Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, insegna Filosofia teoretica, Metafisica e Filosofia delle menti artificiali. Ha anche insegnato Epistemologia, Sociologia della cultura e Storia dell’estetica. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Altri temi di cui si occupa sono: la mente come dispositivo semantico; la vitalità del pensiero classico greco e romano; le strutture ontologiche delle intelligenze artificiali; la questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Ždanov. Sul politicamente corretto (Algra Editore, 2024). Il suo sito web è www.biuso.eu

Un esercizio attento e critico della razionalità per comprendere il mondo e per agire in esso tramite tale comprensione. Anche in questo consiste il «potere emancipante della ragione sull’essere umano»[1] ed è questo il fondamento dell’opera e dell’esistenza di Dario Generali, uno dei maggiori storici della scienza contemporanei. Allievo di Mario Dal Pra; cresciuto nel fervore della Statale di Milano negli anni nei quali era ancora ben presente e viva la plurale scuola di pensiero scaturita dal lavoro di Antonio Banfi, Enzo Paci, Ludovico Geymonat; massimo esperto al mondo dell’opera di Antonio Vallisneri e in generale della scienza settecentesca come essa emerge dagli immensi epistolari dei suoi protagonisti, Generali non si è limitato a essere uno studioso, un erudito, uno storico e filosofo ma ha posto il suo lavoro al servizio di un impegno civile che in questo volume viene costantemente e ampiamente riconosciuto come elemento centrale di un’intera esistenza.

Dalla ricca miniera delle 1100 e più pagine del libro selezionerò pochi contributi che affrontano alcuni degli elementi che meglio caratterizzano e descrivono tale impegno. E questo senza che necessariamente parlino di Generali ma contribuendo a chiarire i nuclei teoretici e politici dai quali la sua opera è intramata. Tra questi la medicina. Antonio Vallisneri (1661-1731) fu infatti prima di tutto un medico e un professore di medicina. Allo statuto di questa scienza pratica – non scienza esatta – dedica una attenta riflessione Benedino Gemelli, occupandosi proprio di Saggezza medica e prudenza terapeutica nella medicina epistolare e nella trattatistica medica di inizio Settecento.

Gemelli osserva che essendo la medicina, come la verità, figlia del tempo, essa ci aiuta a comprendere meglio anche il nostro. Il principio metodologico fondamentale consiste nella consapevolezza che «il vero medico è la natura e il medico è al suo servizio, e si può guidare la natura soltanto obbedendole» (p. 179). A tale saggezza si contrappone «l’impressione che dal filone iatromeccanico del XVIII secolo si sia giunti allo iatromeccenicismo. […] In questo sistema di delega alle macchine anche il medico passa in secondo piano, prende atto dei risultati ma non è interessato alle cause vere e più profonde giacché i protocolli in vigore non glielo richiedono. Ciò produce ovviamente dei riflessi a livello terapeutico: si interviene sul luogo specifico della patologia, ignorando tutto il resto della geografia generale del paziente» (p. 179); tali limiti si coniugano spesso a un’attenzione spasmodica ai profitti che l’esercizio medico e i preparati farmaceutici possono generare. Gemelli ricorda invece che «al di sotto delle forme e delle metodologie destinate a rivelarsi effimere deve pur rimanere un nucleo vitale e fecondo per la sopravvivenza dell’arte medica: la saggezza che determina l’azione, la ricerca della consonanza con la natura, il rapporto non massificato con il paziente, l’estraneità alle logiche del puro profitto (p. 180).

Una tale concezione della pratica medica è espressione di ciò che può essere definito come una forma di materialismo olistico e non riduzionistico, quale appare nell’assai interessante riflessione che Gianfranco Mormino dedica alla fisiologia e all’etica del comportamento animale. Mormino fa infatti derivare l’obbligo di rispetto e riconoscimento che dobbiamo agli altri animali non da elementi moralistici e sentimentali ma da una attenta fenomenologia dello statuto animale, che individua la sua caratteristica primaria nella capacità che un ente possiede di muoversi per evitare il dolore e raggiungere uno stato di (provvisoria) quiete: «Un depotenziamento della nozione di volontà, ricondotta nella sostanza a una semplice spinta a muoversi o a restare fermo, fa così cadere una delle ragioni più rilevanti per attribuire statuti etici diversi all’uomo e agli altri animali» (p. 487).

