Piero Buscioni (1973) si è laureato in Storia della critica e della storiografia letteraria presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. Attualmente insegna lettere nelle scuole superiori. Aforista, poeta ed autore di saggi, ha scritto su riviste, quali «Erba d’Arno», «Nuova Antologia», «Hebenon», «La Clessidra», «Caffè Michelangiolo». Nel 2003 ha fondato, con amici, la rivista trimestrale «il Fuoco». È collaboratore de «il Portolano». Suoi aforismi sono stati scelti da Guido Ceronetti per il quotidiano “la Stampa”. Ha pubblicato la monografia Il rabdomante delle acque di Siloe. Studio su Arrigo Levasti (2000), l’antologia Tributo minimo al novecento italiano in sedici schegge (2004), la raccolta poetica Fa’ luce ti prego fino all’anima (2009), il saggio Parole per un altro amore. Scritti sul cinema (pref. di M. Guzzi, 2013), le raccolte Aforismi per la fine del mondo (2018; vincitore del Premio internazionale per l’aforisma “Torino in sintesi” – sezione editi) e Tra cielo e terra (pref. di A. Castronuovo, 2021).
Un incisore di sentenze inaudito ed estremo ha abitato nelle viscere dell’America Latina, traversando in penombra il secolo ventesimo, tra il 1913 e il 1994. La Colombia è stata la sua patria, ma soltanto anagrafica; poiché egli, oltre ad essere europeo d’elezione, dimorava soprattutto in interiore homine. Un castello inespugnabile era la sua anima, o espugnabile soltanto da Dio, e a nessuna meta egli veramente anelava fuorché al cielo. Il suo nome è Nicolás Gómez Dávila.
Non cercò in alcun modo la fama, e la fama non cercò lui. Conterraneo di Alvaro Mutis – uno peraltro dei suoi non molti amici – e soprattutto di Gabriel García Márquez, era destino che in quanto a fama, o forse sarebbe meglio dire successo, non avesse scampo, benché lo stesso García Márquez, che era senz’altro un onest’uomo, riferendosi a Gómez Dávila una volta ammise: «Se non fossi comunista, penserei in tutto e per tutto come lui». A questo proposito, osiamo chiederci se davvero Gabriel Garcia Marquez pensasse. Ovvero, pensasse nel senso più radicale del termine. Qualche dubbio ce l’abbiamo sempre avuto, e ancor più che sull’autore di Cent’anni di solitudine sui suoi innumerevoli transcontinentali idolatranti lettori. Comunque sia allibisce e insieme seduce la risposta senza parole e senza appello che Gómez Dávila porge al suo connazionale onusto di gloria: fra i circa trentamila libri che costituivano la sua sterminata biblioteca, di Garcia Marquez non ne figurava neppure uno. Un’intransigenza che certamente può urtare, ma che allo stesso tempo non lascia indifferenti.
Gómez Dávila nasce ricco e muore nelle stesse condizioni a Bogotà, e nella capitale colombiana trascorre per intero la sua tacita esistenza, ad eccezione di un giovanile apprendistato parigino – quando respira in loco un po’ della vecchia Europa –, rigorosamente svolto da autodidatta, per disprezzo della cultura accademica: «Quanto maggiore è l’importanza di un’attività intellettuale, tanto più ridicola è la pretesa di certificare la competenza di chi la esercita. Un diploma di dentista è degno di rispetto, uno di filosofo è grottesco». Tra i due eventi cruciali della venuta al mondo e della dipartita dal medesimo, Colacho, come lo chiamavano gli amici, si tumula felicemente nella sua villa bogotana in stile Tudor, il cui cuore è la grande biblioteca. Il “certosino dell’altopiano” – Bogotà è infatti a 2630 metri d’altitudine – legge, scrive, medita, prega. Si guarda bene dall’intraprendere qualsivoglia attività; mondanamente parlando altro non conosce che la passività. Nel corso degli anni rifiuta l’incarico di primo consigliere del presidente colombiano e di ambasciatore a Londra. Si limita a sostenere Alberto Lleras per rovesciare la dittatura di Rojas Pinilla. Pur avendo tutti i mezzi a disposizione non fa nulla per promuovere la propria opera. Non promuove e neanche si muove, nemico dell’erranza e della frenesia. Da uomo nobile semplicemente permane; nella sua casa, nella sua biblioteca, nella sua anima. Dalla sua villa esce quasi soltanto per recarsi alla Porciuncula, la chiesa del convento francescano, peraltro ubicata nella stessa via. Sta laddove il destino l’ha collocato. Tagliandosi fuori dal mondo; o meglio, tagliando il mondo fuori da sé.
