Emanuele Gaetano Schilirò (1998) ha conseguito il diploma di liceo classico europeo in cotutela con la Francia (ESABAC: «Esame di Stato» italiano e «Baccalauréat» francese) nel 2015 con 100/100. Laurea in Lingue e Culture europee euroamericane ed orientali (specializzazione in Lingua e letteratura francese) nel 2021 con voti 110/110 e lode presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche - Università degli Studi di Catania, discutendo una tesi sperimentale e di ricerca dal titolo “Analisi linguistica sulla tradizione delle versioni francesi della Disciplina clericalis di Petrus Alfonsi”. Progetto in itinere su “Dialogus contra Iudaeos: mediazione culturale, ideologica e religiosa tra civiltà medievali contrapposte”. Esperto in digital Humanites, disciplina finalizzata all’integrazione di procedure computazionali e sistemi multimediali

Recensione a: G. Magnano San Lio, Umanità e Storia. Considerazioni antropologiche e contaminazioni culturali nel giovane Dilthey, Bonanno editore, Acireale-Roma 2020, pp. 124, € 14,00.

Wilhelm Dilthey (1833-1911), come dichiarano i termini estremi della sua vita è stato un indagatore delle relazioni culturali, e dunque filosofiche e religiose dall’antichità all’età moderna. Un indagatore e non un semplice raccoglitore di dati storici, perché si apprestava a studiare i rapporti tra i popoli dei quali abbiamo sufficienti fonti autentiche e non voleva limitarsi ad una semplice rassegna degli eventi militari, economici o anche culturali che contrassegnarono le età trascorse. Bisogna in primo luogo considerare le relazioni reciproche tra i vari popoli e i vessilliferi che ne guidarono le vicende. Ma non basta la semplice cronistoria di fatti decisivi. Occorre anche indagare sulle motivazioni che animavano le popolazioni coinvolte. Generalmente si è trattato di obiettivi militari, politiche di ampliamento, miraggi culturali che spesso sono assai più efficaci delle motivazioni puramente economiche dei popoli interessati. Dittatori e uomini capaci di entusiasmare le folle, nel corso dei secoli, hanno guidato azioni belliche dagli esiti dolorosi perché i popoli di tutte le stagioni credono facilmente alle parole abilmente confezionate degli uomini di successo del momento.

Ma di contro a questi personaggi, che per qualche tempo possono affascinare intere popolazioni, si osservano movimenti più profondi e duraturi che cambiano concretamente il divenire degli sviluppi sociali di intere regioni o addirittura di vastissimi territori: guidandone gli abitanti verso trionfali affermazioni, o verso dolorose catastrofi. Indagare sulle circostanze, favorevoli o sfortunate, delle imprese catastrofiche di cui quasi nessuno aveva previsto le conseguenze, è compito degli storici ai quali spetta di considerare la realtà oggettiva delle circostanze, prevedibili o no, che accompagnarono gli eventi e ne decretarono il successo o il luttuoso esito. Ovviamente, chi si accinge a tale disamina non può basarsi su fonti parziali di notizie e, per converso, deve evitare di cadere nelle trappole della communis opinio, la quale, per quanto condivisa da personalità di auctores, non sia sostenuta da una documentazione adeguata e che non faccia riferimento solo a fonti interessate a spiegare gli eventi basandosi su programmi propagandistici da far valere in circostanze assai limitate nel tempo e nello spazio. Le cronache storiche hanno registrato il crollo inopinato di vasti imperi che non riuscirono ad amalgamare i popoli sudditi e viceversa di popoli assai limitati per numero di cittadini e per ricchezza di risorse, ma che riuscirono a tenere testa e debellare vaste regioni, anche povere di risorse. Basta pensare al vasto impero persiano che a Maratona fu sbaragliato dalle ridotte armate delle poleis greche. Nel parlare di eventi storici che siano poco illustrati dalle cronache coeve, bisognerà tener conto non solo dei dati oggettivi forniti dai documenti autentici, ma anche degli stati d’animo popolari che sempre possono imprevedibilmente rovesciare gli esiti di strategie militarmente ineccepibili, ma poco condivise dalla opinione popolare.

