Luca Baldassarre (1989) è docente di Filosofia e Storia nei licei. Laureato in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Firenze con una tesi su Theodor W. Adorno, ha successivamente svolto attività di ricerca sulla Teoria critica della Scuola di Francoforte, con particolare interesse verso le varie declinazioni della critica dell’industria culturale. Fra le sue pubblicazioni: La Scuola di Francoforte. Una introduzione (Editrice Clinamen, Firenze 20213); Gli scrittori neri della borghesia. Theodor Adorno e il finale di partita (Clinamen, 2016); Gli uomini del cortocircuito. Per una critica dell’infantilismo ipermoderno (Clinamen, 2017).

La parodia sacra non è certamente cosa nuova nella storia dell’arte e della letteratura europea. Guglielmo Gorni ha interpretato sotto questa lente l’opera di Dante: da Beatrice come figura di Cristo alle «tre facce orrende di Lucifero» come «immagine perversa della trinità nel fondo dell’Inferno»[1]. Perfino l’esordio di Inferno VII, che presenta la voce chioccia di Pluto pronunciare il celebre Pape Satàn, pape Satàn aleppe!, è letto da Gorni come la deformazione parodica di «una formula iterativa immessa nel latino liturgico, quale ad esempio Kyrie eleison, Christe eleison, Kyrie eleison»[2]. Parodia che in Dante non ha però funzione ironica, né tantomeno satirica: anzi – sottolinea Gorni – svolge la funzione di antitesi rivelatrice[3].

Ciò non toglie che la tradizione ci abbia tramandato esempi in cui la parodia sacra sia stata esercitata con funzione dissacrante. Il più noto fra questi è la Cena Cypriani, parodia medievale di alcuni passi biblici, in particolare delle nozze di Cana, in cui, ad esempio, viene proposta una sovrapposizione tra l’area semantica del vino a quella del divino – interpretazione bacchica della figura di Cristo. Alcuni secoli più tardi Rabano Mauro rielaborerà la Cena Cypriani, rifunzionalizzandola a scopi mnemonici, ovvero per facilitare la memorizzazione della Bibbia. C’è poi chi ha interpretato la versione originale all’insegna della categoria del rovesciamento: nel suo L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Michail Bachtin leggerà la Cena con le lenti della sua teoria del comico, secondo la quale ogni istituzione alta, in epoca medievale e rinascimentale, era sottoposta ad un abbassamento con finalità rigenerativa, come correttivo dell’unilateralità della parola autoritaria in nome di una realtà pluridiscorsiva. Anche laddove la parodia viene esercitata con funziona dissacrante, lo scopo ultimo non è mai, insomma, la distruzione del modello, ma la trasgressione come costituzione di uno spazio critico. Roger Caillois, nel suo I giochi e gli uomini, sembra suggerire che tale prospettiva rientra nell’orizzonte dell’umano nella sua universalità e non solo della tradizione europea, quando, a chiusura della sua disamina, evidenzia l’importanza, tra gli Zuñi e i Navajos, della «introduzione, nel gruppo delle maschere divine, di personaggi di rango uguale e di pari autorità ma destinati a parodiare le loro mimiche ammaliatrici, a temperare con il riso ciò che, privo di questo antidoto, finiva fatalmente nella trance e nell’ipnosi»[4].  
Questa pratica dello sdoppiamento rientra, d’altronde, nel concetto stesso di parodia, nella sua genesi e nel suo etimo. Gli studiosi sono pressoché concordi, infatti, nel collocare la nascita della parodia (parà: «a lato», ma anche «contro»; odè: «canto»), all’interno della tradizione occidentale, nella Grecia arcaica, introdotta quale controcanto dell’attività dei rapsodi. Che si trattasse della semplice modifica della dizione durante il canto o di minime modificazioni testuali deviate su un altro significato, che il soggetto di questa operazione parodica fosse il rapsodo stesso o un suo doppio, è ormai unanimemente accettato che, nonostante «la nascita della parodia si cela nella notte dei tempi»[5], «la parodia è figlia della rapsodia, e viceversa»[6]. Diciamola diversamente: non esiste forma culturale che abbia, fin dalla sua origine, un carattere per così dire monolitico, che sia, in altre parole, identica a se stessa. Ogni opera è di per sé, seguendo l’impalcatura terminologica di Genette, ipertestuale: è sempre, inevitabilmente, altro da sé. Ancora, la cultura consiste proprio in ciò: nella continua trasformazione di forme che entrano in rapporto critico con la tradizione, la quale a sua volta consiste nella generazione di trasgressioni, di deviazioni dalla norma.

