Giovanni Altadonna (1997) ha conseguito la laurea magistrale in Scienze filosofiche presso l’Università degli Studi di Catania con una tesi in Epistemologia avente per oggetto L’erronea misurazione dell’uomo. La critica all’antropologia razziale in Stephen Jay Gould. I suoi interessi di ricerca riguardano la filosofia della scienza e la storia della biologia, con particolare attenzione al neodarwinismo e alla storia della teoria dell’evoluzione. Coltiva per diletto lo studio delle scienze naturali, con particolare riferimento all’entomologia. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni sia nell’ambito delle scienze umanistiche che in quello delle scienze naturali.

Recensione a: Evoluzione e religioni. Un rapporto complesso, a cura di S. Forestiero, Carocci, Roma 2015, pp. 175, € 18,00.

I biologi ripetono spesso, e non a torto, che la teoria dell’evoluzione, pur essendo controintuitiva sotto molti aspetti, ha la particolarità di essere considerata facilmente comprensibile da un pubblico la cui nozione della teoria poggia però su pregiudizi e fraintendimenti tali da eclissare i concetti, gli argomenti e le implicazioni metafisiche su cui si fonda davvero il darwinismo. Allo stesso modo, è fin troppo diffusa nel senso comune una visione stereotipica della tensione fra evoluzionismo e religioni, come se essa possa ridursi al contrasto fra letteralismo biblico e scoperta del tempo profondo, o tra fissismo e trasformismo.

La lettura del volume collettaneo curato da Saverio Forestiero (Evoluzione e religioni. Un rapporto complesso) offre un utile strumento per fare chiarezza su questi punti. Il libro mira infatti a «rendere disponibile a un più vasto pubblico di lettori la trattazione di due diverse questioni: la comprensibilità della teoria dell’evoluzione e la valutazione della sua compatibilità con alcune grandi religioni: l’ebraismo, il cristianesimo cattolico, il cristianesimo valdese, l’islamismo, l’induismo» (pp. 8-9). Ciò che rende questo testo un riferimento valido anche per il lettore non specialista è l’attenzione riservata alla disambiguazione dei termini che costituiscono i poli della trattazione: “evoluzione” è un concetto non privo di difficoltà; mentre fra le “religioni”, nella loro pluralità e diversità diacronica e sincronica, non c’è consenso circa le risposte alle sfide teoretiche e culturali poste dal darwinismo. È alla luce di queste premesse che il volume intende affrontare il quesito: «esiste un’intrinseca incompatibilità tra la teoria dell’evoluzione e le religioni?» (p. 9). Il lettore comprenderà, nell’arco dei sei capitoli di cui la miscellanea è composta, la pertinenza del sottotitolo: “complessità” è la chiave di lettura adeguata per un fenomeno rilevante nella storia della cultura dalla metà del XIX secolo a oggi, qual è il rapporto fra religioni e teoria dell’evoluzione.

Nel primo capitolo, Capire l’evoluzione, Saverio Forestiero conduce una sintetica e accurata operazione di debunking (a livello lessicale, teoretico, semantico ed epistemologico) dei principali malintesi riguardanti l’evoluzione, intesa come fenomeno e come teoria. Egli dapprima spiega l’ambiguità di fondo dell’etimo evolutio, originariamente indicante lo sviluppo progressivo, finalizzato e predeterminato dell’individuo (ontogenesi) e solo successivamente adottato in riferimento a un processo contingente, sovra-individuale e impredicibile (filogenesi). Dopodiché sottolinea l’importanza della variazione genetica quale “materia prima” dell’evoluzione e precisa il ruolo ricopertovi dalla casualità e dalla necessità, ribadendo il carattere evenemenziale o storico della filogenesi. La contingenza storica è infatti una nozione cruciale al fine di comprendere il processo evolutivo; eppure essa è probabilmente la più difficile da accettare (come si avrà modo di riscontrare anche in seguito). D’altra parte, sembra arduo emendare assunti erronei quali la credenza che l’evoluzione sia una dinamica che interessa gli individui (piuttosto che le popolazioni), l’equivalenza fra evoluzione e progresso, l’identificazione nella selezione naturale di un meccanismo legato a un progetto. L’autore sostiene che l’ultima di tali misconcezioni sia legata al fatto che la selezione naturale è invero un concetto contro-intuitivo, che richiede una costante attenzione volta a separarlo da implicazioni teleologiche (in particolare quelle insite nel termine “adattamento”; sorto, com’è noto, in un contesto pre-darwiniano). Infine, Forestiero identifica con perspicuo rigore teoretico quattro «punti critici» (p. 35) attorno a cui si sono sviluppate le teorie evoluzioniste: l’idea che il cambiamento dei viventi è reale e sostanziale; l’emancipazione dall’approccio tipologico; la scoperta del tempo profondo; la spiegazione razionale della teleonomia dei viventi. Essi costituiscono altrettanti catalizzatori della tensione metafisica fra evoluzionismo darwiniano e religioni.