Questa premessa metodica mira a confermare che le strategie militari da sole non bastano a spiegare le circostanze umane degli eventi. È un caveat metodico mirante a ricordare che i fatti politici e le scelte militari che ne conseguono non si possono spiegare con strategie soltanto teoriche. Dilthey si pone davanti ai fatti storici documentati non come semplice cronista delle vicende di singoli popoli della storia universale. Sottolineo che gli eventi storici da lui analizzati escono dalle tradizioni delle cronache della civiltà greco-latina prima e di quella europea dopo, per dedicarsi, consapevolmente, ai movimenti culturali e alle pulsioni imperialiste che caratterizzarono, dopo l’età classica, gli scontri e le trasformazioni politiche dell’età medievale. Bisogna insistere su questo ampliamento dell’inquadramento storico che concilia il percorso dell’indagine storiografica e la problematica relativa alla fondazione delle Geisteswissenschaften, termine introdotto inizialmente come traduzione tedesca dell’espressione moral sciences e poi diffusosi nella filosofia tedesca post-idealistica soprattutto a partire da Introduzione alle scienze dello spirito (1883) di Wilhelm Dilthey, che con esso intendeva l’insieme delle discipline che hanno per oggetto il mondo umano e che si distinguono dalle scienze della natura per la storicità dei fenomeni indagati e per il procedimento ermeneutico della comprensione (Cfr. L. Geymonat, Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico, Vol. VI, Garzanti, Milano 1981, pp.157-158).

La storia politica del Mediterraneo classico è dominata dalle vicende culturali fiorite a partire dal V secolo prima dell’età volgare. Ma i popoli greci e le organizzazioni delle poleis repubblicane (o rette da tiranni) costituirono un modello luminoso di come una nazione possa governare non solo gli interessi economici, ma altresì quelli culturali e possa costituire un modello anche per genti sostanzialmente estranee. Le poleis greche che prosperarono attorno al V secolo prima dell’età volgare ne sono una chiara dimostrazione. La repubblica ateniese subì i contraccolpi di una amministrazione popolare che veniva facilmente manovrata da mestatori privi di scrupoli che anteponevano gli interessi personali a quelli della collettività, trasformando le repubbliche popolari in comitati di affari privati che portarono al crollo del sistema sociale. La polis di cui parlava Platone era un modello teorico, la direzione degli affari pubblici nella Atene classica era in effetti manovrata da abili retori che sostanzialmente miravano ad interessi di parte. Insomma bisogna distinguere tra i progetti politici e la loro effettiva realizzazione e giudicare la bontà del sistema non sulla base delle teorie filosofiche, ma della loro effettiva realizzazione. Del resto le teorie, anche peregrine, possono facilmente trasferirsi da una regione all’altra, ma l’educazione morale della cittadinanza non si può facilmente trasferire dagli scritti filosofici alla pratica quotidiana. La Repubblica platonica è validissima sul piano filosofico, ma per realizzarla effettivamente bisognerebbe avere una cittadinanza mirante soltanto al benessere pubblico e non esclusivamente alle mire egoistiche di parti, fazioni, rappresentanti di interessi personali che spacciano discorsi tanto persuasivi, quanto lontani dalla realtà popolare. Questi fatti si possono facilmente riassumere, in quanto fanno parte della storia antica che, anche dopo la fine dell’età classica in Grecia e a Roma, continuò a illuminare con le sue istituzioni quello che sarebbe stato solo un progetto di democrazia con scarsi addentellati nella realtà.

