Enrico Palma (1995) è dottore di ricerca in Scienze dell’Interpretazione e collaboratore della cattedra di Filosofia teoretica del Disum di Catania. Ha pubblicato saggi, articoli e recensioni per numerose riviste nazionali e internazionali. Le sue aree di ricerca sono principalmente la metafisica, le intersezioni tra filosofia e letteratura in chiave ermeneutica e l’ontologia della scrittura letteraria. Nel 2022 ha partecipato alla collana Greco. Lingua, storia e cultura di una grande civiltà del "Corriere della Sera" con la cura del volume ψυχή. L’anima. Nel 2024 ha pubblicato De scriptura. Dolore e salvezza in Proust (Mimesis, Milano-Udine). Nel 2024 ha conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale alle funzioni di Professore di II fascia per il S.S.D. di Filosofia Teoretica (11/C1).

Recensione a: C. Scarlato, Il discorso filosofico intorno alla letteratura. Percorsi teoretici nel pensiero francese, Rosenberg & Sellier, Torino 2024, pp. 274, € 18,00.

Il discorso teoretico sulla letteratura, come recita il titolo di questo libro di Chiara Scarlato e come ben mostra l’argomentazione ivi tentata, non può prescindere dalla pluralità dei punti di vista e degli approcci riguardo non solo a un modo ma, forse più propriamente, a un sentire la filosofia come pratica di indagine più vicina alla carne viva dell’esistenza. In questo senso, pur nella delimitazione del campo necessaria a ogni ricerca, il presente volume intercetta una precisa occorrenza di questo discorso proponendo una linea filosofica e ricostruttiva di un filone teoretico sviluppatosi in Francia a partire dal Secondo dopoguerra, che nella diversità dei metodi e delle prospettive trova anche un’importante coerenza interna.

Tuttavia, nella varietà degli approcci e delle metodologie impiegate, in un ambito già ben delineato ma ancora magmatico, prima ancora di addentrarsi nella possibilità stessa della sussistenza di un simile campo d’indagine, bisogna prendere posizione. Un gesto che l’argomento sembra richiedere quasi per statuto: un problema, insomma, di collocazione, dopo il quale poter proseguire con cognizione e fecondità. È per questa ragione che sin dall’inizio l’autrice chiarisce il modo in cui nella sua ricerca verrà inteso il senso di tale relazione, del rapporto tanto affascinante quanto a volte fumoso e depistante tra filosofia e letteratura: «Quanto in questa sede si intende sostenere, piuttosto, è che la filosofia della letteratura assume il compito di indagare – tanto con gli strumenti metodologici della filosofia, quanto con i contenuti tematici della letteratura o, viceversa, tanto con i contenuti della filosofia, quanto con le strategie della letteratura –, all’interno di un unico campo, una questione che eccede entrambe. Ed è proprio in virtù del suo essere plurale, cioè irriducibile a un solo esempio o modello di riferimento, che il compito della filosofia della letteratura può essere espletato attraverso (a partire da e all’interno di) una ricerca teoretica capace di sostenere sempre nuove problematizzazioni» (pp. 7-8). Quella di Scarlato è dunque una scelta sia di metodo sia di approccio molto netta, ponendosi distante dall’intendere la co-implicazione di filosofia e letteratura in chiave critica o ermeneutica e tentando una possibile terza via, che non si appiattisca su una delle due o definisca una gerarchia, bensì sia in grado di sondare un nuovo spazio per la riflessione che possa farsi, una volta fondato e specificato, contenitore per riflessioni originali.

È dunque con questa postura teorica che l’autrice attraversa con limpidezza argomentativa e grande attenzione le riflessioni che si sono poste in seria relazione dal punto di vista filosofico non con la letteratura di per sé (perché fare ciò avrebbe significato ancora risolvere la questione dal côté interpretativo) ma con il problema della letteratura in sé, in altre parole cosa ha detto e proferito la filosofia, specialmente di area francese, a proposito del discorso letterario, facendo con ciò di se stessa, secondo l’ipotesi messa in campo, un discorso teoretico in piena regola.

Non è possibile in questa sede ripercorrere per intero l’itinerario interessante e puntualissimo compiuto con ottimi argomenti da Scarlato. Mi pongo il compito più modesto di restituirne l’andamento, sostando su alcuni luoghi che mi sono sembrati più rappresentativi e descrittivi. Scarlato, infatti, si sofferma piuttosto che sulla definizione della letteratura (impresa quanto mai ardua e sfuggente, che rimanda di per sé a un confronto con la parola del testo letterario, con la sua scrittura), da cui si è detto si resterà distanti, sulla «pratica discorsiva che essa suscita e mette in atto», talché «sarà sufficiente, invece, considerare che il testo dispiega la sua presenza a partire dalla sua essenziale e inscindibile natura filosofica e letteraria» (p. 16). A cui si aggiunge il fatto che l’analisi tentata è da intendere come «un’archeologia di un sapere collocato, per riecheggiare piuttosto Blanchot, in un campo di dispersione» (p. 17). Un sapere collocato, quello filosofico e letterario insieme, nella storicità del farsi teoretico secondo una declinazione plurale e variegata, nonché secondo la spigolatura che ne hanno fatto gli autori presi in esame.

