime pagine, è contraddetta da un educando che, a quanto pare, sta seguendo strade poco consone alla professione religiosa. Cerchez la femme dicono solitamente i francesi. Il religioso responsabile della educazione morale degli allievi non ne sembra particolarmente preoccupato. Ma il padre, rappresentante della buona borghesia, se ne allarma. Dunque, abbiamo a che fare con un ritratto aggiornato della scena iniziale dei Promessi sposi manzoniani che, giusto in quel torno di tempo, celebrava il primo secolo dalla sua prima tiratura. Il romanzo manzoniano moraleggiante e le pagine decisamente licenziose di Apuleio basano il loro successo proprio sui sottili veli di indecenza, con cui si ricoprono.

Nei libri ottocenteschi la tematica erotica è presente, ma non giunge quasi mai all’afrore sfacciato che era stato dei Canterbury Tales inglesi o del Taugenichts di Joseph von Eichendorff. In compenso i libri di amena lettura che vennero pubblicati nei primi decenni del Novecento lasciavano presagire il prossimo crollo degli ideali più o meno sentimentali che avevano caratterizzato il secolo precedente. Conservano però la grande envergure sentimentale, le aspirazioni eroiche che accompagnarono i movimenti nazionali nella Polonia di Henryk Sienkiewicz, nella Francia di Victor Hugo, nella Russia di Aleksandr Solženicyn. Si potrebbe quasi parlare di una letteratura europea diversa per lingue di espressione slava, germanica o neolatina, ma coerente per gli ideali ispiratori.

Queste le considerazioni preliminari della ciclopica Saga che per le sue dimensioni richiede un impegno non indifferente da parte del lettore ordinario. Non è un impegno casuale e si accresce quando il lettore è anche recensore che si rivolge a destinatari accademici di alta specializzazione. L’autore stesso ne era consapevole quando nella prima pagina del primo volume della sua creazione affermava:

J’aurais laissé paraître cet ouvrage sans avertissement si j’avais pu le présenter dans sa totalité. Mais publier d’un coup un roman de huit ou dix volumes, c’est une extravagance que ne peut se permettre, de nos jours, un éditeur sensé, – si haut qu’il tienne sa firme au-dessus des sollicitations commerciales. Il faudra donc débiter cette oeuvre par tranches, à quelques mois d’intervalle. Je prie le lecteur de ne pas chercher un tout dans chacun de ces fragments successifs, et d’accepter provisoirement ce qui, faute d’une vue d’ensemble, pourra lui paraître défaut d’ordonnance ou de clarté.

Non era soltanto un problema di ordine economico o tipografico: la vasta creazione si proponeva come un ampio affresco nel quale tutti i dettagli avevano uguale rilievo non ammettendosi una priorità di interesse per alcuni aspetti (sentimentali generalmente), rispetto a quelli politici che al lettore medio poco importano. Dunque, la vasta creazione, come la indiana Mahābhārata, procederà solenne e vasta lasciando la brevità sommaria agli scritti effimeri che mirano a dilettare solo per una stagione. Ne è stato convinto assertore, in un fondamentale saggio[10] apparso in Le Mouvement Social, un critico correligionario, oltre che connazionale di Roger Martin du Gard, il quale osserva come la questione religiosa oltre quella della tradizione culturale siano strettamente connesse sia sul territorio francese, che nel più vasto ambito delle indagini culturali nei campi più remoti della antropologia mondiale. Valga per tutti un solo esempio: Lévy-Strauss andò ad esplorare le condizioni primitive della vita dei Nambikwara del Sud America. Aveva ragione, gli indigeni che miracolosamente conservavano le tradizioni degli umani preistorici, avevano molto da insegnare agli umani selvaggiamente impegnati nelle carneficine dei conflitti mondiali. Ci crediamo assolutamente superiori alle organizzazioni tribali di quelli che chiamiamo selvaggi e non vediamo quanto ne siamo più stupidamente inferiori. Non appaia inopportuna questa menzione di tematiche apparentemente lontane dal nostro thema probandum. In effetti la tematica di fondo è la medesima. Se ne rese conto anche Martin du Gard quando nel 1933 modificò il progetto primitivo del ciclo dei Thibault, trasferendolo dal piano della psicologia del singolo individuo, alle molteplici e confliggenti polemiche che provocarono la conflagrazione della carneficina mondiale, terribilmente replicata nel secondo conflitto concluso dalle atomiche in Giappone[11]. È chiaro che le opere letterarie fin dai tempi dell’Iliade cercano di correggere la furia omicida delle guerre provocate da appetiti umani dalle conseguenze catastrofiche che si stanno ripetendo nella catena di incursioni e ritorsioni militari che contrappongono popoli di riconosciuta affinità plurimillenaria semitica sulle sponde orientali dello stesso mare nel cui centro è situata l’Italia.