Dilthey su questo punto è scrupolosamente metodico. Analizza i grandi momenti della vita politica nella Grecia classica e nella Roma repubblicana, ma ispirato da una incalzante antropologia comparata spinge lo sguardo anche al mondo circostante (pp. 36 ss). Il quale solitamente viene trascurato dalle sintesi storiche più accreditate. E qui il metodo di Dilthey si impone per la sua chiarezza nelle analisi dei fatti accertati e per il realismo sulle conseguenze che se ne possono dedurre: dato che tutti sappiamo come la storia della luminosa Atene periclea fu seguita dai disastri provocati da una democrazia che si trasformò in oligarchia, così come la gloriosa res publica romana ben presto si trasformò in un regime aristocratico basato su una severissima separazione tra gli aristocratici imperialisti e una massa di plebei che si poneva al servizio degli interessi familiari dei patrizi. Tutto questo Dilthey lo studia con attenzione oltre i confini della storia accreditata da una manualistica assai radicata da millenni, ma non per questo più veritiera della pubblicistica retorica. Il sistema politico romano era in sostanza basato su una oligarchia di patrizi, spalleggiati da facinorosi capi-popolo, che forniva agli interessi dei patrizi ogni strumento, più o meno democratico, di persuasione.                                                                                                                     Nihil novi sub sole. Ma Dilthey non si limita a ripetere i lemmi inveterati del lessico storico. Nel mondo antico non c’erano solo Atene e Roma: c’era un Vicino Oriente che pullulava di rinnovamenti che combinavano gli interessi economici e quelli propagandistici (p.30 ss). Non basta pensare al rinnovamento che per qualche stagione permise la creazione dell’impero persiano. Bisogna spingere lo sguardo agli eventi che distinsero le ideologie sociali del mondo antico e che continuarono a svilupparsi nella politica del mondo medievale per poi sfociare nelle lotte economiche (e militari) del Medio Evo europeo e poi dell’età moderna nei secoli più vicini a noi. Le ideologie non sono state fine a se stesse ma hanno puntellato il colonialismo europeo, hanno sostenuto le fedi religiose più militarizzate: come avvenne con le Crociate da una parte, con le conquiste realizzate dai musulmani e poi dalle forzature sanguinose che accompagnarono la caduta dai popoli primitivi delle Americhe o dell’Africa di fronte alle spietate amministrazioni coloniali che ancora nel XXI secolo continuano a confondere la diffusione della cultura e della civiltà occidentale, con disumane operazioni  di oppressione sulle popolazioni primitive. Non si tratta solo di recuperare i diritti naturali delle popolazioni rimaste più arretrate. Si tratta soprattutto di recuperare i valori fondanti della civiltà umana. Dilthey avverte a più riprese che il cammino della civiltà umana non è stato realizzato dalla genialità dei popoli civilizzati, ma piuttosto dalla maturazione di ideologie umanitarie sostenute da reciproci contatti. Graecia capta ferum victorem cepit, affermavano i Romani, ma – e questo è il contributo fondamentale dell’imponente studio del Dilthey – si può affermare che tutta la civiltà umana ha beneficiato, in varie epoche e con diversi esiti, della reciproca influenza tra popoli dalle svariate tradizioni, che però riconoscevano, negli invasori, i portatori di ideologie che potevano contribuire al progresso generale. Anzi è stato proprio il contatto con popoli di culture diverse a contribuire alla crescita dei commerci, degli scambi di idee, delle sperimentazioni più fortunate. I Romani assimilarono la civiltà dei Greci creando quella civiltà classica che ancora oggi risulta come uno dei momenti più prosperi della storia antica. Analoghi contatti avvennero tra gli Arabi e le civiltà più avanzate del Vicino e Medio Oriente determinando quella fioritura di commerci, di diffusione delle scienze: «venivano messi a confronto, nell’ambito del tentativo di accostare modelli per consuetudine ritenuti profondamente eterogenei, i differenti risultati scientifici conseguiti in paesi lontani e strutturalmente diversi, come per esempio la Grecia e l’India, e ciò in modo particolare per ciò che concerneva alcune discipline più specifiche» (p.36 ss); di sistemazione del pensiero filosofico, il cui più splendido esempio sbocciò e prosperò nella Spagna sottoposta dai musulmani e nella Sicilia che ne imitò alcuni tratti. Uno dei contributi più significativi dello studio, denso e articolato, che Giancarlo Magnano San Lio ha dedicato al giovane Dilthey, consiste proprio in questa analisi dei contributi dei vari periodi storici in cui si indaga non tanto sull’apporto delle singole civiltà, quanto sugli scambi reciproci di scoperte scientifiche, di contributi culturali, di avanzamento delle conoscenze e di un vasto sviluppo di ideologie e pratiche  amministrative.

Il sistema delle cifre che i Greci rappresentavano con lettere alfabetiche difficilmente avrebbe permesso gli sviluppi scientifici. L’uso di soli dieci segni per le cifre e l’invenzione dello zero, ha consentito calcoli che i matematici greco-romani non avrebbero potuto raggiungere. Lo scambio delle informazioni, che è andato ulteriormente crescendo dal mondo antico a quello moderno, sta consentendo una accelerazione continua delle conoscenze e delle informazioni su scala mondiale. È ovvio che lo studio intende evidenziare i momenti più significativi della evoluzione linguistica dai secoli preistorici agli odierni sistemi di comunicazione che con l’intervento della intelligenza artificiale consentono progressi e modalità espressive che fino ad alcuni decenni addietro non erano immaginabili. Ma l’evoluzione della linguistica umana procede lungo direttive che sono di sicura efficacia sul piano ermeneutico, anche se da sola l’ermeneutica non basta per soddisfare tutte le esigenze comunicative che sono teoricamente possibili. Possiamo immaginare sistemi di comunicazioni assai avanzati che permettono di trasferire da una lingua all’altra le comunicazioni che si vogliono diffondere nelle più disparate espressioni linguistiche locali. L’intelligenza artificiale consente standard di velocità, buoni livelli di espressività efficace. Ma questo non significa che sia possibile – finora – una affidabilità di comunicazione tra ceppi linguistici diversi, specialmente quando tra la lingua di partenza e quella di destinazione intercorrano differenze espressive dovute alla distanza tra varie tipologie espressive o addirittura scarti ermeneutici incolmabili. Il saggio analizzato esemplifica in modo assai convincente. Sono esistite forme linguistiche arcaiche – anche in Europa – che non conoscevano i colori, e ignoravano le differenze tra alcuni di essi. Il sistema linguistico infatti rende efficacemente i concetti che sono ben chiari a chi parla la propria lingua come lingua madre e un destinatario che non sempre è in grado di identificarla nel proprio codice concettuale. Ci sono termini di sfumature cromatiche che in alcune lingue non vengono distinte, modalità espressive che per alcuni idiomi sono essenziali, ma per altri non lo sono affatto. Dunque il tradurre da una lingua all’altra può incorrere in idiosincrasie che sono difficilmente esplicabili. Come si può rendere il concetto di azzurro nella lingua di popoli che non distinguono questo genere di colore? Ci si può intendere solo se si parte da una serie di concetti che sono presenti sia nella lingua di partenza che in quella di arrivo. Il Corano, tanto per fare un esempio, non distingueva il colore azzurrino del cielo: quando si tratta di distinguere entità reali che dal campo dei colori passano alla distinzione di sentimenti, di stati d’animo, che in una determinata lingua non sussistono, risulta evidente che non è sufficiente una “traduzione”, ma occorre passare a una “spiegazione” dei concetti. Ovviamente negli ultimi decenni la diffusione dei mezzi di comunicazione è riuscita ad uniformare sensibilità, stati d’animo e affetti, che per secoli sono stati variamente avvertiti dai rispettivi parlanti di lingue diverse.