L’opera di Gérard Genette, che rappresenta ormai un classico degli studi sulla parodia e più ampiamente sull’ipertestualità, propone uno schema delle pratiche ipertestuali (parodia in senso stretto, travestimento burlesco, trasposizione, pastiche, caricatura, forgerie), a cui aggiunge una rosa di funzioni, o, come preferisce il teorico francese, regimi: satirico, ludico, serio, umoristico, ironico, polemico; ma al di là dell’imponente lavoro tassonomico, talvolta forse eccessivo, di Genette, rimane fermo un punto, ineludibile per qualsivoglia operazione ipertestuale: la riconosciuta autorità dell’ipotesto, ovvero dell’opera parodiata.

In occasione dei Giochi Olimpici di Parigi 2024 ha destato molto scalpore la cerimonia d’apertura, durante la quale è stata proposta una parodia, in veste drag queen e genderfluid, dell’Ultima Cena. Non si è trattato, chiaramente, di una parodia intesa come pratica testuale, ma come rappresentazione teatrale. D’altronde, in un’epoca dominata dal proliferare di immagini e caratterizzata dal declino del testo scritto, e in cui l’immagine sostituisce la scrittura, le analisi sulla parodia come pratica ipertestuale sono pienamente applicabili ad altre modalità espressive nella misura in cui con testo non si intenda esclusivamente il testo scritto, ma ogni opera che veicoli significati.
Le reazioni scandalizzate da parte delle forze politiche conservatrici, in Francia e nel resto d’Europa, e soprattutto l’intervento della Conferenza Episcopale di Francia, che ha gridato contro la blasfemia dell’esibizione, hanno provocato di contro le difese da parte dell’ideatore della cerimonia, sollecito a sottolineare come non si trattasse dell’Ultima Cena, ma di una rappresentazione ispirata ad un banchetto di dei dell’Olimpo. Immediatamente turbe di progressisti incalliti sono entrati in soccorso degli organizzatori contro il bigottismo dei conservatori più retrivi, rilevando come il riferimento non fosse l’Ultima Cena di Leonardo, ma un dipinto del pittore fiammingo van Biljert dal titolo Le festin des Dieux, delle cui copie – suppongo – si trovano tappezzate le pareti delle case degli apologeti in questione.

Ammettiamo, senza concedere, che il riferimento dell’autore fosse pagano e non cristiano – sebbene dubito ch’egli fosse così ingenuo da ritenere che il pubblico medio, cui d’altronde era rivolto quello spettacolo, conoscesse i riferimenti addotti successivamente a giochi fatti e sebbene la stessa azienda televisiva pubblica francese che trasmetteva la cerimonia avesse fatto esplicito cenno, in un tweet su X, cancellato dopo le polemiche, al referente cristiano. Quel che accomuna tanto le accuse quanto le difese è lo sguardo presbite sul meccanismo in atto. Entrambe, infatti, organizzano i rispettivi argomenti attorno alla presunta blasfemia della rappresentazione: le prime rimproverando il sacrilegio, le altre rassicurando sull’assenza di intenzioni dissacratorie, a conferma che il richiamo di taluni liberalprogressisti alla presunta affinità con le vignette satiriche di Charlie Hebdo è totalmente fuori luogo. E, in effetti, dov’è la blasfemia in uno show in cui manca il coraggio della trasgressione, in cui manca la rabbia della bestemmia?