Altrettanto rigoroso è l’esercizio della razionalità critica in un settore apparentemente distante dalla medicina e dalla biologia ma sul quale si fonda il lungo e tuttora alacre lavoro storico di Generali. Mi riferisco all’ecdotica e alla filologia, ambiti nei quali soltanto è possibile concepire e realizzare le edizioni critiche di qualunque testo.

Al rapporto tra ecdotica, informatica e interdisciplinarità dedica un illuminante contributo Francesco Luzzini, il quale pone al centro della questione il rischio inerente alle digital humanities di unaperdita di messaggio’ data dalla difficoltà di conciliare la ricchezza di introduzioni, commenti, apparati, note – che è costitutiva di un’edizione critica ben fatta – con gli strumenti e i metodi propri dell’informatica. A ciò si unisce la sempre più pervasiva e distorta logica del ‘pubblicare o perire’, che cancella in partenza il rigore della ricerca e la complessità dei suoi risultati. Ci troviamo infatti in una situazione nella quale «è sempre meno comprensibile e sempre meno tollerabile che un ricercatore dedichi anni di lavoro paziente e minuzioso alla realizzazione di un libro solo – o, per meglio dire, di un prodotto solo. Bisogna pubblicare più in fretta, bisogna pubblicare di più: poco importa che ciò significhi lavorare peggio. E poco importa che numerosi studi abbiano già dimostrato come questa concezione e questa gestione della ricerca siano controproducenti non solo per la ricerca stessa (sia scientifica sia umanistica) e, quindi, per l’innovazione e l’accrescimento del sapere umano, ma anche per lo sviluppo economico: l’intoccabile e invocatissimo Moloch a cui, secondo tale visione, occorre sacrificare tutto il resto» (p. 242).

Un esempio concreto dei (pessimi) risultati ai quali conducono siffatti presupposti e atteggiamenti è discusso da Luca Danzi attraverso una dura ma del tutto motivata polemica filologica e metodologica relativa all’opera di Alessandro Manzoni sulla rivoluzione in Francia del 1789 posta a confronto con quella italiana del 1859. Danzi mostra come in alcune edizioni, che si vorrebbero rigorose e nello stesso tempo ‘accessibili’ all’ignaro lettore, questo e altri scritti di Manzoni siano in realtà riscritti con le più fantasiose e arbitrarie motivazioni. Il filologo conclude la propria ricognizione critica affermando giustamente che «comunque sia, al di là delle interpretazioni, c’è da augurarsi che anche per la Rivoluzione manzoniana il rispetto del testo (e dei suoi lettori) tornerà a precedere le ragioni soggettive di una critica approssimativa» (p. 734).

Un ambito fondamentale nella vita di Dario Generali è stato ed è quello della scuola e dell’università. E qui le testimonianze diventano limpide e drammatiche nel delineare il quadro di due istituzioni tanto fondamentali quanto morenti. Luzzini riassume in questo modo il lungo impegno di Generali:

Da qui, nel corso degli anni, il suo opporsi senza compromessi agli abusi e alle mancanze dei molti, troppi colleghi e dirigenti scolastici che non si dimostravano degni del loro ruolo. Da qui la sua guerra a oltranza contro la degenerazione di una scuola e di un’università sempre più povere di contenuti, ridotte a strutture vanamente terapeutiche, snaturate dal prevalere di un pedagogismo ideologico e deleterio, fintamente inclusive e realmente appiattite sulle priorità aziendalistiche delle riforme promosse con criminale coerenza bipartisan dai governi degli ultimi decenni (p. 16).

A ciò che definisce il «lucido sguardo di Dario Generali sul progressivo degrado della scuola italiana», Giovanni Carosotti dedica un ampio saggio nel quale descrive i molteplici e infaticabili modi nei quali Generali ha operato contro «la volontà di piegare la scuola ai criteri del mercato, di farne una variabile dipendente di più ampie priorità economiche; di conseguenza, di trasformare la scuola, e non solo nella sua struttura organizzativa, secondo il modello aziendalistico» (p. 880). Una lotta che ha come obiettivo primario non soltanto la salvaguardia della ricchezza culturale dell’Europa ma anche l’equità sociale e politica. Generali ha infatti soprattutto stigmatizzato

il carattere d’ingiustizia di questa nuova scuola, contrapponendosi a quella costruzione ideologica che vorrebbe farne un’istituzione votata a favorire l’eguaglianza, l’inclusione, oltre che l’affettività. Si tratta di una scuola invece finalizzata a impedire proprio la mobilità sociale, a inchiodare gli alunni alle loro condizioni di partenza. Proprio perché l’ignoranza, il fine formativo della nuova scuola, rende impossibile una reale emancipazione intellettuale e quindi un progressivo superamento dei particolari vincoli in cui si è sviluppato il proprio vissuto (p. 896).

