Niccolò Mochi–Poltri (1991): è impegnato da molti anni in attività di promozione culturale con le associazioni “Sur Les Murs” e Fondo Marco Mungai, delle quali è membro. Laureato in Scienze storiche, studioso appassionato di Filosofia, concentra i suoi interessi di ricerca sull’analisi della cultura politica dell’età moderna e contemporanea. Ha pubblicato Società. Divenire storico e conservazione (introduzione di F. Cardini, Roma–Cesena 2018).
Recensione a
D. Breschi, Meglio di niente. Le fondamenta della civiltà europea
Mauro Pagliai Editore, Firenze 2017, pp. 192, € 12,00.
Una delle acquisizioni fondamentali della speculazione metafisica è che l’Essere possiede una consistenza ontologica propria, mentre il Non-Essere non possiede una consistenza ontologica propria. Il Non-Essere “è” solo relativamente all’Essere, altrimenti non sarebbe: non ha né può avere sussistenza indipendente – quella che invece l’Essere potrebbe rivendicare. Dunque, il Non-Essere esiste solo relativamente all’Essere, del quale è una privazione relativa: il Non-Essere è mancanza relativa dell’Essere.
Che cos’è il Niente? Nel linguaggio ordinario, il termine «niente» afferisce all’ambito semantico della quantità, indicandone una estremamente ridotta o nulla. Per analogia, potremmo tradurre questo termine in linguaggio metafisico come “privazione (semi-)assoluta di Essere”. Ora: se il Niente fosse privazione assoluta di Essere, semplicemente non sarebbe – il Niente sarebbe un assurdo logico, impossibile ontologicamente. In questa accezione, il Niente sarebbe una metafora lessicale per indicare una circostanza che non si può dare. Ci accontenteremmo euristicamente di poco… Diversamente sarebbe, se adottassimo tale metafora lessicale per indicare piuttosto la radicale indigenza di Essere, una condizione ontologica segnata da un Non-Essere davvero semi-assoluto.
Il Niente, in questo senso, è il nome che potremmo attribuire alla regione più estremamente periferica dell’Essere. Quaggiù la stessa entità si dissolve: siccome l’Essere è forma, ed informa, il Non-Essere semi-assoluto è l’informe quasi assoluto, e, poiché senza forma non si dà entità, è de-formalizzante – una sorta di cupio dissolvi liminare e inestinguibile. Ebbene, il Niente potrebbe allora essere compreso “tendenza dissolutiva” rispetto a ciò che è.
Una seconda acquisizione fondamentale della speculazione metafisica è che l’Essere sia in qualche modo assimilabile al Bene. Essere e Bene, se proprio non sono la stessa sostanza declinata secondo categorie diverse, sono comunque strettamente ed inscindibilmente legati secondo un rapporto di proporzionalità diretta: quanto più Essere, tanto più Bene; quanto più Bene, tanto più Essere. Di conseguenza: quanto meno Essere, tanto meno Bene – cosicché il Non-Essere, in quanto privazione relativa di Essere, è anche privazione relativa di Bene, cioè “Male”.
Dato che il Non-Essere assoluto non può esistere, non può esistere nemmeno il Male assoluto. Ma siccome esiste il Non-Essere semi-assoluto, può esistere il Male semi-assoluto. E, siccome il Non-Essere semi-assoluto, cioè quello che noi abbiamo chiamato il Niente, è ontologicamente tendenza dissolutiva – allora il Male semi-assoluto è questa stessa tendenza dissolutiva: il Niente è Male radicale, cioè essenzialmente deprivazione di Bene. Questo aspetto peculiare del Niente, che è Male radicale, come “tendenza dissolutiva”, si può tradurre anche come “Nihilismo”. Dunque, il Nihilismo è essenzialmente una tendenza dissolutiva, che è ipso facto anche una fuga dal Bene.
Meglio di niente è allora un’espressione tautologica: se il Niente è Male radicale, tutto ciò che non è Niente è un male di grado inferiore, è “meno” male – perciò è “più” bene, cioè “meglio”. D’altronde, una tautologia non è un errore – è semmai una conferma di ciò che è acquisito, la cui superfluità, se è tale sul piano metafisico, offre lo spunto, il pretesto allo sviluppo di una riflessione su altri piani. È una superfluità carica di senso ermeneutico, perché attinge alle fonti della Verità.