In ultima analisi, il vastissimo ciclo di romanzi dedicato ai rampolli della famiglia Thibault è il ritratto sconfortante della borghesia francese, ricca e poco attenta alle condizioni dei popolani. Società ricca, ma non priva di vizi e l’Autore non esita a raccontarci anche i vizi ed i peccati che inducevano i ricchi a comportarsi da ipocriti fingendosi religiosi, frequentando le scuole dei preti e però comportandosi da sfruttatori del popolo, pronti a condurre guerre continue pur di prolungare il proprio potere politico e il prestigio sociale. Qualcosa di simile avviene anche nelle opere di grandi romanzieri più o meno dello stesso periodo come Thomas Mann che fece una analisi spietata dei vizi dei Buddenbrook, una famiglia di ricchi commercianti del Nord tedesco, spregiudicati e sprezzanti della situazione del popolo. Qualcosa di sovrapponibile ha scritto anche Solzhenicin (autore russo che pubblicò quasi clandestinamente, nel 1968, il libro-documentario vastissimo intitolato Arcipelago Gulag) e lo scrittore americano Henry James che scrisse (pubblicandolo dapprima a puntate nelle riviste femminili) I Bostoniani in cui si racconta della boria delle famiglie ricche della costa orientale statunitense: famiglie che, come quelle dell’Europa dei primi del Novecento, erano eleganti, fingevano di essere umanitarie, ed erano sostanzialmente ipocrite e viziose. Dunque il nostro lavoro mira a mettere in risalto la funzione che i romanzieri del Vecchio e del Nuovo continente associavano alla scrittura: che mirava non solo a intrattenere i ricchi, ma soprattutto a scuotere le classi popolari mostrando loro i vizi e la spregiudicatezza dei ceti borghesi.

Accanto a questi che sono i temi di fondo della indagine, si pone il problema delle rispettive relazioni tra le diverse culture originarie. I romanzi del Verga raffigurano la condizione dei poveracci in Sicilia, poi la “arrampicata” di quelli che come don Gesualdo riescono ad arricchirsi con tutti i mezzi più o meno leciti. La letteratura tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento era il ritratto di una evoluzione sociale che sul piano politico provocò una serie di guerre coloniali per sfruttare le ricchezze delle popolazioni più arretrate nelle colonie africane o dell’Asia. Colonialismo che ancora serpeggia in alcuni paesi del vicino e Medio Oriente. Ma questa è una storia ancora in corso. Di cui nessuno oggi può scorgere la soluzione. La storia politica e letteraria dell’Europa colonialista tra Otto e Novecento si può osservare e descrivere con precisione anche se, come dicevano gli osservatori più acuti del passato, la storia potrebbe essere maestra di vita, ma recluta pochissimi allievi. Si tratta di tematiche critiche sulle condizioni e sui vizi della borghesia nel mondo occidentale, che ovviamente si presta ad una rilettura di revisione critica, dopo decenni di contrapposti giudizi ispirati principalmente dalle ideologie accolte per partito preso. In effetti, e in questo consiste il valore principale dell’opera di Martin du Gard, i suoi scritti eliminano i confini tra la narrazione e l’esperienza personale del lettore. Più che un piano narrativo articolato per soggetti ci troviamo davanti a una serie di esperienze che si intrecciano tra di loro, che si trasferiscono da un personaggio all’altro, dove il lettore non è semplicemente il destinatario delle allusioni (morali o politiche, perveniste o ipocrite che siano) ma diventa il personaggio muto, il kofón prosōpōn della commedia attica antica il quale non parlava ma non per questi era solo un testimone di quel che altri dicevano. Il lettore, negli scritti che stiamo esaminando di Martin du Gard è invitato a sostituirsi ai personaggi fittizi divenendone la controfigura, in una sorta di transfert psicologico, di grande interesse nel campo della psicologia sperimentale con un ribaltamento totale del dialogo tra la pagina scritta e il lettore, il quale si sente coinvolto a prendere parte alla vicenda narrata, in quanto destinata solo a lui (al lettore) non come semplice divertimento narrativo, ma come esperienza (morale, politica, sentimentale) che può essere sperimentata da tutti. E nelle pagine dello scrittore francese il lettore viene indirettamente invitato a confondersi con i personaggi a partecipare delle loro emozioni[12]. Siamo di fronte alla tecnica del transfert per cui i personaggi della narrazione diventano i modelli per il lettore che in essi si può riconoscere, con tutte le reazioni, non sempre favorevoli che ne possono seguire. È il transfert, che ovviamente si può provare davanti a tutti i capolavori letterari, anche se si è principalmente avvertibile in quelli che implicano una partecipazione emotiva diretta. Dal piano della lettura come distaccata considerazione di fatti altrui narrati per puro diletto a un pubblico probabilmente vario e con interessi probabilmente diversificati, siamo passati al coinvolgimento personale, come se la storia, la fabula narrativa fosse diventata esperienza diretta, personale che si sviluppa davanti ai suoi occhi, coinvolgendolo in modo emotivo come controfigura dei personaggi fittizi. L’autore conclude la sua pagina con una considerazione sul pubblico destinatario dello scritto partecipe «du même rêve de reposer enfin leur quête entre des lignes; et la contrariété de découvrir le verbe “tirer” employé deux fois, par distraction ou paresse, à deux phrases d’intervalle». Considerazioni che mettono assieme la fantasia creatrice libera della narrazione, con le leggi rigorose della stilistica: esigenze che nella pratica narrativa dei prosatori generalmente non sottostanno allo stesso rigore. In effetti lo scrittore si sente come una sorta di testimone occulto, onnipresente: non è il creatore delle situazioni ma solo il suo cronista.

