Giovanni Altadonna (1997) ha conseguito la laurea magistrale in Scienze filosofiche presso l’Università degli Studi di Catania con una tesi in Epistemologia avente per oggetto L’erronea misurazione dell’uomo. La critica all’antropologia razziale in Stephen Jay Gould. I suoi interessi di ricerca riguardano la filosofia della scienza e la storia della biologia, con particolare attenzione al neodarwinismo e alla storia della teoria dell’evoluzione. Coltiva per diletto lo studio delle scienze naturali, con particolare riferimento all’entomologia. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni sia nell’ambito delle scienze umanistiche che in quello delle scienze naturali.

Recensione a: E. Palma, L’anima / ψυχή. Vol. 12 in Greco. Lingua, storia e cultura di una grande civiltà, a cura di M. Centanni e P.B. Cipolla, RCS, Milano 2022, pp. 158, € 7,90.

È ferma convinzione di chi scrive che la preziosa e mai abbastanza lodata arte della divulgazione, lungi dall’essere un’attività di secondo piano rispetto alla condivisione delle conoscenze fra specialisti, sia piuttosto uno strumento di primaria importanza; fondamentale in ordine a quella che i burocrati chiamano la “Terza Missione” dell’Università – il dialogo fra mondo accademico e società civile. Inoltre, credo che la qualità di opere destinate al grande pubblico risenta positivamente delle competenze specialistiche dell’autore (ancorché filtrate attraverso un registro linguistico accessibile anche al “non addetto ai lavori”).

Se dovessi dare una valutazione della collana Greco. Lingua, storia e cultura di una grande civiltà, pubblicazione collaterale al “Corriere della Sera” con cadenza settimanale a partire dal 22 settembre 2022, basandomi unicamente sulla lettura del volume 12 a cura di Enrico Palma, direi che l’obiettivo di cui sopra è stato indubbiamente raggiunto in maniera eccellente. Non è, peraltro, qualcosa di scontato: la scommessa di questa iniziativa editoriale è quella di avvicinare il lettore alla civiltà greca antica (in una temperie culturale in cui sempre meno spazio è riservato allo studio e alla riflessione sui classici, antichi o moderni) in tutti i suoi aspetti: dalla storia alla filosofia, dalla grammatica al lessico, dalla letteratura alla linguistica. Il piano dell’opera, coordinata dai grecisti di chiara fama Monica Centanni e Paolo Biagio Cipolla, propone un percorso in 24 “tappe”, ovvero in 24 volumi, uno per ogni lettera dell’alfabeto greco antico, ciascuno avente per oggetto una parola iniziante per quella lettera e a firma di uno specialista dell’argomento affrontato.

Ogni volume è suddiviso in quattro sezioni: una parte tematica dedicata alla parola chiave di volta in volta oggetto della trattazione (η per “eroe”; λ come “logos”, etc.), una parte antologica (La voce degli antichi), un glossario (Le parole della lingua) e infine una grammatica del greco antico (corredata da esercizi per la verifica di quanto appreso).

Il volume oggetto della nostra attenzione è dedicato alla lettera ψ (psi) e ha per tema la psyché; termine che è abitudine tradurre come “anima” ma che, come Palma spiega magistralmente nella sezione tematica del testo, cela una polisemia strabiliante all’interno dello stesso mondo greco (con cui indichiamo, ricordiamolo, una civiltà complessa ed eterogenea – sincronicamente e diacronicamente – che va dall’età arcaica all’ellenismo). La sfida di presentare al pubblico di non specialisti una materia complessivamente non semplice è particolarmente ardua, infatti, nel caso in esame: nondimeno l’Autore (filosofo con spiccata sensibilità ermeneutica) accompagna il lettore in un itinerario che spazia dai poemi omerici alle filosofie ellenistiche evidenziando puntualmente i tratti comuni e le specificità di ogni autore e di ogni periodo, riuscendo in appena 65 pagine a delineare un prospetto sintetico ma corretto del significato greco di psyché. Cosa intendono i greci con psyché? Il significato di tale termine è analogo in Omero e in Platone? Quali sono le credenze dei Greci sull’aldilà? Queste alcune delle questioni affrontate nel libro.

Il primo elemento che l’Autore si affretta giustamente a sottolineare al fine di fugare facili fraintendimenti è la necessità di abbandonare la “nostra” concezione moderna di “anima” (come un “doppio” immortale del corpo e da questo distinto) nell’approcciarsi ai Greci, in particolare ai Greci di età arcaica:

Il lessico omerico, da cui dipende la concettualizzazione di psyché, non contempla un termine che esprima una sostanza individuale, irriducibile e indipendente in cui risiede la capacità vitale, che non trapassa con il corpo e insieme lo trascende. […] Gli uomini di Omero sono qualcosa che con una formula della filosofia contemporanea potremmo definire “corpomente”. Il mondo linguistico omerico non percepiva alcun bisogno di dividere ciò che appariva unito (p. 17).