Lettore maestoso e universale che, secondo le sue stesse parole, legge per scoprire ciò che va eternamente riletto e che, non lontano dalla fine, risolve di procurarsi una grammatica danese per approfondire Kierkegaard, Nicolás Gómez Dávila chiama alla mente Le Philosophe lisant di Chardin, da cui George Steiner prende le mosse per un suo mirabile saggio. Tanto il soggetto del pittore francese quanto l’aforista colombiano sono agli antipodi del common reader, del lettore comune; per lui, come per il filosofo che legge di Chardin, la lettura è fondamentalmente un atto ontologico, un mistero ed una rivelazione dell’essere. Leggere davvero è lasciare che l’altro ci trafigga, disporre se stessi ad un’epifania. E, ca va sans dire, anche un erudito può essere in questo senso un common reader.
L’opera di Gómez Dávila è un paese remoto e senza uguali. Quotidianamente egli tesseva la sua frase, i suoi asserti acuminato e perenne, a scalfire l’edace dominio del tempo e a testimoniare la grazia, il fuoco invisibile che statuisce e santifica il visibile. Questo diuturno, solitario, aristocratico, monocromo ricamo sull’essere nel mondo si chiama Escolios a un texto implicito. Glosse, chiose a un testo implicito, come se lo scrittore tracciasse l’arcana artografia di un continente sommerso, di una atlantide del pensiero, che lasci affiorare luminescenti lembi di terra sull’ottusa superficie delle acque, gli uni con gli altri irrelati eppure invincibilmente fraterni. Precedono gli Escolios – editi in Colombia tra il 1977 e il 1992 e semplicemente suddivisi in Escolios a un texto implicito, Nuevos escolios a un texto implicito e Sucesivos escolios a un texto implicito, titolo emblematicamente immutato di un’opera che non mira ad essere, per definizione, lineare ma concentrica, senza un principio e senza una fine – due libri in qualche misura propedeutici, Notas e Textos, nel secondo dei quali la prosa respira di più, e la sovrastante vocazione aforistica di Gómez Dávila cede misuratamente il passo a una scrittura più distesa ed argomentante. A fianco dell’opera principale vedono la luce su rivista due brevi saggi: De Jure e un bruciante manifesto per solitari, un bando per lettori lontani o anche lettori impossibili: El reacionario autentico. Risuonante di classica gravità e chiarezza, questo scarno, lapidario trattato ci spalanca le porte del pensiero gomezdaviliano:
Se il progressista si volge al futuro, e il conservatore al passato, il reazionario non misura i propri desideri con la storia di ieri o con la storia di domani. Il reazionario non plaude a quanto porterà l’alba prossima, né si aggrappa alle ultime ombre della notte. La sua abitazione si leva nello spazio luminoso in cui le essenze lo chiamano con le loro presenze immortali.
Il reazionario sfugge alla schiavitù della storia perché ricerca nella selva umana l’orma di passi divini. […] Il reazionario non è il sognatore nostalgico di passati conclusi, ma il cacciatore di ombre sacre sulle colline dell’eternità.
Per inciso, i rari saggi non aforistici (o non integralmente aforistici) di Gómez Dávila, ci inducono a confessare un vago rimpianto per ciò che forse lo scrittore latino americano avrebbe potuto partorire se non si fosse come splendidamente rifugiato nello spazio miniaturizzato della sentenza, della glossa, dell’apoftegma, ancorché spesso fulminante. Spesso, non sempre. A volte i suoi escolios – che egli stesso non definisce aforismi ma “tocchi cromatici di una composizione pointilliste” – suonano vagamente facili, o troppo impressionistici; o ancora riescono preziosi cristalli di cultura senza però il lievito del genio. Certo, non è semplice essere geniali o anche soltanto ispirati per più di diecimila volte, quanti sono gli escolios di Gómez Dávila; per questo sarebbe forse opportuno, di tanto in tanto, rinunciare a scrivere. O tentare altre vie.
Gómez Dávila è dunque il reazionario autentico. Patrizio, misoneista, altero reagisce contro l’ordine del mondo, soprattutto moderno. Ma la vera restaurazione che vagheggia è quella finale: l’apocatastasi. Il suo disprezzo per la democrazia non è politico, immanente; esso trascende l’hic et nunc. Con tale parola egli designa non quella che è l’unica prassi politica a conti fatti possibile ma, essenzialmente, «una perversione metafisica». È il dominio dei più, il regno dei numeri e della quantità. L’avernale egualitarismo, l’omogeneità mostruosa in cui «l’impronta del distincti non discreti della società angelica sarà cancellata dal discreti non distincti della società infernale». Ciò che “gli uomini della caverna” («il mondo moderno è una sollevazione contro Platone») chiamano progresso egli chiama degradazione, smottamento, nulla. L’immemoriale sapienza gomezdaviliana incanta, affascina, possiede. Ci parla oltre la cortina di mota, di vacuità e di sangue del secolo. Ci fa sentire a casa. La sua incorruttibile frase, dura come pietra e tremolante come foglia, è un viatico per i nostri giorni. Non è «l’abilità che seduce ma il lento e fermo passo dello spirito». Solo quando la sua voce di «angelo prigioniero nel tempo» inclina all’esaltazione di una classe sociale, di una nobiltà non soltanto dell’anima, o indulge a dogmaticamente magnificare il cattolicesimo, il nostro amore si stempera. Ma soltanto per il fugace balenare di una frase.
