Lorenzo Bravi (1982) è laureato in Lettere e Storia. Ha scritto per «L'Intellettuale dissidente» e «Pangea». Collabora con la rivista «Il Pensiero Storico».
Recensione a: M. Ciliberto, Niccolò Machiavelli: Ragione e pazzia, Editori Laterza, Bari 2022, pp. 328, € 14,00.
Nel 1996 il filologo Mario Martelli, uno dei più insigni studiosi dell’opera di Machiavelli, nel saggio Machiavelli e Firenze dalla Repubblica al Principato, sosteneva che proprio tra gli studiosi dell’opera machiavelliana non vi era accordo su nulla, né sull’interpretazione delle opere, né riguardo al pensiero filosofico e politico del Segretario fiorentino. Nel corso degli anni la filologia ha cercato di dare un quadro critico sgombro dalle innumerevoli interpretazioni, tramite l’Edizione Nazionale delle Opere di Niccolò Machiavelli, e proprio qualche mese fa è stato pubblicato il corpus delle lettere curato da Francesco Bausi, edito dalla Salerno Editrice. Ma il lavoro di Ciliberto riporta ancora in auge quanto aveva scritto Martelli.
Nell’introduzione del suo saggio, Ciliberto fa una disamina, su base cronologica, della fortuna che ha avuto l’opera del quondam Segretario fiorentino. Fin dopo pochi anni la sua morte, il cardinale Reginald Pole sosteneva che l’autore dell’opuscolo del Principe fu “il dito del diavolo”. Questa interpretazione ha condizionato la lettura delle opere di Machiavelli per tutto il XVI secolo. Di diverso avviso fu Spinoza, che appellò Machiavelli come l’amante della libertà, per giungere fino ad autori come Croce il quale definiva Machiavelli il teorico dell’autonomia politica. Dall’altra parte dell’oceano, Leo Strauss arrivò a teorizzare che Machiavelli fosse il “teacher of evil”, teoria che ancora oggi condiziona tutta la letteratura Usa, sia quella accademica che pubblicistica, sul Segretario.
La domanda che si pone Ciliberto è se sia possibile liberarsi dalle leggende che sono state scritte su Machiavelli, sopra brevemente elencate, e questo non può prescindere «se non si rimette in discussione il concetto di Rinascimento entro cui, sia pure da punti di vista opposti, sono state inserite le varie interpretazioni di Machiavelli, aderendo a quelle immagini oppure contrastandole e rifiutandole» (p. VII). Sempre secondo Ciliberto, per definire il rapporto organico tra il Rinascimento e Machiavelli, va eseguita un’attenta e scandagliata analisi storiografica partendo dall’interpretazione del lemma “Rinascimento”, data sin dall’Ottocento da Jacob Burckhardt nella sua opera Dier and Kultur and Renaissance, in cui teorizzò che l’età rinascimentale in Italia fu la generatrice laica del mondo moderno. Ciliberto, ricollegandosi al magistero del suo maestro Eugenio Garin, mette in risalto la drammaticità, sia politica che culturale, che contraddistinse in quel periodo la penisola italiana. Italia che si trovava in una condizione di decadenza, divenuta, di fatto, un campo di battaglia tra le due superpotenze dell’epoca, ovvero Francia e Spagna, le quali si contendevano l’egemonia sulla penisola e per cui i piccoli Stati rinascimentali erano costretti a schierarsi, senza soluzione di continuità, con l’una o l’altra parte belligerante a seconda dei loro rispettivi interessi geopolitici. La stessa riflessione storica di Machiavelli aveva come presupposto la crisi politica in atto nella penisola italiana. Come Guicciardini, Machiavelli era ben conscio che si stava entrando in una nuova fase storica, che era il risultato di una fase di decadenza culturale e militare che riguardava tutta l’Europa.