Il termine fra virgolette è la citazione di una nozione filosofica di Alberto Giovanni Biuso, come indicato dall’autore stesso nella Nota bibliografica posta alla fine del volume (pp. 157-158). Un altro luogo testuale in cui è chiaramente individuabile un riferimento all’opera filosofica di Biuso (con implicazioni heideggeriane e gnostiche) è il seguente: «Ma cos’è la verità? È l’apertura di ciò che si mostra e che emerge dal non nascosto, il taglio di luce in cui avviene la giusta e illuminata visione del mondo» (p. 54).

Tanto era coerente, nel pensiero delle origini, la nozione di una unità psicosomatica nel vivente mortale che, venendo meno il corpo, la stessa anima non poteva (più) possedere uno statuto ontologico tale da farla sussistere. Poteva, al limite, essere l’ombra del defunto; riconoscibile, ma senza una propria individualità:

C’è comunque da chiedersi se le presenze nell’aldilà possano ancora considerarsi individui in senso pieno, prive come sono di ogni facoltà mentale, coscienza, ricordo e cognizione: è probabile, infatti, che per la civiltà omerica i defunti non fossero ritenuti più individui. Si riteneva che le attività psichiche e cognitive fossero collocate negli organi interni, estranee dunque a componenti eminentemente spirituali. Con la morte, questa complessità psicosomatica decade e con essa l’essenza individuale del defunto. Eppure lo sforzo immaginativo greco intese la psyché, benché assolutamente incorporea e depotenziata, come un’essenza somigliante all’individuo tale da renderlo ancora riconoscibile: un modo di affermare che qualcosa resiste e che soprattutto niente di noi viene completamente distrutto con la morte (pp. 19-20).

Alla luce di ciò, appare chiaro quanto un discorso sulla psyché nel mondo greco debba necessariamente fare riferimento alle pratiche funerarie: il rito di sepoltura si imponeva infatti quale «unico e solo gesto che garantisse al defunto il commiato dal mondo e la libera transizione verso l’aldilà» (pp. 20-21). L’Autore cita in proposito l’apparizione onirica del fantasma di Patroclo ad Achille nell’Iliade, o di Elpenore a Odisseo nell’Odissea, entrambi imploranti una degna sepoltura che li tolga dalla loro misera condizione di medietà fra il mondo dei vivi e l’Ade.

Lasciare insepolti i defunti rappresentava pertanto, per i Greci, uno dei sacrilegi maggiori. A conferma di ciò, basti pensare alla reazione furibonda e indignata del popolo di Atene alla notizia che i comandanti della flotta ateniese alle Isole Arginuse (fase deceleica della Guerra del Peloponneso, 406 a.C.), pur avendo sconfitto gli Spartani, per sfuggire a una tempesta avevano abbandonato i naufraghi; ai quali rimaneva così preclusa per sempre la possibilità di un rito funebre (e pertanto di approdare al mondo dei morti). Com’è noto, per questo episodio, sei degli otto strateghi vennero condannati a morte.

Palma, trattando della cura e venerazione dei morti, si sofferma opportunamente sulla condizione delle anime dell’aldilà: felici e anche in grado di influire sul mondo dei vivi; beate, però, non in virtù di qualche ricompensa trascendente, ma in quanto non più soggette alla finitudine: «È beato chi non è più tormentato da continui bisogni e soprattutto dal dolore che intride l’esistenza. Infatti, coloro che si trovano nell’Ade, avendo dimenticato cosa sia la vita, non sanno più cosa siano preoccupazione e sofferenza» (p. 24). Circa la facoltà dei defunti di influire sul mondo dei vivi, peraltro, non c’è omogeneità nel mondo greco: in Omero, ad esempio, tale possibilità è negata. Assume invece particolare rilevanza il codice etico dell’onore (timé) e della gloria imperitura da conquistare nella pubblica stima, secondo la ben nota formula della “civiltà della vergogna”:

Nella civiltà omerica, in ogni caso, rimane più importante il culto tributato dopo la morte a chi si era particolarmente distinto per virtù, coraggio e imprese, soprattutto belliche, piuttosto che la speranza di una vita dopo la morte in una realtà imprecisata e dai contorni sfocati. La sicurezza della fama, sopravvivendo nella prospettiva delle generazioni a venire, era più confortante, degna e luminosa rispetto a un Ade in cui il barlume di vita che ci lascia con la morte accoglie una parte flebile e depotenziata di ciò che siamo stati (p. 25).

Se una punizione c’è nella vita dell’uomo greco, essa è espiata durante la vita terrena: tale assunto risulta particolarmente vero nel caso delle tragedie di Eschilo (cfr. pp. 44-45). Né pene né salvezza sono, invece, individuate dai Greci nell’orizzonte ultraterreno: «I Greci non credevano che dopo la morte ci fosse una vita eterna e che fosse possibile ottenere una salvezza individuale. […] L’oltretomba greco è, anche in senso non metaforico, un luogo periferico rispetto alla realtà quotidiana: quando ci si accosta alla religione del popolo ellenico, si scopre un immaginario dell’aldilà senza inferno e anche senza paradiso» (pp. 30-31). Come ricorda l’Autore, i supplizi o le beatitudini eventualmente assegnati dagli dèi ai mortali riguardano solo casi eccezionali di hybris (si ricordi, solo per citarne uno, il mito di Sisifo) o di grandezza morale; ma ciò non assimila in alcun modo l’aldilà greco al sistema delle ricompense oltremondane della tradizione cristiana.

