Alberto Giovanni Biuso è Professore ordinario di Filosofia teoretica nel «Dipartimento di Scienze Umanistiche» dell’Università di Catania, dove insegna anche Epistemologia e Filosofia delle menti artificiali. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Chronos. Scritti di storia della filosofia (Mimesis Editore, 2023). Il suo sito web è www.biuso.eu

Recensione a: Publio Ovidio Nasone, Ars amatoria / L’arte di amare, a cura di O. Celeste (testo a fronte),  Rusconi, Milano 2019, pp. CXVI-267, € 10,00.

Nel suo poema didascalico dedicato alla seduzione, Ovidio ha tra gli obiettivi – comunque centrale – descrivere un’esperienza razionalizzata dell’amore, nella quale il sentimento è presente, certo, ma in funzione decisamente subordinata al gioco, al piacere, al desiderio e alla finzione. L’«erotodidassi» della quale parla Ulrich Schmitzer (p. XCIV) è un progetto esistenziale ma anche politico e teoretico di controllo del sé che però non significhi affatto rinuncia ma condizione per una soddisfazione ancora più grande, per un piacere più consapevole, per una forma che eviti sempre dismisura e volgarità e si esplichi nel tessuto quotidiano delle relazioni come eleganza e rispetto reciproco.

A questo scopo non è possibile, anzi è controproducente, lasciarsi andare alle passioni e ai sentimenti senza un controllo che è appunto l’Ars, la τέχνη, una competenza acquisita con l’esperienza (inevitabilmente) e con la riflessione. «Arte regendus Amor (con la tecnica va guidato Amore)» (libro I, verso 4). Tale competenza acquisita da Ovidio e da chiunque altro con molto impegno e fatica suggerisce che «quod iuvat, exiguum, plus est quod laedat amantes; / proponant animo multa ferenda suo (le gioie, per chi ama, sono poche, meno di quanti sono i dispiaceri, e quindi costoro si preparino in cuor loro a tante sofferenze)» (II, 515-516). È questo un universale della fenomenologia del sentimento amoroso che compare al centro anche di un poema che sembra invece intessuto di leggerezza, sorriso, ironia. Ma evidentemente Ovidio conosceva davvero assai bene tale sentimento e le passioni umane in generale.

Se amore e sofferenza sono inseparabili, attutire la seconda implica uno degli elementi di fondo di tutta la civiltà greco-romana, la condizione apollinea, la conoscenza di sé: «Qui sibi notus erit, solus sapienter amabit (Solo chi ha conoscenza di sé sarà un sapiente d’amore)» (II, 501).

Conoscenza che si nutre di fisicità ma non si limita affatto ai corpi; conoscenza della natura sempre conflittuale dei rapporti umani, compresa la relazione amorosa: «Militiae species amor est (l’amore è come una guerra)» (II, 233); conoscenza quindi sia della tattica immediata sia delle strategie di fondo e degli obiettivi, come accade per qualunque conflitto.

Tattica e strategie del sentimento amoroso si fondano su alcuni elementi assai chiari: finzione, differenza, reciprocità, rispetto.

Finzione perché la passione amorosa è un gioco bello, appassionante e pericoloso, nel quale mostrarsi nudi così come si è costituisce un presupposto quasi certo di fallimento. Bisogna presentarsi sempre al meglio non in assoluto ma di volta in volta in relazione alle circostanze, alla persona che abbiamo di fronte, al momento esatto in cui ci si trova nel cammino della conquista, del mantenimento, della liquidazione.

La differenza è la semplice ma fondamentale presa d’atto che «sunt diversa puellis / pectora; mille animos ecxipe mille modis (ogni ragazza ha un cuore diverso: tanti caratteri ci sono, tante strategie escogita per conquistarli)» (I, 755-756), che ogni persona è dunque diversa, che le sfumature tra gli umani sono quasi quanto gli umani stessi e che una volta reciprocamente conquistatisi la differenza deve esplicarsi, rimanere, rendere più gioioso il rapporto poiché «mille iocis Veneris (i modi di giocare nel sesso sono tanti)» (III, 787) e «non omnes una figura decet (non c’è una sola posizione che vada bene per tutte)» (III, 772).

La reciprocità è per Ovidio fondamentale, a partire dall’aver aggiunto – rispetto ai due libri dei quali si componeva l’opera nel progetto iniziale – un terzo libro esclusivamente dedicato alle indicazioni da dare alla donna, alle strategie che anch’ella può e deve mettere in atto per conquistare, mantenere, liquidare il suo uomo, i suoi uomini. Reciprocità che si deve manifestare soprattutto nel piacere che gli amanti si scambiano e si danno, nell’orgasmo che deve essere tanto maschile che femminile. Ovidio ribadisce e presenta anche come frutto ed atteggiamento di esperienze personali che «quae datur officio, non est mihi grata voluptas / officium faciat nulla puella mihi / Me voces audire iuvat sua gaudia fassas (non mi dà nessun piacere chi mi si concede per dovere e mi auguro che nessuna ragazza mai si comporti così con me. Quello che mi piace è sentire quei suoni che mi fanno capire che sta godendo)» (II, 687-689).

