Luca Baldassarre (1989) è docente di Filosofia e Storia nei licei. Laureato in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Firenze con una tesi su Theodor W. Adorno, ha successivamente svolto attività di ricerca sulla Teoria critica della Scuola di Francoforte, con particolare interesse verso le varie declinazioni della critica dell’industria culturale. Fra le sue pubblicazioni: La Scuola di Francoforte. Una introduzione (Editrice Clinamen, Firenze 20213); Gli scrittori neri della borghesia. Theodor Adorno e il finale di partita (Clinamen, 2016); Gli uomini del cortocircuito. Per una critica dell’infantilismo ipermoderno (Clinamen, 2017).

L’ennesima operazione di emotainment portata avanti da Fabio Fazio ha prodotto la ormai consueta polarizzazione tra tifosi: da una parte i buonisti, che credono che qualche lacrimuccia di partecipazione possa sollevarli da possibili sensi di colpa e far loro ottenere le chiavi da san Pietro; dall’altra i cosiddetti leoni da tastiera, sempre pronti a colpire proprio laddove annusano la bestia che soffre.

Lo sciacallaggio mediatico non risiede però in una delle due barricate, ma nel sistema stesso che produce queste barricate. Se, infatti, ci si riuscisse a liberare dal vincolo cui l’emotainment conduce, sarebbe possibile comprendere come questo sia tarato sin dalle fondamenta.

La questione di base non riguarda il dolore provato da chi ha subito una delle peggiori disgrazie che possa capitare ad un essere umano: questo dolore non solo è legittimo, ma richiede a tutti gli altri di rimanere in silenzio nel rispetto di chi lo prova. La questione dell’emotainment riguarda invece l’illegittimità di un’operazione induttiva (che si fa indebitamente passare per deduttiva), che non ha pertanto a che fare direttamente con quel dolore, ma col pensiero e la ragione che da quel dolore vorrebbero succhiare presunte verità.

La fallacia del procedimento, su cui i media lucrano, consiste in ciò: che si pretende di ricavare dal dolore del singolo una verità universale, ritenendo che chi abbia sofferto in prima persona sia legittimato più di altri a fornire visioni di insieme e, perciò, conseguenti soluzioni a problemi di ordine generale; che – rimanendo sull’ultimo caso – chi ha purtroppo vissuto in prima persona, come parente della vittima, la tragedia del femminicidio conosca i fattori sociali, storici, culturali che determinano la diffusione di questo fenomeno nella società di massa; che – per concludere – dal fatto che chi ha subìto quella tragedia pensi che la causa sia il patriarcato si desuma che la causa del fenomeno complessivo cui si dà il nome di femminicidio sia il patriarcato.

Gli studi massmediatici definiscono emotainment quella particolare forma di entertainment (intrattenimento) che fa leva sulle emozioni, che si prefigge l’obiettivo di incrementare audience proponendo contenuti emotivamente coinvolgenti. Treccani lo definisce «spettacolo televisivo nel corso del quale si raccontano storie personali che coinvolgono emotivamente gli spettatori».

La storia della televisione italiana ce ne consegna, a partire dall’era berlusconiana, numerosi esempi: dai postini di Maria De Filippi alle carrambate di Raffaella Carrà. L’emotainment culturale del quale Fabio Fazio sembra ormai detenere il primato è la più lampante manifestazione della vittoria del berlusconismo quale forma di vita, che ha ormai conquistato il campo avversario. L’ibridazione dell’emotività come principio e della cultura come occasione, quindi l’emozione come mezzo e al contempo come fine della cultura, rappresenta il culmine di quel processo di manipolazione delle coscienze che in Italia, fino a qualche decennio fa, sembrava circoscriversi al dominio della Fininvest e che oggi invece minaccia tutti noi quali probabili casalinghe di Voghera.

La civiltà filosofica greca ci trasmette, sin dai suoi albori, la responsabilità nella scelta della strada da intraprendere di fronte al bivio intellettuale: da una parte i sofisti, dall’altra Socrate. Da una parte la macrologia protagorea, i grandi sermoni volti a conquistare consenso, i fragorosi applausi del pubblico in delirio; dall’altra il tafano, colui che punzecchia in continuazione e decostruisce le convinzioni. Da una parte l’emozione come punto debole, come crepa dell’animo da sfruttare per convincere delle proprie convinzioni; dall’altra il daimon, la passione come molla per fare esperienza della verità, per mettersi autonomamente in cammino sulla strada della ricerca.

L’emotainment culturale promuove l’emotività come nuovo argumentum ab auctoritate: l’appello all’emotività si configura come l’ennesima forma di un richiamo al principio di autorità. L’emozione diventa la nuova fonte indiscutibile di autorità, complementare al richiamo al popolo tipico proprio di quelle forze politiche che contrastano l’emotainment culturale. L’emozione fa da padrona: chi soffre ha sempre universalmente ragione, il logos viene sostituito dal pathos tout court. Dalla parte della verità e della ragione è chi si fa trasportare da questa emotività, chi si immedesima e si fa partecipe (nella finzione televisiva) del dolore esposto.

Ecco allora la domanda: l’emotainment culturale, che si spaccia per cultura, è davvero tale? Può esserci solo un modo per reagire contro la (in)cultura della violenza che i propugnatori dell’emotainment culturale dicono di voler combattere: reagire alla (in)cultura in generale. Per farlo, non abbiamo bisogno della (in)cultura dell’emozione, che è pornografia del dolore, ma semplicemente di cultura, ovvero di ragione, discorso, dialogo: proprio ciò che l’emotainment culturale distrugge. Mezzi e fini partecipano della medesima cultura: non è possibile giustificare i mezzi in funzione del fine, non esiste finalità culturale che possa essere raggiunta tramite mezzi demagogici, stuzzicando l’impulsività dell’animo umano: mezzi demagogici, fini demagogici. L’unica passione legittima, quale mezzo, a cercare la verità è la passione per la verità.

Per quale motivo la sofferenza provata da un individuo, per quanto atroce, sarebbe sufficiente a conoscere le cause generali, sociali e culturali, dell’evento che ha causato quella sofferenza? Forse che sarebbe legittimo fornire a una vittima della pandemia, proprio in quanto vittima della pandemia, patenti per dissertare in tema di virus e vaccini? E non è forse questa stessa una delle accuse che la faziosa consorteria, in preda a spasmi di burionismo, rivolgeva negli anni dei lockdown contro coloro i quali, pur in mancanza di ossigeno, rifiutavano, stesi sul lettino di un pronto soccorso, le cure opportune? Se la risposta di faziosi e burionisti fosse – e prevedibilmente sarebbe – che una cosa è la medicina, altra è la sociologia, intendendo con ciò che in un caso abbiamo a che fare con cose serie, nell’altro con scienze delle merendine, allora verrebbe meno l’intera impalcatura su cui si fonda l’emotainment culturale: ché se tutti potessero parlare di sociologia, allora tutte le opinioni in merito al sistema patriarcale quale fondamento dell’attuale ondata di femminicidi sarebbero egualmente valide, tanto quelle favorevoli quanto quelle contrarie alla suddetta tesi; cosicché verrebbero alimentate – ed è quanto contribuiscono a fare le trasmissioni tv di emotainment culturale – inutili e sterili discussioni da bar.

Se il sonno della ragione genera mostri, allora ricavare sic et simpliciter la verità dall’emozione è la più subdola forma di propaganda contro la quale oggi il pensiero ha il dovere di combattere.

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