Punto di inizio ideale non può che essere allora Blanchot, a partire dalla «relazione di vicinanza tra la parola grezza e il mondo delle cose e tra la parola essenziale e il pensiero, scandendo così una dinamica fatta di presenza e assenza – vale a dire di espressione e silenzio –, la cui comprensione è fondamentale anche per osservare il modo in cui si articola la relazione che intercorre tra l’esperienza di lettura del mondo (o attraversamento dello spazio) letterario e quella di esistenza del mondo reale» (p. 50). Dinamica che per Blanchot ha origine e al contempo esito nella poesia, che è parola che dice se stessa e il proprio essenziale, alleggerita, per così dire, da ogni aggancio di natura prescrittiva del logos comunicativo alla realtà nel senso di dirla, spiegarla, designarla, in una dimensione di libertà in cui a trionfare è il silenzio come parola che non comunica il mondo (e che quindi tace su di esso) ma che proferisce la propria essenza scoprendo letteralmente un altro mondo della significazione, il poetico, ciò che non dice il mondo ma lo fonda e lo istituisce.

La letteratura, dunque, «diventa con Blanchot occasione per esplorare non solo gli elementi che la costituiscono in quanto tale (l’autore, il lettore, i personaggi), ma anche le nozioni filosofiche di linguaggio e di scrittura, nonché di opera e libro» (p. 56). Estremizzando, il discorso filosofico di Blanchot tende a un’indagine sulla relazione tra la vita e l’esperienza, tra la possibilità della comunicazione e quella della comprensione, in un rapporto se vogliamo anche metafisico dal quale non è possibile escludere il lettore, che rompe il silenzio ideale in cui l’opera dimora e ingaggia continuamente una «lotta» (p. 57) con l’autore, nella quale si raggiunge – mai in modo definitivo ma sempre di volta in volta – il compimento dell’opera come istante della sua vera interpretazione.

Più in generale, «rimettendo l’assenza delle cose alla presenza delle parole, la letteratura consente di visualizzare – senza alcun paradosso – la potenza del linguaggio che, attraverso un sistema di segni, conserva il gesto grazie al quale è possibile riconoscere, indicare e nominare le cose presenti nel mondo» (p. 59), salvando, in qualche modo, la fondatezza e l’opportunità della significazione del mondo stesso in qualcosa che, come visto, eccede l’idealità della parola (come filosofia) e l’esperienza mondana (come letteratura), che era l’obiettivo che l’autrice intendeva mostrare. In tal senso, la filosofia, abbandonando la pretesa di essere sistema e di istituire dei sistemi, «si occupa dell’esistenza, e lo fa portando avanti un discorso che è sia filosofico, sia letterario» (p. 80), che sia in grado di collocare gli ideali dei problemi teoretici nell’esperienza della vita umana e nella mondanità del mondo.

A questo punto, il riferimento a Sartre diventa ineludibile, il quale diviene a tutti gli effetti il più chiaro e coerente controcanto alla proposta blanchottiana, ponendosi esattamente nel polo opposto all’idealità, ovvero quello della concretezza storico-politica. «La condizione che era stata registrata da Paulhan diventa, quindi, per Sartre, occasione per osservare il modo in cui la letteratura stessa si ricostituirebbe nell’orizzonte di un rinnovato impegno di scrittori e scrittrici nei confronti di una società che sia reale e non ideale, e in cui la loro azione sia performativa e, allo stesso tempo, politica» (p. 95). L’indicazione sartriana è limpida e circostanziata, rispetto alla quale, nondimeno, Scarlato non manca di far notare un punto di inevitabile debolezza nei riguardi di quell’eccedenza sotto la quale l’autrice pone l’intera sua analisi: «Tale considerazione, tuttavia, denota anche quelli che sono i limiti della proposta sartriana che risente di un eccessivo particolarismo e che, proprio per questa ragione, manca di tracciare una possibile nuova traiettoria della letteratura che possa valere in senso universale e a prescindere dalle condizioni storico-sociali in cui il testo, di volta in volta, viene prodotto e recepito» (pp. 95-96). Cercando di articolare la proposta di Scarlato in altri termini, l’accezione con cui Sartre intende il discorso letterario sarebbe per nulla metafisica, laddove per metafisica intenderemmo lo sforzo filosofico di individuare ed esprimere concettualmente le ragioni perenni del divenire storico, che Sartre, per ragioni naturalmente legittime e in certi casi condivisibili, sacrifica per la contingenza storico-politica, in cui la letteratura, secondo la sua celebre definizione, deve impegnarsi. «Muovendo anche da tale prospettiva, riteniamo che la proposta di Sartre non prenda totalmente in carico il senso di quella necessaria distanza critica grazie alla quale si ha la possibilità di riflettere sugli eventi e di comprenderli senza per forza dover fare riferimento a situazioni contingenti» (p. 96).