La geografia dell’Ade è caratterizzata, demarcata e delineata da masse d’acqua: i fiumi Stige, Acheronte e Lete, la palude del Cocito. L’acqua è anche l’elemento dei morti, «labile, proteiforme e sfuggente allo stesso modo delle anime che hanno perso la loro ossatura e di conseguenza ogni consistenza e solidità» (p. 33); nozione, questa, attestata anche in Eraclito: «Alle anime è morte difatti diventare acqua» [detto 82 Mouraviev (= Frammento 36 DK), in Eraclito: la luce dell’oscuro, a cura di G. Fornari, Olschki, Firenze 2017, p. 29]. Eppure, come lo stesso filosofo efesino sostiene, «per le anime piacere e non morte è diventare umide» [detto 83 Mouraviev (= Frammento 77 DK), ibidem], in quanto la morte equivale alla cessazione di ogni sofferenza; ed è solo in tal senso che le anime dell’Ade sono beate (cfr. p. 24). Ciò permette di ricollegarci direttamente al tema del tragico, che non si riduce, nel pensiero dei Greci, ad un genere drammaturgico, ma consiste innanzitutto in una perspicace comprensione filosofica dell’essere-nel-mondo; della sua finitudine, della sua precarietà: «Comprendere il tragico significa cogliere l’essenza della condizione umana in balìa di forze invincibili che distruggono l’esistenza, tanto da rimpiangere il giorno della nascita e aspirare al più presto alla morte» (p. 45).

Dopo aver trattato della concezione della psyché nei filosofi delle origini e in Socrate, Palma offre una summa del significato di psyché in Platone; rimarcando che: «Evocare il nome di Platone significa affermare la grandezza del pensiero e la fiducia nella razionalità, intraprendere un cammino luminoso e numinoso di trasformazione di se stessi in luce e in divinità» (p. 55). Dopodiché sottolinea opportunamente che il De anima di Aristotele vada considerato un trattato di fisiologia, «uno studio della funzione vitale del corpo organico e animato» (p. 59), piuttosto che un’opera di psicologia, guardandosi bene da un’attualizzazione che impropriamente rintracci la dicotomia moderna corpo/anima nello Stagirita.

Al di là dei contenuti del testo, che lo scrivente ha imperfettamente cercato di sintetizzare non per fornire un riassunto esaustivo del libro bensì al solo scopo di sollecitare la curiosità del lettore, lo spirito che anima (è il caso di dirlo) la penna dell’Autore si manifesta splendidamente nelle righe di seguito citate; estrapolate da una vibrante conclusione, che molto risente dell’eco foucaltiana e che ben vale a riassumere, a mio giudizio, anche il senso dell’intera collana cui il volume di Palma fa capo:

La civiltà greca è sopravvissuta sottotraccia nei secoli in modi diversi, mantenendo sempre vivi il suo battito e la tenacia dei suoi cultori, i quali non vedono in essa le spoglie, pur gloriose, di un tempo finito, ma un archetipo di vita intramontabile, nell’orizzonte del quale ancora ci muoviamo, agiamo, pensiamo e in grazia di cui attribuiamo un senso al nostro esistere al mondo. È la grecità che ha mantenuto la sua forza anche se subissata dal cristianesimo, il quale a sua volta ne ha implementato e ne conserva schemi e mitologemi. Dobbiamo sempre essere consapevoli che la nostra civiltà occidentale ha due anime non in conflitto, benché in un’armonia difficile ma non impossibile da ottenere. I riflessi di Atene e Gerusalemme scandiscono la nostra vita, un dialogo di cui fare sempre memoria ed esercizio e di cui appropriarsi consapevolmente. La grecità parla ancora nelle nostre parole, determina il nostro stare insieme che chiamiamo etica, estetica e politica, ci spiega i sentimenti e le forze che devastano, offendono e magnificano la vita chiamandole con i nomi degli dèi. Comprendere l’eredità spirituale dei Greci significa capire alla radice la cura che i grandi pensatori suggerivano per la parte di noi che può connettersi con ciò che non muta, in un metabolismo conoscitivo che trasforma l’azione in parola e la parola in concetto superiore (pp. 63-64).

Comprendere i Greci, accostarsi alla loro voce, mettere in pratica il loro pensiero, significa cioè praticare la cura del sé, l’epimeleia heautou. Sotto questo profilo è possibile affermare che psyché sia, dunque, la parola più “greca” di tutte. Leggere il libro di Enrico Palma ne è una testimonianza ulteriore.

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