Il secondo capitolo illustra la storia dei rapporti fra la teoria di Darwin e la religione ebraica. In Ebraismo e teoria dell’evoluzione, Gianfranco Di Segni dedica ampio spazio alla ricezione dell’evoluzionismo da parte dei rabbini italiani dell’Ottocento, evidenziando come già all’indomani della pubblicazione dell’Origine delle specie le reazioni a Darwin nel mondo ebraico fossero alquanto varie, ammettendo talora anche «la possibilità della convivenza di entrambi i punti di vista, quello religioso e quello scientifico, ma in sfere separate, la posizione che un secolo dopo verrà chiamata da Stephen J. Gould, il grande evoluzionista scomparso di recente, con il termine “i due magisteri non sovrapposti”» (p. 44). L’autore riscontra come tendenze ad armonizzare la tradizione ebraica e la teoria dell’evoluzione fossero presenti anche fra i rabbini di ambito mitteleuropeo nel XIX secolo; nonché, ancora all’inizio del Novecento, in Rav Abraham I. Kook e in Rav Isaac Halevi Herzog. Rav Di Segni registra successivamente un’inclinazione reazionaria dell’ebraismo ortodosso alla teoria dell’evoluzione, verificatasi a partire dalla metà del XX secolo; ma precisa che attualmente «la posizione dei biologi ebrei, credenti e osservanti (fra i quali includo me stesso), è fondamentalmente diversa […]. I biologi sono […] in genere molto più pronti ad accettare la ragionevolezza della teoria dell’evoluzione» (p. 53).

Al di là di questa ricostruzione storiografica, ciò che è degno di nota nel saggio in esame è la meticolosa disamina delle ragioni che sottendono il rifiuto della teoria dell’evoluzione darwiniana:

Non si tratta soltanto del fatto che la scienza ci dà una descrizione diversa dall’interpretazione letterale del testo biblico. Se fosse solo questo il problema, allora, così come i (pochi) riferimenti biblici che parlano di una mobilità del Sole o della fissità della Terra sono stati interpretati in modo non letterale, ugualmente si potrebbe fare per i primi capitoli della Genesi che parlano della creazione del mondo. […] Ma spiegare in modo non letterale il testo biblico non sarebbe sufficiente. Alla base della teoria dell’evoluzione c’è infatti la nozione di caso e contingenza: l’evoluzione segue vie imprevedibili. Per utilizzare la famosa immagine di Stephen J. Gould, se riavvolgessimo indietro il film della storia della vita sulla Terra e lo facessimo ripartire in avanti, non otterremmo di nuovo lo stesso film. E noi umani molto probabilmente, dice Gould, in questo film non ci saremmo (pp. 55-56).

Di Segni identifica correttamente la principale criticità posta dal darwinismo (e dal neodarwinismo) nei confronti della teologia giudaico-cristiana (e invero di qualsiasi Weltanschauung teleologica e antropocentrica): la non predicibilità legata alla contingenza storica. «Se siamo frutto del mero caso e della contingenza, che senso ha parlare di Creatore? È questa in effetti una formidabile difficoltà» (p. 57). Di fronte ad essa l’autore propone due possibili soluzioni teologiche: sostenere che il caso che interviene nell’evoluzione biologica è solo apparente; oppure affermare che il caso, pur essendo reale, non contraddice la concezione religiosa. In conclusione, Di Segni scrive: «Molti dei problemi che sorgono nel tentativo di conciliare la teoria dell’evoluzione con l’ebraismo hanno origine dall’enfasi posta nel concetto di Dio come Creatore del mondo. [Ma] il Dio che si rivela a Israele è il Dio della storia, non quello della natura» (p. 63). Ritornare al nucleo della teologia ebraica, ovvero alla relazione tra Dio e l’umanità, piuttosto che soffermarsi sull’origine dell’uomo, è la ragionevole proposta di Rav Di Segni per conciliare ebraismo e teoria di Darwin.