Queste sono possibili solo nel momento in cui è già avvenuto il riconoscimento di un modello precedente, di una norma, di un’autorità da contestare, da rovesciare, da mettere in dubbio, da modificare, variare, trasformare. Quale che sia il referente intenzionale della cerimonia – sia, cioè, cristiano o pagano – esso costituisce il mero spunto, l’occasione dello show: la tradizione cui quella cerimonia vorrebbe far riferimento ha già perso ogni autorità – nella sua duplice radice greca e cristiana. C’è davvero qualcuno che ritiene ancora l’immaginario simbolico occidentale, greco e cristiano, fecondo, ovvero produttore di sistemi e concezioni del mondo capaci di generare senso e quindi, di conseguenza, passibili di critica?

Venuto meno il modello, viene meno anche il carattere critico-negativo della cultura e si realizza ciò che potremmo definire il suo carattere pubblicitario. Potremmo aggiungere un ulteriore regime, allora, a quelli proposti da Genette: il regime pubblicitario, il quale, ponendosi al di sopra dell’opera parodiata – non più a lato, non più contro – conduce l’opera parodiante a fagocitare, inevitabilmente, se stessa nella misura in cui dispone ad libitum dell’opera parodiata. Non più opera a più voci, la parodia diventa opera a una sola voce, replicando l’autoritarismo nella cui distanza critica consisterebbe la parodia stessa. La tradizione greca e la tradizione cristiana si trascinano ormai stancamente, infatti, lungo il percorso intrapreso dalla civiltà europea e la parodia assomiglia più a un atto di necrofilia che a un atto di trasformazione.          
Solo il rapporto critico con la tradizione potrebbe salvare le istanze progressive della civiltà europea, ma questa tradizione risulta ormai trasformata in meme, in simulacro prêt-à-porter, in immagine priva di contenuto, spogliata della sua dimensione storica. Il significato dello show proposto durante la cerimonia d’apertura dei Giochi Olimpici di Parigi non risiede nella relazione con un referente cristiano, non risiede nella relazione con un referente greco: risiede unicamente nella capacità manipolatoria, da parte della rappresentazione stessa, di qualsiasi possibile referente, la più alta manifestazione dell’arroganza tronfia del potere soddisfatto di sé. E proprio di qualsiasi referente si tratta: la stessa ambiguità del referente, l’impossibilità di una sua interpretazione univoca è indice della sua superfluità. Oggetto della parodia pubblicitaria non è più un’opera determinata, come invece nella storia della parodia – presupposto, questo, condiviso da tutti gli studiosi in campo – ma la tradizione stessa nella sua totalità, divenuta mero materiale da plasmare a piacimento.

In questo scenario, allora, può la difesa della tradizione – quale atto reazionario! – porre un argine contro questa deriva pubblicitaria, non più come referente autoritario, ma come dialettica tra affermazione e negazione? O forse, più che la sua resurrezione, l’unica fragile possibilità risiede nella nostalgia di quella relazione critica?

Nel frammento 122 dei Minima Moralia, intitolato Monogrammi, Theodor W. Adorno scriveva: «uno dei compiti principali di fronte a cui si trova oggi il pensiero è quello di impiegare tutti gli argomenti reazionari contro la cultura occidentale al servizio dell’illuminismo progressivo»[7]. Oggi che lo sviluppo dell’illuminismo progressivo non è minacciato solo dal conservatorismo dei bacchettoni, sempre pronti a scandalizzarsi e a urlare all’oltraggio, ma anche dal sedicente progressismo queer, che allo scandalo ha sostituito l’euforia dell’autocompiacimento, è probabile che, più che impiegare gli argomenti reazionari, uno dei compiti principali di fronte a cui si trova il pensiero sia quello di dimostrare l’inconsistenza dell’opposizione fra conservazione e progresso, in un mondo trasfiguratosi nella stanza degli specchi.

NOTE

[1] G. Gorni-S. Longhi, La parodia, in: Letteratura italiana, vol. V. Le questioni, Einaudi 1986, p. 476.

[2] Ivi, p. 475.

[3] Ivi, p. 476.

[4] R. Caillois, I giochi e gli uomini, Bompiani 2017, p. 165.

[5] G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi 1997, p. 18.

[6] Ivi, p. 19.

[7] Th. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi 1994, pp. 229-230.

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