NOTE

[1] I cui Buddenbrooks (vd. infra nota n. 5) trattano della decadenza di una dinastia di accorti commercianti alle prese con le scelte di politica economica dei “meridionali” e rampanti bavaresi.

[2] Mi limito a menzionare il romanzo L’arpa birmana, che dopo la letale esplosione delle armi atomiche su Hiroshima e Nagasaki, ne continua il severo monito sia nel Giappone imperialista come anche nel vastissimo uditorio mondiale che ha seguito il romanzo originale e le sue riduzioni filmate (cfr. M. Takeyama, ビルマの竪琴 / Biruma no tategoto, s.e., 1948).

[3] Cinque giorni dopo il rogo in piazza del frate Girolamo Savonarola nel 1498, il Consiglio degli ottanta della Repubblica fiorentina propose Niccolò Machiavelli come segretario. E, di lì a poco, Machiavelli era divenuto anche segretario della magistratura dei Dieci di libertà e pace, con compiti di politica interna ed estera (cfr. G. Gentile, M. Galanti: il problematico Elogio del Segretario fiorentino. Machiavelli e la cultura politica del meridione d’Italia, in Bollettino dell’Archivio della Ragion di Stato, II, 2001, pp. 156-171).

[4] Nella terza novella della Prima giornata del Decameron un ricco usuraio ebreo di nome Melchisedech racconta la parabola dei tre anelli come risposta alla domanda-trappola che il principe musulmano Saladino gli pone: «Vorrei sapere da te qual è la fede più vera, se quella ebrea, musulmana o cristiana?».

[5] Buddenbrooks (Verfall einer Familie) è il primo romanzo dello scrittore tedesco Thomas Mann, pubblicato all’età di ventisei anni, nel 1901. Narra l’ascesa e il declino attraverso quattro generazioni di una famiglia della borghesia mercantile di Lubecca. Titolari di una ditta di cereali fondata nel 1768, i Buddenbrook hanno costruito la propria fortuna economica sull’etica del profitto e la disciplina del lavoro e fondato il proprio prestigio sociale sulla rettitudine e il decoro (cfr. T. Mann, Buddenbrooks, S. Fischer, Berlin 1901; I Buddenbrook, trad. it. di F. Jesi e S. Speciale Scalia, Garzanti, Milano 2003).

[6] G. Ambrosius, Lo stato come imprenditore. Economia pubblica e capitalismo in Germania nel XIX e XX secolo, F. Angeli, Milano 1994.

[7] Il giardino dei Finzi-Contini, pubblicato da Einaudi nel 1962, è il romanzo più celebre di Giorgio Bassani. Il romanzo racconta le vicende della ricca famiglia ebraica dei Finzi-Contini nella Ferrara degli anni Trenta.

[8] P. Bardel, Repères Chronologiques, Europe Revue Littéraire Mensuelle, DCCLXII, 1992, pp. 133-140.

[9] Quando in Italia, dopo i lutti della prima guerra mondiale, si avvertivano le conseguenze rivoluzionarie che ne conseguivano anche presso i ceti abbienti, ed ideologicamente soddisfatti, venivano alla luce appetiti rivoluzionari che fino ad allora erano stati controllati dalle pubbliche istituzioni e dalle organizzazioni religiose più o meno palesemente indottrinate dal magistero cattolico (cfr. G. Volpe, L’Italia in cammino. L’ultimo cinquantennio, Treves, Milano 1928).

[10] J. Schlobach, “L’Été 1914”: Roger Martin Du Gard, Historien et Romancier in Le Mouvement Social, XLIX, 1964, pp. 119-138.

[11] J. Schlobach, o.c., p.120.

[12] La citazione che segue è tratta da J. Guerreschi, Regarde mes dieux grandir, in Roger Martin Du Gard, Europe, Revue littéraire mensuelle, DCCLXII, 1992, p. 27.

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