Alice Delli Pizzi (1995) ha conseguito la laurea magistrale in Storia e Civiltà all’Università di Pisa nel 2021. I suoi principali interessi di studio sono la storia della Prima Repubblica e la storia culturale.
Recensione a: I. Thibault, Sesso e genere. Uomini e donne nella società liquida, trad. it.di G. Giaccio, Diana edizioni, Napoli 2017, pp. 106, € 13,00.
Il vit dans le triomphe et le défi. Il défierait le monde entier, mais d’abord il défie l’objet qu’il admire et qu’il envie – ou plus exactement, qu’il admirait, car, désormais juché sur les sommets, il n’a plus rien ni personne à envier ; […] et son triomphe de s’appuyer sur une irrésistible illusion d’invulnérabilité[1].
Vive di trionfo e di sconfitta. Sconfiggerebbe il mondo intero, prima che sconfigga l’oggetto che ammira e invidia – o più precisamente, che ammirava, perché, ormai arroccato sulle vette, non ha più niente né nessuno da invidiare; […] e il suo trionfo di fare affidamento su un’irresistibile illusione di invulnerabilità.
Così Racamier, psicanalista e fra i più famosi studiosi del disturbo narcisista della personalità, descrive il soggetto che ne è affetto: perennemente in cerca di qualcosa, l’unica cosa che in quel momento può accenderne il desiderio e farlo sentire vivo, ma al contempo la stessa cosa che egli teme di più, in quanto appunto rincorre un’impossibile «illusione di invulnerabilità».
La realtà e l’oggetto dunque esistono ancora per il narcisista, ma non hanno che «il peso delle piume». Allo stesso modo, secondo Thibault Isabel, il soggetto, sotto il regime neoliberale tardocapitalista, non è in grado di concepire alcun limite per sé stesso e per il suo desiderio, che deve essere soddisfatto continuamente da nuovi oggetti, in un circolo vizioso che si autoalimenta grazie alla suggestione del consumismo e all’illusione di risorse infinite.
Nell’ambito del dibattito sul genere, tale condizione assume ancora più rilevanza, in quanto si verificherebbe (anche) perché la formulazione filosofica del soggetto data dalla teoria di stampo statunitense sull’argomento concepisce gli individui come tutti fondamentalmente uguali l’uno all’altro, teorizzando quindi le differenze date da genere e sessualità come puramente accidentali, determinate autonomamente dagli individui stessi. Ponendo gli individui come sfere autonome e autosufficienti il desiderio dunque necessariamente si riverserebbe sugli oggetti: tale è la conclusione a cui si arriverebbe dalle basi poste da quello che Isabel definisce femminismo universalista.
Il dibattito sul genere ha acquisito popolarità nelle accademie statunitensi sin dagli anni Settanta, ma ha raggiunto l’Europa e i vari dibattiti nazionali solo molto più recentemente. In Francia in special modo a partire dal 2013, quando Najat Vallaud-Belkacem, all’epoca ministro dei diritti delle donne, volle istituire un “abbecedario dell’uguaglianza”, in francese “ABCD de l’égalité”, un corso di parità di genere organizzato per le scuole materne per combattere le discriminazioni sessuali (poi cancellato l’anno dopo [2]).
Alla base del femminismo universalista c’è infatti una visione “post-strutturalista” della società: le dinamiche secondo le quali una comunità si regola e si organizza sarebbero, secondo questa visione, in perenne evoluzione e continuamente confermate solo grazie all’acquiescenza dei membri di tale comunità. Portando all’estremo tale ragionamento, si arriverebbe alla conclusione per cui conoscere i meccanismi di funzionamento delle società passate non serve né alla comprensione delle società del presente, né per un’efficace azione politica.
Anuratha Gandhy, femminista e membro del Comitato Centrale del Partito Comunista indiano, aveva allo stesso modo descritto quello che lei definiva femminismo liberale: il problema del (neo)liberalismo è appunto il suo rifiuto della storia[3]. In tal modo il soggetto si trova tuttavia a soffrire di quella che Mark Fisher ha definito impotenza riflessiva[4]: il soggetto vive in un eterno presente e non è più in grado di riflettere sulla società che lo circonda né sulla sua evoluzione.
Tramite una ricostruzione storica delle dinamiche economiche e sociali fra Medioevo ed epoca moderna Isabel dimostra invece come nelle società più antiche le differenze sessuali fossero sì meccanismi di oppressione ma anche struttura portante dell’agire sociale. La comparsa delle fabbriche a partire dal XIX secolo ha infatti causato la progressiva scomparsa dei mestieri e dunque la necessità di accettare un’attività salariata esercitata fuori dal nucleo domestico. La sfera economica era una volta considerata privata, in un intreccio con la sfera domestica (ad esempio durante il Medioevo, quando il nucleo familiare viveva delle proprie attività e barattava i beni in eccesso) che Karl Polanyi ha definito embeddedness. L’evoluzione dell’economia ha innescato un processo di differenziazione fra queste due sfere, allo stesso modo in cui si è passati, per quanto riguarda i due sessi, da un equilibrio fra polarità complementari a due sfere completamente estranee e in conflitto fra loro.
