Alberto Giovanni Biuso è Professore ordinario di Filosofia teoretica nel «Dipartimento di Scienze Umanistiche» dell’Università di Catania, dove insegna anche Epistemologia e Filosofia delle menti artificiali. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Chronos. Scritti di storia della filosofia (Mimesis Editore, 2023). Il suo sito web è www.biuso.eu

Recensione a: M. Heidegger, L’inno Der Ister di Hölderlin (Hölderlins Hymne Der Ister, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1984), trad. it. di C. Sandrin e U. Ugazio, Mursia, Milano 2003, pp. 158, € 19,00.

Perché un metafisico e teoreta radicale come Heidegger ha dedicato così lunga e costante attenzione alla poesia e ai poeti? Una delle ragioni fondanti è che la poesia non è per Heidegger qualcosa che ha a che fare con il gusto, con la soggettività emotiva, con la critica letteraria ma è uno dei modi nei quali il mondo esprime se stesso al di là della consapevolezza che delle menti autocoscienti ne possano avere: «Tutte le analisi ‘psicologiche’ dell’attività poetica, tutte le notizie storiografiche relative alla molteplicità dei tipi di poeta, ogni discorso che determini la poesia e i poeti dall’esterno, ogni godimento ‘estetico’ della poesia sono per sempre banditi dal solo ambito in cui la risposta può accadere» (§ 24, p. 132). Questo ambito non è l’estetica, tantomeno è l’etica che con la filosofia c’entra ben poco, questo ambito è l’ontologia. Non quindi il ‘vero’, il ‘bene’, il ‘bello’, concetti del tutto moderni che con i Greci e quindi con la filosofia non c’entrano nulla ma gli enti come ciò che sorge da sé e l’essere come φύσις, vale a dire come sorgenza. Questo è l’ambito della poesia, della grande poesia, la cui ‘grandezza’ consiste nel cogliere e nel dire, nel tentare di dire, l’essere.

Il corso del semestre estivo del 1942 tenuto da Heidegger ha come argomento questa potenza del dire in Hölderlin e in Sofocle. Un corso di un’ora soltanto alla settimana ma del quale, secondo il curatore Walter Biemel che vi partecipò, è difficile restituire «l’esperienza dell’effetto prodotto da ogni singola ora di lezione, della sua compiutezza, dell’intreccio dei pensieri conduttori, del movimento interno dell’andamento del pensiero» (p. 151).

Di Hölderlin Heidegger analizza qui soprattutto l’inno dedicato al Danubio, Der Ister; di Sofocle legge il primo coro dell’Antigone. Dalle letture/traduzioni/interpretazioni di Heidegger emerge un quadro unitario e completo del significato di questa poesia.

«Il fiume è la località della transitorietà, il fiume è la transitorietà della località» (§ 7, p. 35), località e transitorietà allo stesso modo, di pari declinazione, profondamente congiunte nella modalità del dileguare di ciò che è stato e del presagire ciò che sta per accadere, dando vita, in questa loro differente e complessa unitarietà, al passaggio, al passare, al diventare, al tempo. I fiumi sono infatti costituiti, si dice sin dall’inizio, nel § 2, «da un nascosto rapporto unitario con ciò-che-è-stato e con ciò-che-viene, ossia con ciò-che-è-temporale. […] Lo scorrere dei fiumi non si svolge semplicemente ‘nel tempo’ come se il tempo fosse solo una cornice del trascorrere, rispetto ai fiumi indifferente ed esterna. I fiumi sono presagio e sparizione fin dentro il tempo, cosicché sono essi stessi il tratto temporale e il tempo» (p. 15).

