Marco Palladino (1993) è laureato in filosofia, presso l’Università Federico II DI Napoli, con una tesi dal titolo Trascendenza e malum mundi. Karl Jasperse Alberto Caracciolo. I suoi interessi di studio si rivolgono principalmente al rapporto tra filosofia e religione e tra filosofia e cinema. Di particolare interesse per la sua ricerca il dialogo con l’Oriente, come testimonia il saggio scritto per la rivista «Studi jaspersiani» sul rapporto tra Dōgen e Jaspers.
Nostal’gija
La nostalgia, stando all’etimo, è il dolore (άλγος) del ritorno (νόστος). Ma quale ritorno dolorosamente si ripresenta al chiarore oscuro della coscienza del poeta Gorčakov, protagonista della prima pellicola del regista russo lontano dal ventre della madrepatria Russia? È la nostalgia di ogni autentico poeta, la nostalgia dell’impossibile, dell’Origine di cui i versi sono sempre fragile e fallibile incarnazione. È quella nostalgia del «totalmente Altro», di cui parla Horkheimer, che solo nell’intimità della parola poetica rivela la sua inevadibile estaticità.
È un gioco di sovrapposizioni quello che Tarkovskij tesse nella sua penultima grande opera. A sovrapporsi, fino a lambire l’assoluta identità, sono l’esilio concreto del regista dalla Russia e l’esilio, universale, del poeta, di ogni poeta. Ossia, di ogni uomo che tenta, nella parola, di ricongiungere l’immanenza alla trascendenza.
Attraverso la grazia, l’estatica bellezza dei suoi piani-sequenza (poesia che è tempo e movimento), corroborata, qui, dalla fotografia di Lanci, Tarkovskij viviseziona la sua anima di poeta e dunque di esiliato. E, nel contempo, l’anima dell’Occidente, terra, per vocazione costitutiva, destinata all’esilio inevitabile del tramonto. Non è un caso che Gorčakov non ritrovi ristoro nella bellezza sensuale di Eugenia. La sua carne distoglie dalla ricerca disperata dell’impossibile. Egli trova conforto solo in Domenico (interpretato da Erland Josephson, protagonista de Il sacrificio, ultimo canto visivo di Tarkovskij), folle poeta che attende l’Apocalisse, la rivelazione delle cose ultime e prime. Il suo discorso, dinanzi alla folla basita che popola il Campidoglio, è animato dalla stessa carica eversiva dei profeti biblici. Il suo sacrificio rappresenta la crocifissione dell’ego e l’immolazione di una cultura incapace di ricondurre all’Origine, a quell’assoluto di cui ogni poeta sente, nelle viscere e nei versi, la profonda nostalgia. Ma per compiere il sacrificio, la soppressione dell’ego che vela l’oggetto del desiderio poetico, occorre il salto mortale della fede. Gorčakov che compie in vece di Domenico il rituale mostra lo sconfinamento del poetico nel religioso. La poesia, lo insegna Hölderlin, è sacrificio e anelito dell’assoluto. Solo chi sa che il canto è invocazione e preghiera può dire, con Domenico, che uno più uno non fa due, ma uno. Ma quell’uno non è statico, mortifera identità, immemore della differenza. Non è né la solitudine dell’uno né l’alienazione del due, ma la paradossale compresenza, nella carne della parola, di trascendenza e immanenza: non-due, non-uno. Allora, solo allora, quando si esperisce la non-dualità, la non-unità, nel fuoco bruciante della parola, si può «morire in levità».