Tale prospettiva metafisica nel prosieguo del cammino indicato da Scarlato, viene invece configurata e incoraggiata da un raro e fecondo Merleau-Ponty, il quale propende pienamente per la possibilità di una letteratura metafisica, concependo addirittura una filosofia che non possa più pensarsi separata dalla letteratura, in un concetto di inscindibile integrazione in cui l’una non può fare a meno dell’altra. La filosofia, per Merleau-Ponty, non dovrà concentrarsi su una ricerca volta a indagare la natura o la possibilità del mondo, bensì affidarsi a una pratica di racconto per esplorare il mondo stesso e, con esso, l’esistenza dell’uomo al suo interno» (p. 104). La letteratura metafisica concepita da Merleau-Ponty va oltre, per così dire, ogni approccio valoriale prescrittivo e invalidante, un tipo di letteratura, cioè, fondato sul tu devi nel senso del «fornire indicazioni circa una postura da assumere nel mondo» (p. 105), alludendo a una funzione filosofico-letteraria per la quale «una pratica di scrittura in cui la testimonianza di un’esperienza è già in se stessa la proposizione di una filosofia e di una letteratura dell’umano», che «inquadra gli esseri umani entro il medesimo mondo di cui, tuttavia, nessuno può mai avere la medesima esperienza dell’altro» (ibidem). Prospettiva, quest’ultima, che invece verrà per lo meno attenuata da Beauvoir, secondo la quale l’irriducibilità soggettiva dell’esperienza dell’esistenza del mondo passa attraverso un «atto di comunicazione che consente di esperire il senso di essere “un altro io” senza smettere di essere il “proprio io”» (p. 145).

Il discorso filosofico trova un punto di snodo rilevantissimo e inaggirabile nella riflessione di Foucault, il quale indica alla letteratura una componente volta invece alla scissione, alla frattura anche traumatica di quella relazione soggetto-mondo instaurata da una certa pratica del dominio e dell’esclusione. Quella di Foucault sarebbe quindi, almeno in prima istanza, una «analisi diagnostica» (p. 157) che indaga il soggetto come epifenomeno di dinamiche di potere, come «sintomo del mondo» (ibidem). Infatti, chiarisce Scarlato, «intesa come pratica, ogni espressione artistica è occasione per osservare il vincolo tra soggettività e linguaggio e, allo stesso tempo, per operare una critica nei confronti delle codificazioni del sapere che hanno condotto all’affermazione di quelle che Foucault definirà pratiche di esclusione» (ibidem). A titolo di esempio, valga una delle riflessioni più pregnanti di Foucault, sull’esperienza clinica e più in particolare sulla follia, per la quale il rapporto tra le parole e le cose, tra il «riconoscere e il nominare», viene rimesso al soggetto che in tal maniera acquista la facoltà di «articolare e disarticolare il principio di significazione del mondo» (p. 168). L’esperienza soggettiva del mondo e la letteratura, in particolare, risultano imparentate nella funzione-corpo, in una triangolazione irresistibile che ha reso, e rende ancora, la proposta foucaultiana estremamente affascinante, segno chiarissimo della potenza di sfondamento che la letteratura possiede, quando ionizzata dalla carica filosofica, verso la distruzione degli steccati e l’esplorazione di nuovi campi, secondo una concezione del rapporto filosofia-letteratura «con lo scopo di affrontare questioni di cui l’una né l’altra potrebbero singolarmente farsi carico» (p. 186).

Al di là delle similarità e delle distanze tra le posizioni meditate dall’autrice, l’esplorazione di questo testo resta una lucida e circostanziata indagine dello studio possibile che può farsi del rapporto tra questi due sguardi sul mondo e sull’esistenza, i quali, se è vera l’affermazione del Derrida citato in conclusione, ovvero che la critica letteraria si è trasformata in vera e propria filosofia, non possono pensarsi all’infuori del loro «incommensurabile rapporto» (p. 228).

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