Il capitolo terzo, Modelli teologici della teologia cattolica che hanno resistito alle teorie evoluzioniste, è a firma di Carlo Molari. Egli sostiene che le diverse reazioni in ambito cattolico alle «teorie evoluzioniste moderne» (p. 69), con ciò intendendo principalmente il darwinismo ma non solo, dipendano da tre modelli teologici tradizionali: la visione statica della realtà, il letteralismo biblico, il modo in cui si concepiva l’azione di Dio nella creazione e nella storia. Scrive l’autore: «Il cambiamento avvenuto in questi ambiti ha consentito l’accoglienza delle teorie evoluzioniste. La teologia cristiana ha ricevuto benefici notevoli da questo passaggio culturale e ha raggiunto acquisizioni che rimarranno anche se le teorie evolutive saranno superate» (ibidem). Molari descrive dettagliatamente le complesse dinamiche che hanno condotto, dopo numerose reazioni di condanna e di censura, ad una generale accettazione dell’evoluzionismo da parte del magistero della Chiesa. È opportuno ribadire che l’analisi dell’autore pertiene all’evoluzionismo in senso lato, e non strettamente alla teoria dell’evoluzione darwiniana. Ciò emerge con particolare evidenza quando Molari, affrontando le implicazioni dell’evoluzione per la teodicea, riassume la risposta di Teilhard de Chardin al problema del male: «L’imperfezione […] appare come una necessità dello sviluppo e il male si presenta come lo scotto pagato dalle cose per giungere alla loro perfezione» (p. 86). Non solo questa tesi è sideralmente distante, a livello metafisico ed epistemologico, dall’evoluzione darwiniana; l’adesione all’ortogenesi finalistica di Teilhard comporta un ripensamento profondo della stessa teologia cattolica tradizionale: «Spontanea sorge a questo punto la domanda: poteva Dio creare il mondo senza male? La risposta, in prospettiva evolutiva, è no, perché Dio non è onnipotente nella creazione e nella storia!» (p. 87). Ciò conferma che una teoria evoluzionistica compatibile (non senza compromessi concettuali importanti) con la teologia cattolica non può che essere soltanto un evoluzionismo teista come quello di Teilhard de Chardin, che poco ha a che fare con la teoria di Darwin in quanto ne espunge tutti quei nuclei metafisici inaccettabili per una religione rivelata (caso, contingenza, materialismo naturalistico) mantenendo invece una filosofia della storia progressiva e teleologica.

Nel quarto capitolo, Il Creatore, il caso e la necessità. La teologia di fronte a Darwin nel XXI secolo, Fulvio Ferrario offre una puntuale analisi delle risposte adottate dalle Chiese cristiane ai problemi teologici posti dal darwinismo, contestualizzandole nel più generale rapporto fra fede e scienza: una relazione complessa, nella quale, oltre a contrasti ideologici, emergono questioni rilevanti che la teologia non può ignorare. L’autore evidenzia come parte del dibattito sia inquinato da un lato dalla debolezza delle argomentazioni dell’ateismo scientifico di estrazione neodarwiniana (che ha in Richard Dawkins uno dei suoi esponenti più rappresentativi), dall’altro dalle pretese dei fondamentalisti religiosi di sostituire l’evoluzionismo darwiniano con forme di pseudoscienza quali il “creazionismo scientifico” e l’Intelligent Design. Contro le posizioni scientiste di taluni neodarwiniani, Ferrario puntualizza che essi hanno una nozione di fede diversa da quella della teologia e che quest’ultima possiede strumenti e metodi razionali, la cui fecondità emerge dal modo esauriente con cui il teologo valdese isola «il cuore della sfida dell’evoluzionismo alla fede cristiana in Dio creatore» (p. 92): ovvero che, mentre «la fede […] afferma che non solo all’inizio cronologico, ma all’origine ontologica dell’universo e della vita […], vi è la volontà benevola del Padre di Gesù Cristo», i dati e le teorie della biologia moderna indicano che «non è dato vedere alcun progetto» (p. 96). Ferrario, pur ritenendo del massimo interesse la teoria gouldiana dei Nonoverlapping Magisteria, sostiene (a giudizio di chi scrive, correttamente) che: «Per una posizione agnostica come quella di Gould la sana distinzione dei piani può anche essere sufficiente: non ritengo però che lo sia per la fede cristiana» (p. 95), in quanto quest’ultima «formula affermazioni che riguardano anche il rapporto tra Dio e questo mondo, lo stesso mondo di cui parla la scienza» (ibidem). Dopodiché l’autore osserva che le questioni metafisiche su cui divergono le posizioni della teologia e del darwinismo (l’antropocentrismo ontologico e il problema del male) «non sono strutturalmente nuove», e tuttavia «costituiscono una drammatica radicalizzazione di interrogativi che attraversano l’intera storia del pensiero cristiano» (p. 97).

A proposito della teodicea, Ferrario riconosce acutamente l’insufficienza della soluzione teilhardiana, la cui teleologia aggira, piuttosto che affrontare, la sfida posta dal darwinismo; il quale «presenta una realtà attraversata da una quantità di sofferenza insensata, da rendere, per dirla prudentemente, non evidente la possibilità di qualunque interpretazione che rinvii alla volontà del Dio cristiano» (p. 103). L’autore, ricordando lo spazio dedicato a questo problema in Giobbe e Qohelet, sottolinea che anche «in questo caso […] la visione darwiniana del mondo amplifica e radicalizza un punto di vista solidamente presente nella storia spirituale del genere umano e gli fornisce un significativo riferimento scientifico» (pp. 104). Ferrario conclude affermando che il lavoro della teologia rispetto alla domanda della teodicea «non può consistere nella pretesa di eliminare quest’ultima, bensì: a) nella sua trattazione critica; b) nella sua integrazione nella narrazione dell’esistenza credente di fronte a Dio» (p. 107).