Possiamo approfondire ulteriormente la portata di questa espressione, se sostituiamo al termine “niente” il suo sinonimo analogico, “nihilismo”: così otteniamo l’espressione “meglio del nihilismo” – laddove, rammentiamolo, per «nihilismo» intendiamo essenzialmente una tendenza dissolutiva. L’espressione, pur restando sostanzialmente analoga all’originaria, assume maggiore perspicuità ermeneutica, andando ad indicare ciò che si sottrae e/o si vuole sottrarre dalla dissoluzione: nel primo caso, s’intendono degli enti; nel secondo, s’intende piuttosto un gesto della volontà informata al Bene, cioè dalla consapevolezza di salvaguardarsi dall’attrazione dissolutrice del Male.
È alla luce di questa volontà di salvaguardarsi dal nihilismo che dovremmo interpretare l’opera scritta da Danilo Breschi, recante appunto il titolo Meglio di niente, pubblicata nel 2017. Il suo sottotitolo, “le fondamenta della civiltà europea”, annuncia poi quale sarà l’oggetto delle sue premure. Le fondamenta sono ciò su cui si regge un edificio: senza fondamenta, l’edificio crolla. L’edificio in questione è quello della civiltà europea, le cui fondamenta – quattro, come per ogni civiltà (p. 10): la storia, la politica, la religione, l’educazione – stanno traballando. E stanno traballando proprio a causa del nihilismo che si è insediato nei cuori di molti cittadini europei occidentali, imprimendo ai loro atteggiamenti mentali, personali e sociali il suo marchio di dissoluzione.
Secondo Breschi, il nihilismo starebbe risalendo i corsi della quotidianità, per diffondere il suo veleno fino ai pozzi dai quali si attinge la Weltanschauung di una comunità umana. Lo si rileva constatando che l’Europa occidentale è tutta quanta avvolta da un’atmosfera che Breschi chiama “declinista” (p. 5). Tale “declinismo” è una forma di ottundimento culturale e civile; ma, soprattutto, è un corollario, per così dire, “sociologico”, del nihilismo – del quale conserva l’essenziale tendenza dissolutrice. «Declinare» è infatti un verbo afferente all’alveo semantico spazio-motorio, significando “piegare in basso”; ma il termine, nel linguaggio ordinario, si carica anche di sfumature valoriali nostalgiche, che suggeriscono rimpianto verso qualcosa che si sta perdendo. E infatti, Breschi lo usa subito prima di sentenziare: «in fondo, non ci amiamo» (ibid.). L’Amore è forza unitiva per eccellenza, in quanto ricomprende le differenze per trascenderle in una sintesi che è unità di grado superiore. In quanto forza unitiva, l’Amore si oppone al Niente, cioè al nihilismo, che è forza dissolutiva. Ma, se non c’è più amore, perciò tutto declina.
Non c’è più amore verso chi? Verso noi stessi, in quanto cittadini europei occidentali. Ma chi eravamo noi cittadini europei occidentali, prima di smettere di amarci? È proprio questa domanda a costituire la trama del discorso di Breschi. Una trama che si sviluppa attraverso quattro tematiche principali, che corrispondono alle quattro fondamenta di ogni civiltà, come abbiamo già detto: la storia, la politica, la religione, l’educazione. Ognuna di esse ha acquisito nel corso del tempo una fisionomia particolare, che le ha permesso di reggere l’edificio della civiltà europea. D’altronde, a ben guardare, le fondamenta sono l’edificio. Quella europea è una civiltà complessa, la più complessa: tali e tanti sono stati gli apporti che nel corso della storia le hanno dato forma, che sarebbe appunto impossibile separare le fondamenta dall’edificio. Peggio: sarebbe sciocco; anzi, talmente sciocco da essere malizioso. Eppure, pare che sia proprio ciò che sta accadendo oggi: ai vertici della società europea vi sono politici che si fanno consapevolmente e volontariamente – talvolta, alacremente – promotori del nihilismo, declinato come puntuale e sistematica rimozione di tutto ciò che ha informato la civiltà europea: quella certa, e non altra, storia; quella certa, e non altra, politica; quella certa, e non altra religione; quella certa, e non altra, educazione (per scongiurare ogni possibile equivoco: per “certa e non altra” intendo la peculiare evoluzione storica della civiltà europea, non un momento specifico né una forma specifica).
Breschi ama la civiltà europea: tutto il suo discorso vibra d’amore. Chi ama, come abbiamo detto, si sottrae alle tendenze dissolutrici ed è cultore della forma. Se la civiltà europea è un edificio integrato alle sue fondamenta, la premura di chi la ama si traduce nel conservare quelle fondamenta. Ecco perché, in definitiva, il discorso di Breschi può essere interpretato come un manifesto sui generis del conservatorismo: un manifesto per richiamare tutti coloro che amano la civiltà europea ad impegnarsi per essa – anzitutto riscuotendosi dal torpore declinista ed aguzzando lo sguardo per sottrarsi alle trappole del nihilismo.