Luca Tedoldi insegna Filosofia e Storia nei licei e si occupa di Teoria politica e Teoria dell'argomentazione. Da quasi dieci anni è impegnato  nel favorire le tecniche di dibattito nelle scuole; nel 2016 è entrato nella Rete Wedebate e ha diffuso il metodo World School Debate partecipando a tornei e convegni.

Recensione a: Guido Vitiello, Joker scatenato. Il lato oscuro della comicità, Feltrinelli, Milano 2025, pp. 176, € 17,00.

Chi avrebbe il coraggio di prendersela con la morale? Chi oserebbe tacere di fronte alla scoperta di una qualche sottile violenza malcelata? Lasciamo per ora da parte questi dubbi ed entriamo dentro l’agile ma coltissimo libretto di Guido Vitiello, Joker scatenato, uscito a febbraio per Feltrinelli.

Il riso non è libertario, ma reazionario e bellicoso, dice l’Autore. Smettiamola di cadere nella trappola di Michail Bachtin, critico letterario russo che associava emancipazione degli oppressi e comicità, perché in realtà la battuta di spirito è una dichiarazione di guerra che riesce a convincere tutti di non esserlo. Joker sarebbe la costante della società del tempo liberato dal lavoro e rimpinzato di spensieratezza e divertimento, un divertimento colorato dal sangue del sarcasmo, parola che nella sua etimologia evoca la lacerazione delle carni. Joker non è solo la nostra sintesi, perché in realtà attraversa tutte le fasi della cosiddetta società umoristica da ottant’anni a questa parte, ma negli ultimi decenni, finita la pacificazione delle sit-com, scatena la sua ingovernabilità nichilista, il suo fiele da soldato della morte che esce dalla gabbia ed imperversa rimbecillendo con l’arma, parola non casuale, dello scherno. Questo sociopatico senza riguardi per niente e nessuno inquina di sé tutto lo spirito del nostro tempo.

Al processo alla mentalità collettiva rovinata da Joker, alla battaglia contro un mondo fatto di baldoria e vacuità vengono convocati in tanti: teorici, drammaturghi, artisti, romanzieri, una pioggia di frecce contro l’immaturità delle facezie continue. Si va dalla teorizzazione di Roger Caillois, con la sua festa come salutare parentesi degli eccessi, al pittore Goya, con il suo “Il seppellimento della sardina”, per proseguire col sorriso spettrale di Psycho di Hitchcock. Poi appaiono l’anticonformista Rameau del libro di Diderot, l’antiautoritarismo dei “Canti di Maldoror” di Lautréamont, la figura dello shut, il buffone del folclore russo; tutti partecipi di una danza macabra che metterebbe in crisi come un terremoto inavvertito la società contemporanea. Un simile carnevale frastornante, un’analoga febbre illogica attraversò l’euforia prebellica dell’estate del 1914, ad un passo dal disastro del primo conflitto mondiale, ma anche gli orrori sovietici e quelli razziali del nazismo, con un Goebbels citato per il suo progetto di una comunità di schernitori che bullizzano la vittima.

Nel romanzo ottocentesco L’uomo che ride, di Victor Hugo, il protagonista, Gwynplaine, è vittima di una mutilazione che gli ha impresso sul volto un ghigno grottesco, tra l’altro somigliante a quello di Joker. Questa ferita provoca la risata aggressiva di molti, che si divertono a spese dei deboli. Con la forza di Hugo e delle teorie di René Girard, Vitiello rifiuta ogni sdrammatizzazione del riso, perché ormai abbiamo forzato i confini dell’esprimibile, consentendo dunque l’accesso e l’esalazione di demoni che non sarà facile arginare. Alla fine del terzo capitolo quest’accusa al comico lancia l’allarme della mancanza di catarsi e rielaborazione, in una società che s’illude di poter vivere dentro un perenne sabato carnevalesco. Nel capitolo successivo la posta in gioco diventa più politica e la denuncia affronta la transizione avvenuta tra la ridicolizzazione di tutto e l’indistinzione tra i re ed i buffoni. A forza di non prendere più nulla sul serio, finiamo per credere che ci governa debba essere soltanto simpatico.