Il capitolo quinto, Scienza sacra e teoria dell’evoluzione, riassume la posizione del mondo islamico sulla teoria di Darwin. Yahya Pallavicini chiarisce in via preliminare il peculiare significato che per i musulmani assumono le nozioni di creazione, uomo, scienza. L’autore rimarca che per la religione islamica l’intelletto «non è […] orientato soltanto alla conoscenza cosmologica relativa alla creazione, ma soprattutto alla conoscenza sacra per eccellenza, la conoscenza di Dio stesso che attraverso la creazione dei mondi vuole essere conosciuto» (p. 113). Ne deriva un’incompatibilità di fondo dell’Islam con le implicazioni del darwinismo che contrastano lo statuto ontologico privilegiato dell’uomo e una visione teleologica del mondo: l’autore individua coerentemente «il ruolo del caso e della contingenza» (p. 115) fra i principali motivi di rifiuto della teoria darwiniana in ottica musulmana. L’interpretazione teologica della realtà comporta una dicotomia (donde il titolo del saggio) fra scienza sacra e teoria dell’evoluzione; fra “scienza veridica” e “scienza illusoria”:

È importante capire che la natura delle cose per un musulmano non si discosta dalla relazione attiva che queste hanno per la sua vita sacrale. Una conoscenza o una scienza scollegata da questa dimensione sarebbe per un credente inutile, poiché verrebbe meno la dimensione simbolica della realtà per la quale le cose non sono solo ciò che appaiono o ciò cui possono essere utili pragmaticamente, bensì ciò che Dio rivela di Se stesso in loro, per chi sappia cogliere la Sua presenza (p. 116).

Pallavicini, pur ammettendo che l’idea di evoluzione «non ha un’immediata corrispondenza con le nozioni tradizionali dell’islam» (p. 119) e distinguendo opportunamente fra darwinismo, evoluzionismo ed evoluzionismo teista, segnala la mancanza di un giudizio uniforme dei musulmani sull’evoluzione.

Il sesto e ultimo capitolo ha per oggetto il rapporto fra teoria dell’evoluzione e dottrine indù. In Nascita, natura, specie e casta: i diversi significati del termine sanscrito jāti, Gian Giuseppe Filippi mette in rilievo la distanza dell’induismo dalle religioni abramitiche, tale da richiedere una precisazione della stessa nozione di “religione”: per gli indù, un’esperienza in cui la verità è assunta non per rivelazione ma per conoscenza ed esperienza. «Ciò fa sì che le scoperte scientifiche […] non abbiano mai posto in crisi le dottrine indù» (p. 130). Se da un lato la cosmogonia dell’induismo, per cui «la manifestazione del mondo è frutto della meditazione della divinità suprema» (p. 131), è incompatibile col concetto di creazione; dall’altro il termine jāti, «vero pilastro del pensiero indù» (p. 133), che indica «la condizione in cui si nasce» (p. 130) e ha valenza sia sociale che ontologica, si inscrive in una visione gerarchica degli enti assimilabile alla dottrina della “Grande Catena dell’Essere”, che è quanto di più lontano si possa concepire dalla teoria dell’evoluzione. Questi, infatti, pur avendo un’origine comune, occupano ognuno un posto nella «scala degli esseri» (pp. 135 e 137) «in conformità con l’importanza gerarchica della specie di appartenenza» (p. 137). In definitiva,

l’induismo si conferma contrario alla teoria della transizione degli esseri da una specie all’altra, pur riconoscendo una continua comparsa e scomparsa di intere specie nel lungo corso di ciò che definisce kalpa, e che, nel suo complesso, corrisponde al periodo di vita della nostra Terra. La teoria dell’evoluzione della specie infatti metterebbe in discussione la struttura castale, vero asse portante dell’induismo. La spiegazione che propone è piuttosto paragonabile alla teoria catastrofista, in qualche modo simile a quella proposta da Cuvier (p. 151).

La lettura della miscellanea curata da Forestiero fornisce pertanto, grazie anche al ricco apparato di note che accompagna ogni contributo, numerosi spunti di approfondimento della tematica in oggetto; costituendo più in generale un invito «a comprendere il discorso scientifico e quello religioso» abbandonando facili stereotipi, e ad ottenere «effetti doppiamente virtuosi con l’innalzamento qualitativo del dibattito culturale e la produzione di un clima di tolleranza in cui discutere e vivere i differenti punti di vista e le differenti esperienze» (p. 9).

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