Una testimonianza persino commovente dei risultati ottenuti in questo ambito professionale e civile è il testo che decine di ex studenti di Generali gli hanno dedicato, nel quale tra l’altro si legge che

al primo impatto con lui la sensazione collettiva era di stupore e di ammirazione per un linguaggio elegantissimo ed estremamente comunicativo e per una cultura che ci sembrava sterminata e assolutamente inconfrontabile con il contesto a cui eravamo abituati, ma anche di notevole preoccupazione per la richiesta di un impegno incondizionato nello studio. […]  Inizialmente, quindi, la sensazione collettiva era di una sciagura che era capitata alla classe e al suo modo di concepire la scuola e lo studio, perché appariva subito evidente che, a fronte di una sua ampia disponibilità a sostenere chiunque nello sforzo di superamento di lacune e fragilità pregresse, si aveva la pretesa della massima attenzione in classe e di un altrettanto serio impegno di studio a casa (p. 1011).

Una richiesta di rigore che – lo testimoniano le vite di questi ex studenti – ha consentito di emanciparsi dalle condizioni di degrado familiare e sociale dal quale alcuni di loro provenivano.

Uno studioso e un docente di tale livello non è riuscito a entrare in modo stabile nei ruoli dell’Università italiana. Un caso clamoroso di mancato riconoscimento del merito, un caso che se non ha impoverito troppo l’Università è soltanto perché il talento e l’impegno di Generali hanno indotto le istituzioni a coinvolgerlo costantemente in numerose attività, corsi e progetti sia dell’Università sia del CNR, ma che rimane un autentico e grave fallimento scientifico e civile di tali istituzioni.

Come si legge nelle Note biografiche che completano il volume, questo studioso ha accolto davvero sine ira et studio ciò che gli è accaduto, preferendo un comportamento freddo e razionale rispetto alle più che naturali reazioni emotive, anche e specialmente per salvaguardare i progetti che ha diretto e che tuttora dirige, come appunto l’Edizione nazionale delle opere di Vallisneri, facendo «un passo indietro» e accettando «di essere considerato una moneta di ottima lega sul terreno scientifico, ma fuori corso su quello concorsuale» (p. 1044).

Generali ha in questo modo esercitato quello «sguardo da lontano» del quale parla Marco De Paoli in un vivace saggio critico dedicato alla «ragione illuministica [e all]le magnifiche sorti». Uno sguardo che molto somiglia al «vivere da chierici» discusso da Walter Lapini, in un testo apparentemente anche assai tecnico, dedicato al capitolo 5.3 dell’Anonimo di Giamblico, ma nel quale emerge con chiarezza l’esigenza – dato che «l’accademia, come il dio aristotelico, non ama nessuno» (p. 772) – di difendere la sostanza e il senso del proprio lavoro scientifico al di là di ogni calcolo concorsuale e conformismo culturale.

Per usare una formula nietzscheana, fare della vita un «mezzo della conoscenza» e non «un giaciglio di riposo o la via ad un giaciglio di riposo, oppure uno svago o un ozio»[2]. Che per Dario Generali la vita e la conoscenza siano questo è dimostrato da tutto.

Qui vorrei addurre una sola testimonianza, la quale coniuga in modo davvero illuministico cultura e politica: il racconto di ciò che accadde in occasione di una mostra finanziata dalla Provincia e allestita a Milano nel 1989, con il titolo La cultura a Milano tra Riformismo illuminato e Rivoluzione. Su indicazione di uno dei maggiori critici d’arte italiani, Raffaele De Grada, l’allestimento della mostra venne affidato a Generali, coadiuvato da Vita Firenze. Durante l’allestimento accaddero molti significativi episodi, tra i quali quelli descritti in questa pagina:

Superato questo primo scoglio, Dario e Vita si trovarono però di fronte a logiche che all’inizio fecero fatica a comprendere e a modalità di spesa dei fondi a dir poco allegre. Emerse a un certo punto, in corrispondenza della primavera del 1989, la richiesta di finanziamento di una missione a Budapest di una delegazione provinciale, che i due però rigettarono come del tutto inutile rispetto alle finalità dell’iniziativa, sollevando anche in questo caso non pochi malumori. Più avanti emerse la necessità di disporre di una quarantina di bacheche delle dimensioni di solito utilizzate in quelle circostanze, che sarebbero costate un milione l’una. Dario chiese al proprio interlocutore dell’amministrazione cosa poi se ne sarebbero fatte delle quaranta bacheche e gli risposero che sarebbero state buttate via. La risposta lo scandalizzò non poco, perché una simile cifra corrispondeva all’Irpef pagata da sette o otto operai in un anno e in quanto non poté non avere il sospetto che le bacheche sarebbero state ritirate dalla ditta fornitrice e rivendute alla prima occasione, naturalmente non senza l’imbonimento usuale del funzionario di turno. Sapeva che all’Archivio di Stato di Milano erano conservate molte splendide bacheche ottocentesche in radica di noce, inutilizzate da tempo perché variamente danneggiate. Dario, attraverso un contatto che aveva all’Archivio, le chiese in prestito al direttore di quell’istituzione, le fece restaurare con circa quattro milioni, risparmiandone quindi più di 35, le utilizzò per la mostra e, alla fine, le restituì restaurate all’Archivio di Stato, che era un’istituzione pubblica, per cui non sprecò inutilmente neppure una lira, sollevando però anche in questo caso del malcontento.

L’episodio però più significativo fu quello relativo alla sua richiesta di preventivo a una ditta a conduzione familiare che veniva usualmente utilizzata per gli allestimenti. Dario aveva da tempo consegnato il capitolato dei lavori necessari da compiere e aveva chiesto il relativo preventivo, che però la ditta non gli stava fornendo. Avvicinandosi la data dell’allestimento della mostra iniziò a sollecitare con insistenza la ditta per avere il preventivo e, alla fine, affrontò personalmente il fratello che si occupava di questi aspetti, dicendogli che se non gli avesse in breve presentato un preventivo avrebbe escluso la sua ditta dai lavori per l’allestimento. L’artigiano, operaio semplice e operoso, si scusò e gli disse che nella richiesta di preventivo mancava una voce. Inizialmente Dario si stizzì, pensando che quel soggetto lo stesse prendendo in giro inventando una scusa assurda, visto che nel capitolato aveva inserito tutti gli interventi richiesti a quella ditta. Poi, quando stava per litigare e mandare al diavolo quel buon uomo, capì cosa intendesse per voce mancante: la somma da destinargli per “compensarlo” dell’assegnazione del lavoro a quella ditta. A quel punto Dario, tirato un lungo respiro per superare lo sdegno e l’imbarazzo di una simile situazione, rispose che era già retribuito dalla Provincia per il suo lavoro e che la ditta del suo interlocutore non avrebbe dovuto dargli alcunché. L’artigiano all’inizio restò incredulo, poi chiese conferma che davvero Dario non volesse nulla. Alla seconda conferma gli si allargò il volto in un sorriso compiaciuto, perché evidentemente chi lavorava sopportava a stento certe abitudini e certi ricatti: consegnò il giorno successivo il preventivo e poi, durante l’allestimento, tutti i membri della piccola azienda lavorarono con il massimo impegno, senza badare ad orari, e una volta restando sino a mezzanotte per completare l’allestimento. Sopperirono a tutti i problemi con la massima disponibilità, trasportando una volta a mano anche un pesantissimo busto in marmo senza battere ciglio, proprio perché quell’atto di rigore morale – che per Dario rappresentava la normalità – ai loro occhi apparve una straordinaria eccezione che li colpì profondamente (pp. 1048-1049).

Naturalmente nessun incarico pubblico di questo genere fu più affidato a Generali. Chi ha la fortuna di conoscerlo non si stupisce certo della naturalezza e inevitabilità di simili comportamenti. A vederla, questa persona potrebbe benissimo stare nel pieno degli eventi francesi dell’Ottantanove. Non però tra i gruppi più illusi sulla virtù degli umani ma tra quelli che univano e uniscono al disincanto sui tanti limiti della nostra specie una determinazione totale nel perseguire sempre il vantaggio dell’intero corpo sociale e mai soltanto quello di alcuni privilegiati.

NOTE

[1] Francesco Luzzini, in Aa. Vv., Sine ira et studio. Metodo e impegno civile per una razionalità illuministica.Scritti offerti a Dario Generali,a cura di F. Luzzini, Mimesis, Milano-Udine 2024, p. 14. I numeri di pagina delle successive citazioni dal libro vengono indicati nel testo, tra parentesi.

[2] F. W. Nietzsche, La gaia scienza, trad. di F. Masini, in «Opere», vol. V/2, af. 324, p. 186.

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