Gómez Dávila scrive dall’alto. E, dall’alto, scrive di tutto. Scrive classicamente, mirando a ricostituire, religiosamente, il tutto. La sua parola è solenne, verticale e insieme cristallina, limpidissima:
I grandi libri hanno la cortesia di re magnanimi: accolgono il lettore come un loro pari. Lo scrittore mediocre cerca di umiliarci per nascondere la sua bassa posizione.
La sua più profonda vocazione è quella di romantizzare, risacralizzare il mondo a dispetto del deserto che cresce. È il destino di ogni poeta.
Citare Gómez Dávila è esaltante ma anche doloroso. Perché vorremmo scrivere l’escolio di ogni suo escolio, chiosare ogni sua glossa, essere i piccoli scoliasti del grande scoliaste. E tuttavia poche sono le sentenze che ci è dato di riportare. Impossibile scegliere le più belle, perché le più belle sono troppe. Quindi trascegliamo, ma altresì ci affidiamo al caso, che naturalmente non esiste, e alla subitanea ispirazione.
Sprezzante di quella catastrofica inezia che è l’attualità, Gómez Dávila dialoga con i secoli. Una moltitudine di grandi siede alla tavola di questo saggio insolente e respira nelle sue parole, come nei suoi silenzi. Egli pensa sub specie aeternitatis. L’inchiostro versato dalla sua penna è iperuranio. Il meramente umano è destinato al naufragio; cadere in ginocchio è la nostra sola potestà: «[…] Per chi si prostra il mondo fluisce in una segreta primavera». Il seme dello splendore e del miracolo è dentro di noi, occultato nelle nostre latebre:
Si può trascendere il soggettivismo solo assumendolo in modo totale.
Quando il soggetto ripiega su se stesso e s’immerge nel folto di sé, un rumore d’acqua viva lo accoglie nella penombra. E là dove si aspettava di trovare la solitudine estrema, gli si rivela un’oggettività ribelle, un’alterità irriducibile, una trascendenza vittoriosa.
Dall’assunzione della soggettività nascono la storia e Dio.
Cattolico reazionario, preconciliare, assoluto, scolpisce pensieri luminosi ed immoti come icone ma anche caustici ed ardenti come specchi ustori:
Il Cristo dei moderni è il figlio di un falegname che la sua eloquente rivendicazione della giustizia sociale eleva a prototipo dell’intelligencija rivoluzionaria.
O, alternativamente, è il simbolo mitico dell’umanità divinizzata.
Ma che ottusi quei lettori per nulla intimiditi da questo strano personaggio che percorre le lande evangeliche come una burrasca notturna.
L’agitatore crocifisso assomiglia più al Pantocratore bizantino che al modello delle assistenti sociali.
Fratello spirituale di Cioran, quantunque circonfuso di una granitica adamantina fede, questo scrittore rapsodico ed umbratile si concede perfino il lusso di intagliare aforismi più krausiani che gomezdaviliani:
Credere che le nostre convinzioni siano determinate esclusivamente dall’interesse personale si trasforma in una convinzione capace di determinare i nostri atti in maniera tale che il movente di ogni convinzione diventi l’esclusivo interesse personale.
Non c’è feticcio della modernità che resista alla pacata furia di Gómez Dávila. Le sue proposizioni si ergono come roghi silenziosi in cui tutto ciò che deve bruciare inesorabilmente brucia: l’uomo persuaso di se stesso che per «sfidare Dio gonfia il proprio vuoto»; l’animale razioide e calcolante; lo sciocco il cui tempo preferito è il futuro; l’automa spermatico che si crede libero perché asservito ai propri istinti; l’individuo massa; i mediocri, che come le zarathustriane mosche del mercato congiurano contro ogni grandezza; lo scientista, che non avendo alcun talento si è dato alla scienza; l’intellettuale che non persegue la verità ma il lessico filosofico alla moda; gli innumerabili blateranti cretini ché «la maggior parte delle persone non ha diritto ad esprimere opinioni ma solo ad ascoltarle»; l’egualitario aduso a tagliare le teste che sporgono troppo; l’ateo che se non pone fine ai suoi giorni non può ritenersi coerente; il nichilista, lo stupido, il cinico, queste eminenze del nostro tempo. E molti altri ancora. Basta guardarsi intorno.
I veneratori dell’uomo sono in realtà i suoi dispregiatori. Al contrario di Gómez Dávila, che dispregia perché dell’uomo conosce la fralezza; sa la finitudine, il male, la miseria. Perché dell’uomo sa la gloria.