Nel tentativo di trovare le radici di un percorso che giunge al successo dei politici farseschi che talora corrompono le cronache odierne, Vitiello parte dagli Stati Uniti, fine anni Venti: il comico Will Rogers, noto opinionista, già vicino all’amministrazione Coolidge, si gettò nell’avventura di una candidatura-burla, con un partito che sognava di cancellare tutte le fesserie. Qualcuno lo prese sul serio, ma lui scherzava. Poi, nel 1965 Pierre Dac, questa volta in Francia, annunciò la sua candidatura alle elezioni presidenziali francesi e propose l’abolizione della guerra, in virtù della proposta di non far incontrare mai i popoli, inoltre l’introduzione di una tassa sulle idee stupide (che forse avrebbe dovuto pagare per primo). Poi l’attore francese Coluche, che prima si candidò, lanciò qualche provocazione, poi nel 1981 si ritirò, dicendo che la sua candidatura lo aveva stufato. L’irresponsabilità assume pose tragiche e bizzarre insieme, come sa chi ha conosciuto il berlusconismo ed il grillismo ed oggi ne vede una ripetizione nella figura di Trump ed altri troll al potere; insomma: la “La tirannia dei buffoni”, come dice Christian Salmon. La rassegna prevede prima il nostro imperatore delle televisioni, inventore del pericolo comunista e della nipote di Mubarak, curiosamente il meno criticato dall’autore, anzi esaltato per le sue presunte competenze umoristiche migliori dei comici. Poi si passa al populista suo erede, ex comico di professione, che ha partorito molto poco dopo la fanfara dei suoi rivoltosi V-day; infine l’ultimo Joker alla Presidenza degli Stati Uniti. Il j’accuse di Vitiello si chiude sull’efficace immagine del gallodromo digitale, in cui chiunque sui social può beccare e duellare con gli sconosciuti tracciando gerarchie di potere e sentendosi tanto bellicosamente forte e migliore.

In generale questo saggio riesce con lucidità a segnalare i pericoli di una comicità dilagante e dispersa nell’iperconnessione, che non ha le virtù di contenimento dei luoghi chiusi. Funziona anche la critica all’attuale panem et circenses dell’intrattenimento volto alla distrazione, all’annichilimento della storia e di tutto ciò che di serio e drammatico accade. Meno condivisibile è la linea genealogica che getta nello stesso fiume derisione, grottesco, stand up comedy, ironia ed ilarità vacua. Il centone di teorie e tesi amiche fatica a tenere a bada il rischio dell’indifferenziato e finisce per cantilenare la paura con cui seleziona solo il lato distruttivo e terribile del ridere, come se tutte le volte che perdiamo il serio contegno dovessimo preoccuparci che da lì parta un lungo percorso che finirà per fare il gioco dei populisti e dei violenti. L’erudizione enumerativa non rallenta la discesa inevitabile nel pozzo, diciamo così, della dissolutezza, un piano inclinato in cui dalle beffe e dall’allegria si scivola necessariamente verso il nichilismo ed una sporca politica che la butta in caciara invece di governare.

In realtà si può dubitare che le incongruenze ridicole e gli smascheramenti dei Luciano di Samosata, Ariosto, Rabelais, Swift e Danil Charms siano i responsabili dell’attuale invadenza della commedia negli ambiti che non le si addicono. In questa giustizialista reductio ad violentiam ogni sorriso mostra gli incisivi e viene bollato come peccaminoso, un pizzicotto diventa una pugnalata e tutte le volte che si alza un sasso strisciano fuori serpenti. Tutto questo fare la morale attingendo ad una pioggia di fonti da Ancien régime bacchettone, comprese fantasie etimologiche e allusioni assurde (Vitiello ricorda che Chaplin e Hitler nacquero a quattro giorni di distanza), mi ricorda un racconto di Cechov, Morte di un impiegato, dove Ivan Dmitrič Červjakov starnutisce accidentalmente sul collo di un generale durante una rappresentazione teatrale e, preso dal panico per aver offeso un superiore, cerca ripetutamente di scusarsi, ma le sue scuse diventano sempre più insistenti e fastidiose e l’ossessione  per l’incidente lo portano ad un tale parossismo che alla fine muore per lo spavento. Non ogni battuta è una battaglia. Ecco, si diceva all’inizio: d’accordo, teniamo gli occhi aperti sul lato oscuro del dileggio, non dimentichiamo di cosa è surrogato la risata, ma neanche che è solo un surrogato, che è un fluidificatore sociale e non un cannone, che serve a scaricare la tensione, non ad aizzarla.

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