L’identità tra essere e tempo, del quale la località e transitorietà dei fiumi è testimonianza, è tale da poter essere analizzata in una vertiginosa pagina che costituisce il § 8 del libro. In essa si afferma che bisogna «rinunciare a pensare spazio e tempo come oggetti ‘tra altri’ oggetti. Spazio e tempo non sono ‘oggetti’» ma non sono neppure – modernamente e kantianamente – forme della rappresentazione. La questione emerge con chiarezza da alcuni interrogativi tanto essenziali quanto evidenti:

È lo spazio, intorno al quale si accendono conflitti tra i popoli, solo un’immaginazione soggettiva dell’uomo, nulla che sia presente ‘in sé’ ‘in qualche luogo’? E il tempo straripante e la lacerazione che produce sono solo una rappresentazione soggettiva? Ci rifiutiamo di considerare spazio e tempo come costruzioni puramente soggettive. […] Se dunque spazio e tempo non possono essere né qualcosa di soggettivo né qualcosa di oggettivo, allora che cosa sono, posto che siano qualcosa? In ogni caso, sono tali da non potere rientrare nello schema che pone l’alternativa tra ‘soggettivo’ e ‘oggettivo’. Ed anche l’unità di spazio e tempo non si stabilisce con il fatto che lo spazio ed il tempo, nel rappresentare abituale del soggetto pensante, siano pensati insieme (p. 44).

Il superamento del dispositivo moderno di soggetto/oggetto è uno dei nuclei più fecondi del pensiero dell’essere, mediante il quale viene fermata la preminenza della funzione rispetto alla sostanza; viene mostrata la natura del digitale come pensiero volto alla conquista tecnologica dello spazio e del tempo con il «raggrumare, in vista dell’avanzante pianificazione, le stagioni e gli anni della vita umana in piccoli valori numerici» (§ 7, p. 38); viene indicata la struttura non fisicalistica o strumentale della tecnica ma la sua natura ‘spirituale’ la quale  «in quanto spirito, è una decisione sulla realtà di tutto il reale» (Ripetizione, p. 52).

Esattamente a questa forma dell’alienazione, della estraneità dell’umano a se stesso, si lega l’intera seconda parte del corso dedicata all’Antigone. Al centro dell’interpretazione heideggeriana di questa tragedia c’è una parola fondamentale: ἐστία, il focolare intorno al quale ruota la πόλις non come città o stato ma come «la sede del soggiornare umanamente storico dell’uomo nel mezzo dell’ente» (§ 14, p. 75). Φύσις ed ἐστία, la sorgenza e il focolare sono la casa della quale il coro dei tebani di Sofocle mostra la misura rispetto alla dismisura di ogni cieca potenza che ritiene di costituire il principio e lo scopo di tutto. Potenza che con molto acume Heidegger definisce «americanismo» e che consiste nel primato della quantità, nella mancanza di limiti, nel modo d’essere che proprio non conosce misura e che nel caso dello Stato anglosassone è tanto più pericoloso quanto più «si presenta come il difensore democratico dei cittadini, mescolato con il cristianesimo, e tutto questo in un’atmosfera pervasa dalla decisione dell’assenza di storia» (§ 13, p. 65). Mutano le forme della ὕβρις ma la loro devastazione rimane dunque costante.

Φύσις ed ἐστία sono invece il focolare dove abita la misura: «L’essere è il focolare. Per i Greci, infatti, l’essenza dell’essere è la φύσις, l’illuminare che sorge da sé, senza essere mediato da nient’altro, essendo esso stesso la medietà» (§ 19, 102); «Il focolare, la sede in cui chi è di casa è a casa, è l’essere stesso, nella cui luce e splendore, nel cui ardore e calore ogni volta si è già raccolto tutto l’ente» (§ 19, p. 104).

L’opposto del focolare è τὸ δεινόν, l’inquietante che nell’Antigone ci si augura non diventi mai intimo del focolare, il cui presunto sapere non si mescoli al sapere della misura. Di questo plesso di vita, di storia e di assoluto parlano Hölderlin e Sofocle poiché «quel che è da poetare, quel che sussiste nella poesia, non è mai ente, ma essere. […] Che cosa sussista come essere senza tuttavia essere qualcosa di essente e di reale, tanto da assumere l’aspetto del nulla, può solo essere detto nella poesia o pensato nel pensiero» (§ 20, p. 109).

È così che il pensare lambisce la sostanza delle cose e del divenire, sostanza che è il nulla, il quale può essere detto, indicato, mostrato. La poesia è questo indicare, è questo segno.

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