Alcuni concetti che hanno grande valore in una lingua, possono essere espressi molto più confusamente in un’altra. Questa discrasìa rende in buona misura difficili le “traduzioni” da una lingua che riconosce e specifica alcuni concetti e quelle che possono del tutto ignorarle. Quello che vale per i colori, vale ed è ancora rilevante per i concetti di associazione, di valori morali, di concezioni spirituali che alcune lingue hanno raffinato, ed altre ignorano del tutto. La “traduzione” può sussistere solo tra lingue che fanno riferimento a concezioni, a sentimenti comuni. Se poi abbiamo a che fare con due lingue che non condividono interi campi espressivi, è chiaro che la “traduzione” diventa impossibile. Si può accogliere solo come tentativo di uniformare concetti, di creare una estetica (che etimologicamente dovrebbe essere l’analisi della forma mentis del parlante una lingua) secondo canoni che sono del tutto diversi in un’altra. Il racconto biblico del diluvio universale, a pag. 31 del saggio di Giancarlo Magnano San Lio, è più recente di quello che appare presso gli Assìri. Il che significa che i redattori del testo biblico poterono adattare la storia del contrasto religioso tra assiri ed ebrei (i quali popoli dal punto di vista delle strutture linguistiche mostravano tendenze sostanzialmente contrastanti). Le vicende possono essere somiglianti, ma le finalità religiose e morali dovevano essere nettamente distinte. C’è addirittura una espressione che distingue la realtà percepita e quella che non lo è affatto. Ovviamente la sensibilità linguistica e quella morale sono difficilmente esplicabili per chi non abbia fatto esperienza dei significati specifici. Accortamente, Magnano San Lio a pag. 97 del suo agile ed organico saggio sottolinea come nel Rigveda, nei libri persiani dell’Avesta, nella Bibbia ebraica e nel Corano e nei poemi omerici «non soltanto non viene nominato il cielo, ma non viene nominato neppure l’azzurro». Questo significa che ogni lingua fa riferimento a un sistema di segni appositamente calibrato, ma riferito alla sensibilità dei parlanti contemporanei. Era dunque possibile che una sensibilità linguisticamente approssimativa facesse riferimento al modo comune di intendere la realtà circostante. È di tutta evidenza che la sensibilità di un popolo è cambiata nel corso dei secoli e che poteva assimilare esperienze sensoriali che nel XXI secolo appaiono evidentemente distinte.

In effetti quel che oggi appare evidentemente distinguibile, nel corso dei millenni poteva passare come indifferente: e se questo vale per le sfumature dei colori che oggi anche un bambino saprebbe riconoscere, doveva valere a fortiori per concetti di comune esperienza che potevano sembrare varianti trascurabili dei colori principali. E se questo poteva coinvolgere la sensibilità ai colori che comunque rientrano nella esperienza di tutti, dobbiamo immaginare che le concezioni religiose e filosofiche trascendenti la esperienza umana, le difficoltà espressive, divenissero insuperabili quando si trattasse di concezioni che sfuggono alla comune esperienza umana e solo vengono sperimentate con le caratteristiche più semplici della vita quotidiana. Quando ci accostiamo a fonti storiche plurisecolari dobbiamo tenere conto di quanto sono cambiate le cose e soprattutto il modo di descriverle. Non dobbiamo cadere nella tentazione di anacronismi tra il significato di talune parole oggi, e come venivano intese in secoli da noi remoti.

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