Secondo Isabel, questo secondo processo è stato causato da un abbandono dei meccanismi di autoregolazione della comunità e delle mitologie, che erano basati su sistemi di simboli e rimandi corrispettivi (sole/luna, freddo/caldo, secco/umido), sui quali si modellavano le differenze culturali fra uomini e donne e che si sono evoluti con il tempo. La consapevolezza di questa evoluzione permette la consapevolezza del fatto che non esistono “la Donna e l’Uomo”, ma una moltitudine di individui diversi fra loro, siano queste differenze biologiche o determinate culturalmente. Le culture tradizionali accordavano un valore centrale all’idea di complementarità dei sessi, che pertanto non erano visti come l’uno superiore o inferiore all’altro, anche se all’atto pratico la condizione femminile poteva risultare svantaggiata ad un occhio contemporaneo.
Il simbolico è definibile come una dissociazione fra significante e significato, un processo dunque per il quale un segno diventa rimando per qualcosa di altro, trascendendo la realtà: negando il simbolico, accettando come reale solo ciò che ci si trova di fronte nell’immediato, quindi rifiutando la mediazione della società e della comunità in cui viene al mondo come individuo, si nega una realtà che vada oltre i limiti della propria percezione. Il soggetto smette di confrontarsi con la realtà come estranea al Sé, come oggetto su cui non ha infinito potere, e regredisce allo stadio infantile e narcisistico. Rifiutando l’esistenza di un principio di autorità ultima che non sia il soggetto, vale a dire un oggetto super-partes che governi di modo che a governare non sia l’Io, viene a mancare il riconoscimento dei propri limiti e dei limiti posti dalla realtà che ci circonda: di qui, infatti, la necessità della nozione del mercato autoregolantes[5].
Per Thibault Isabel è dunque necessaria la rivalutazione di una struttura binaria non prescrittiva, cioè una struttura di significati che prescinde dall’effettiva esistenza ontologica di “assoluti” maschili o femminili. Cancellando, nella coscienza collettiva, ogni differenza innata fra gli individui, il soggetto perde infatti la capacità di riconoscerne un altro come differente da sé, reindirizzando appunto il desiderio piuttosto verso gli oggetti, anche grazie alla capacità di adattamento del capitale che porta alla nascita di nicchie di mercato sempre nuove.
In che senso, quindi, rivalutare il significante? Seguendo il ragionamento di Isabel, che si accosta piuttosto ad un femminismo da lui definito differenzialista, si arriva alla conclusione che è necessario accettare le differenze esteriori (i significanti) e il fatto che alcune di loro siano innate, facendone non una gerarchia, ma una rivalutazione del pluralismo. Allo stesso modo, ad esempio, Alain de Benoist parla dell’importanza di percepire l’identità non come “essenza”, ma come “sostanza”:
è legittimo a mio parere voler difendere e conservare la propria identità. Tuttavia bisogna interrogarsi sul significato di questa parola, che non deve ridursi a slogan o a fantasmi. L’identità non è essenza ma sostanza. Non è qualcosa di immutabile, ma ciò che caratterizza il nostro modo individuale di cambiare. Infine, essa è indissociabile da un racconto, da una narrazione attraverso la quale il soggetto costruisce se stesso mediante ciò che ha ereditato e ciò che ha scelto. Le stesse identità ereditate sono oggi delle identità scelte, nella misura in cui esse sono operanti se non per la parte che si accetta o in cui ci si voglia riconoscere[6].
Se ne deduce dunque che la rinuncia a bagagli culturali che sono sia ereditati che appresi (ma di cui non bisogna essere schiavi) porta ad un’omologazione fra gli individui, che possono autonomamente fare e disfare ogni aspetto della propria narrazione di sé, tranne quella di essere soggetti al regime capitalista. Il ruolo delle parole nella formazione dei costrutti culturali è fondamentale anche nel lavoro di uno dei principali teorici americani dello studio della comunicazione, James Carey, considerato uno dei padri fondatori dei cultural studies. Egli descriveva la vita come «una conversazione. Quando ci si unisce alla conversazione, sta già andando avanti da un po’; tentiamo di coglierne il punto (the drift of it); la abbandoniamo prima che finisca»[7].
[1] P. Racamier, Les perversions narcissiques, Éditions Payot & Rivages, Paris 1992.
[2] Les ABCD de l’égalité: un abandon symbolique, consultabile su https://www.inegalites.fr/Les-ABCD-de-l-egalite-un-abandon-symbolique
[3] A. Gandhy, Philosophical trends in the feminist movement, CreateSpace Independent Publishing Platform 2016
[4] M. Fisher, Realismo capitalista, Produzioni Nero 2018.
[5] R. Barthes, L’impero dei segni, Giulio Einaudi Editore, Torino 1984.
[6]Intervista di Michelangelo Cimino ad Alain de Benoist, consultabile su https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=7087
[7] Cit. da G. Stuart Adam in Foreword, J. Carey, Communication as culture, Routledge, London 1992.