Ciliberto, nello spiegare l’opera di Machiavelli, ha voluto dare rilievo all’uomo ed al suo carattere, cercando di mettere in primo piano l’uomo-Machiavelli in tutta la sua interezza. A suo avviso, solo seguendo questo metodo è possibile comprenderne sia l’opera letteraria che l’attività politica. Machiavelli, oltre che un teorico della ragione politica, sarebbe stato anche un visionario a tutto tondo, che ha avuto la capacità di guardare dentro gli eventi in corso cercando di cambiarli e un simile obiettivo lo si poteva attuare prendendo decisioni, anche pazze, tali cioè da risultate fuori dall’ordinario comune. Proprio il lemma “pazzia” veniva declinato dallo stesso Machiavelli come: «capacità di contrapporsi alle opinioni comuni, di rischiare il tutto per tutto inerpicandosi sul crinale che divide la vita della morte» (p. 12).
Pazzia come ultimo atto per l’uomo che cercava di contrastare la sua grande nemica, la “fortuna”, fattore determinante nella rovina dell’uomo. Ma Ciliberto tiene a sottolineare che la “pazzia” machiavelliana era profondamente laica e immanente, non come quella di concezione cristiana proposta – ed elogiata – da Erasmo da Rotterdam, in un testo che Machiavelli in quegli anni potrebbe aver tranquillamente letto. Quella pazzia che si rese evidente nella contingenza e Machiavelli cercò di concretizzarla quando propose a Francesco Guicciardini, in una missiva datata 15 marzo del 1526, di incaricare Giovanni dalle Bande Nere di fargli assumere il comando delle truppe pontificie contro il dilagare in nord Italia delle truppe dei Lanzichenecchi. L’idea, sottolinea Ciliberto, era pazza, ma allo stesso tempo ragionevole proprio per le difficoltà del contesto, perché per Machiavelli la fortuna degli avversari doveva essere “battuta” con un’azione fuori dai calcoli strategici militari e politici usuali. Proprio quel Giovanni delle bande Nere, sostiene Ciliberto, era l’incarnazione del Principe fatta nell’omonimo trattato qualche anno prima dall’ex segretario fiorentino:
In effetti, Giovanni dalle Bande Nere è questo: una incarnazione del principe teorizzato nel “trattato”, ed è frutto, come il “trattato di un’idea pazza”, di una concezione della politica capace di saldare ragione ed energia visionaria: un’analisi lucidissima della realtà e una eccezionale capacità di guardare, quasi tracciandolo con mano, oltre l’ordine esistente (p. 204).
Un’altra questione a cui Ciliberto pone attenzione è la condizione di Machiavelli quale non umanista tout court, estraneo, ad esempio, ai gusti filosofici e letterari coevi, nei quali racchiudeva la filosofia neoplatonica ed ermetica coltivata a Firenze nella cerchia di Poliziano, Ficino e Pico della Mirandola. Nel 1489 a Firenze erano uscite tre opere fondamentali: Miscellanea di Poliziano, il De Triplice vita di Ficino e l’Heptaplus di Giovanni Pico della Mirandola. Machiavelli, all’epoca ventitreenne, molto probabilmente rimase completamente estraneo a quelle opere. Ma con tutte e tre le opere fece i conti anni dopo, con un testo minore, l’Asino. Per Machiavelli l’uomo era una bestia e rimaneva tale in quella dimensione. Questo assunto era in completa antitesi con l’uomo quasi deus di Pico. La stessa ricerca dell’interesse per la storia antica serviva per un interesse di carattere pratico, per capire il suo presente. La lezione delle “cose antique” non era un’analisi di carattere erudito o filologico. Machiavelli era un umanista sui generis, dal momento che utilizzava il testo classico per cercare di capire una contingenza attuale. Emblematico quando nel 1502, nella missione che fece presso Cesare Borgia, all’epoca l’uomo più potente d’Italia, Machiavelli scriveva al suo collaboratore Biagio Buonaccorsi dove gli chiedeva un testo di Plutarco. Il motivo non era quello di fare una lettura disinteressata durante il tempo libero, ma Plutarco gli serviva per capire l’uomo Cesare Borgia.