A ulteriore dimostrazione, è opportuno presentare alcuni brani nei quali il poeta è a questo proposito assai chiaro e determinato:

Ex aequo femina virque ferant (all’orgasmo però maschio e femmina cerchino di arrivarci insieme) (II,682).

Ad metam properate simul; tum plena voluptas, / cum pariter victi femina virque iacent

(Cercate di raggiungere insieme la meta: c’è stato pieno godimento quando il maschio e la femmina si ritrovano distesi ed entrambi sopraffatti) (II, 727-728).

Sentiat ex imis Venerem resoluta medullis /femina, et ex aequo res iuvat illa duos. /Nec blandae voces iucundaque murmura cessent / nec taceant mediis improba verba iocis

(La femmina, in completo abbandono, deve sentire il piacere dal più profondo del suo essere e quel piacere lì arrivi per tutti e due assieme. Non smettano mai le paroline dolci e i mugolii di piacere e, mentre giocate, non astenetevi dal pronunciare parole oscene) (III, 793-796).

Il significato e lo scopo di tale intensa reciprocità è ancora una volta una forma di profondo rispetto del corpo della donna, del piacere che prova e del piacere che dà al suo uomo provando piacere:

Non est Veneris properanda voluptas, / sed sensim tarda prolicienda mora. / Cum loca rappereris quae tangi femina gaudet / non obstet, tangas quominus illa, pudor. / Adspicies oculos tremulo fulgore micantes

(In amore il piacere non deve essere una cosa veloce, ma va stuzzicato a poco a poco e continuamente ritardato. Una volta che hai capito quali punti toccare, quali danno più piacere alla donna, non ti far mettere freni dal pudore e toccali. Le vedrai luccicare gli occhi, di quella luce tremula simile a quella del sole riflessa da un’acqua limpida) (II, 717-721).

L’attività amatoria deve essere quindi libera ma assolutamente discreta, in modo da non creare problemi a nessuno; deve essere intensa soprattutto da parte della donna poiché la vagina non si consuma con l’utilizzo, anzi l’invito di Ovidio alle ragazze e alle donne è di imitare le dee e accoppiarsi quando vogliono e con chi vogliono:

Ite per exemplum, genus o mortale, dearum, / gaudia nec cupidis vestra negate viris. / Ut iam decipiant, quid perditis? Omnia constant: / mille licet sumant, deperit inde nihil./ Conteritur ferrum, silices tenuantur ab usu: / sufficit et damni pars caret illa metu

(Seguite l’esempio delle dee, donne mortali, non rifiutate al desiderio del maschio il piacere di voi. Mettiamo pure che essi vi abbiano con l’inganno: che ci perdete? Vi resta tutto uguale. Vi possiedano in mille, tanto non si rovina niente. È il ferro che si consuma con l’uso e si consuma la pietra, ma quella cosa lì resiste e – niente paura – non rischia di essere danneggiata) (III, 87-92).

Elementi dai quali guardarsi sono invece l’ingenuità che conduce al fallimento negli scopi; la gelosia che rovina i rapporti e la vita – «Et quia mens semper, quod timet, esse putat (E poi c’è la tua mente, sempre pronta a credere realtà le proprie paure)» (III, 720); le gravidanze che spengono la bellezza: «Carpite florem / qui nisi carptus erit turpiter ipse cadet. / Adde quod et partus faciunt breviora iuventae (Coglieteli sempre i fiori, perché se non li coglierete cadranno da sé – e sarà una vergogna. E inoltre considera il fatto che le gravidanze fanno invecchiare prima del tempo)» (III, 79-80).

Come si vede da questi esempi, la traduzione di Ortensio Celeste non è soltanto una traduzione ma una restituzione del testo di Ovidio dalle volute assai ampie, che costruisce in realtà ogni volta una spiegazione e una perifrasi dell’opera e delle sue parti.

Opera che il poeta consegna ai lettori consapevole di avere la fortuna di vivere nell’epoca d’oro di Roma, che gli dà la felicità di esserci, scrivere, amare: «Haec aetas moribus apta meis (Personalmente sono contento di essere figlio dell’oggi)» (III, 122; cfr. anche III, 113). Certo, gli umani sono ben diversi dagli dèi per i quali «est omnia posse (è facile riuscire in tutto)» (I, 562) e però Ovidio ha voluto innalzare ai corpi degli umani un inno e un canto di lode simile a quello con il quale i poeti generano dai loro versi e con i loro versi il divino: «Si Venerem Cous nusquam posuisset Apelles / mersa sub aequoreis illa lateret aquis (Se Apelle di Cos non avesse dipinto la sua Venere, la dea non sarebbe mai apparsa nell’atto di emergere dalle acque del mare e starebbe ancora lì sotto» (III, 400-401).

Raffreddando con la razionalità la passione amorosa nel momento stesso in cui ne celebra i piaceri e la forza, Ovidio mostra in che misura siano fecondi l’atteggiamento e il lavoro filosofici nel cercare di rendere gli umani quanto più possibile vicini ai divini.

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