Ciliberto, come Gennaro Sasso, sostiene che per la formazione intellettuale di Machiavelli fu fondamentale lo studio di Lucrezio, avvenuto sin da giovane. Ne sarebbe innegabile conferma la stessa trascrizione del De Rerum Natura da parte di un giovane Machiavelli, non ancora trentenne, eseguita intorno al 1497. In quegli anni a Firenze si ebbe una riscoperta dell’opera di Lucrezio da parte di un ristretto circolo, il cui punto di riferimento era Pierfrancesco de’ Medici, detto il “popolano”. In questo circolo culturale, dove sicuramente si dibatteva anche di politica, faceva parte anche Marcello Virgilio Adriani, che divenne il Primo cancelliere della Repubblica Fiorentina sotto il gonfaloniere Pier Soderini, mentre Machiavelli assunse la guida della Seconda cancelleria.
La trascrizione di Lucrezio, secondo la tesi proposta da Ciliberto, non era da interpretare per un solo interesse di carattere erudito-filologico, ma le motivazioni erano etiche e politiche: «in breve lo fece per contribuire a diffondere una prospettiva filosofica e religiosa alternativa al cristianesimo» (p. 112). Religione che era necessaria per mantenere una civiltà, ma non il cristianesimo che rendeva deboli le persone, bensì quella pagana degli antichi romani. Quella stessa religione, come scriveva nel I libro dei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, che era stata il principio fondatore della storia di Roma, grazie a Numa Pompilio, l’iniziatore della religione tra i romani, in cui la religio era interpretata come un principio che serviva a fondamento della persuasione tra il popolo. Utilizzo della religione come mezzo di persuasione che Machiavelli ritrovò in Savonarola.
Quando il giovane Machiavelli, nelle giornate del 2 e 3 marzo del 1498, ascoltò le prediche di Savonarola, comprese che si trovava davanti un personaggio incredibile, anche se di fatto era un suo avversario politico. Nella relazione che fece a Girolamo Becchi, analizzava in modo analitico la predica del frate con un occhio distaccato. Per Machiavelli Savonarola era un personaggio scaltro, ma mise in evidenza che durante le sue prediche bluffava. Savonarola faceva della religione un uso prettamente politico, utilizzandola come instrumentum regni per riformare una società fiorentina secondo i precetti cristiani.
Religio che serviva per dissimulare nel teatro della vita. Ma proprio Machiavelli trovava il suo punto di equilibrio nel teatro, dove proprio nella recita e nella sceneggiatura metteva in evidenza la dissimulazione e la verità, due termini in antitesi, che però erano strettamente collegati. Proprio la dissimulazione era una virtù che l’ex segretario fiorentino sosteneva essere imprescindibile nella vita, soprattutto per salvarsi dal giogo della fortuna. Machiavelli utilizzava il teatro come una critica ai costumi attuali in cui grazie al linguaggio ironico, alla beffa ed alla burla, veniva squarciato il velo dell’ipocrisia della società coeva:
Tra vita e teatro in Machiavelli c’è un nesso diretto: e l’uno e l’altra rappresentano uno spettacolo crudele. Il mondo è teatro, ed è il teatro la lente attraverso cui Machiavelli guarda il mondo, per comprenderlo, ma anche per deformarlo e , a suo modo, per redimerlo (p. 175).
Ciliberto, da massimo studioso della vita e dell’opera di Giordano Bruno, nelle ultime pagine del suo lavoro non può non trovare un parallelismo tra il Nolano e il Segretario fiorentino. A differenza di meno di un secolo tra i due, la loro interpretazione sulla dimensione etico-politica era contrassegnata da profonde differenze: per Machiavelli il mondo e la vita stessa avevano la loro fine ineluttabile; per Bruno le crisi erano infinite e infinite erano anche le renovationes, le rinascite. L’unico punto in comune tra i due, forse l’unico, fu il giudizio sull’etica civile che avevano i romani e, conclude Ciliberto, Bruno non avrebbe potuto scrivere lo Spaccio della Bestia trionfante se non avesse letto i Discorsi di Machiavelli.