Federico Magi si è laureato in Scienze dell’educazione alla Pontifica Università Auxilium con una tesi sul fondatore dell’Antroposofia Rudolf Steiner. Nel 2006 consegue l’attestato in critica cinematografica alla scuola di cinema “Sentieri Selvaggi” e nel 2009 supera l’esame da giornalista pubblicista. Ha collaborato col "Secolo d’Italia" e con alcune riviste occupandosi quasi esclusivamente di critica cinematografica e letteraria. Attualmente è educatore e redattore del portale di critica letteraria Lankenauta.
Una vita a volte non basta per chi, come Franco Battiato, ha scelto di viverla in costante ricerca. Una ricerca profonda, consapevole, a tratti addirittura illuminata, di qualcuno o qualcosa che andasse oltre la mera contingenza del presente; oltre la transitorietà terrena, le regole imposte da una società e da un’epoca la quale, per quanto apparentemente più libera di altre che l’avevano preceduta, gli mostrò ben presto le gabbie e i limiti che una personalità come la sua non era disposta a sopportare. Ebbene questi limiti Battiato li ha disinvoltamente aggirati e a volte ampiamente superati, grazie alla sua musica, anzitutto, ma non soltanto. Perché Franco Battiato è stato – fa terribilmente “strano” parlarne al passato – sì un grande musicista, ma anche, e direi soprattutto, un appassionato sperimentatore e ricercatore, a suo modo un abile divulgatore, che proprio attraverso il formato canzone è riuscito far coesistere l’antica sapienza di mondi lontanissimi con la cultura popolare, i viaggi interstellari con la banalità del quotidiano.
Difficile, peraltro, non essere banali o ripetitivi rispetto a tutto ciò che si è letto, sentito e visto in queste ore, nel voler celebrare la vita e l’arte dell’artista siciliano, a così breve distanza dalla sua morte. Difficile perché ricordare un caro estinto è al contempo stucchevole e doloroso, a maggior ragione se il destinatario di cotanti pensieri e parole vive, e vivrà ancora lungo, nell’immaginario di un popolo intero. E allora forse è bene affidarsi alle emozioni, alle sensazioni e ai ricordi, perché chi vi parla ama Franco Battiato da quando era bambino, ma anche perché di emozioni il musicista catanese ne ha regalate un po’ a tutti; volenti o nolenti, testimoni del suo lungo tragitto artistico. Un percorso che lo ha visto partire da Ionia, un paesino della Sicilia, per arrivare a Milano, col sogno di viver di musica, per ritornare, come artista affermato, nella sua amata isola, a Milo, alle falde dell’Etna, luogo in cui ha concluso la sua esistenza terrena. Un percorso circolare, a ben guardare, forse in ossequio alla sua visione ciclica del tempo e della vita, presto interiorizzata dalle dottrine orientali e da alcuni mistici d’occidente, che sono stati per lui immancabili riferimenti restituiti costantemente, sovente in chiave ludica e popolare, altre in forma colta e spirituale, nelle sue canzoni.
Eviterei volentieri la cronistoria dettagliata della sua lunga carriera artistica, facendo un atto di fede nei confronti delle conoscenze e della “adesione alla causa” del lettore, ma qualcosa bisogna pur dire in merito, ancorché fuggevolmente. Negli anni in cui Franco Battiato lanciò sul mercato, con scarsi ritorni di vendite, i suoi dischi sperimentali (1972-1978: Da Fetus a L’Egitto prima delle sabbie) era già in possesso di un vasto bagaglio culturale che annoverava, tra gli altri, letterati e filosofi come Proust, Nietzsche, Schopenhauer, Aldous Huxley, compositori come Karlheinz Stockhausen, ma fu l’incontro con un libro in particolare che gli cambiò l’esistenza: Frammenti di un insegnamento sconosciuto. Nell’opera in questione P.D. Ouspensky espone le dottrine di G.I.Gurdjieff, un sistema di insegnamenti che mirano a migliorare la vita dell’uomo.
Gurdjieff affermava che l’uomo contemporaneo (siamo agli inizi del XX secolo) vive in uno stato di sonno o ipnosi, come una macchina mossa da comandi o azioni che egli stesso ignora. Bisogna dunque prendere coscienza delle proprie debolezze, ma anche dei propri effettivi poteri, attraverso esercizi quotidiani, sovente complicati e pericolosi, cui si fa obbligo di non venir meno. Questo è il “prezzo” che l’uomo deve pagare per arrivare ad un armonico sviluppo della propria essenza. Ouspensky fu per otto anni discepolo di Gurdijeff, e nel libro spiega passo dopo passo la dottrina e i relativi esercizi quotidiani da sostenere. Franco Battiato cominciò a seguire con metodo tali insegnamenti, che gli aprirono la porta su nuovi mondi.
Senza dilungarsi troppo oltre sulla questione, è bene considerare questo primo incontro col misticismo la porta d’accesso dell’arte del Battiato a venire. Nel 1979 c’è dunque la svolta artistica, innescata e favorita dalla collaborazione con un grande compositore come Giusto Pio, preceduta da questa sua eloquente affermazione: «La vera musica classica del nostro tempo è il pop». Di quest’anno è infatti il suo primo disco pop, L’era del cinghiale bianco, nel quale la via aperta dal misticismo gurdjieffiano si accompagna al sufismo, alla tradizione celtica e alla sapienza estremo orientale. È sufficiente scorrere i titoli per capire il nuovo Battiato, tanto che possiamo incontrare, in questo inusuale viaggio nel tempo e nell’ignoto, Agartha e il Re del Mondo, che trae ispirazione da Bestie, uomini, dei, di Ferdinand A. Ossendowski, ma anche, e direi soprattutto, dall’opera omonima di Rene Guénon, il quale fa capolino anche in Magic Shop, traccia nella quale vi è una critica esplicita alle derive consumistiche che si celano dietro la New Age. Il disco chiude sulle note della splendida Stranizza d’amuri, cantata in strettissimo dialetto catanese.
Se L’era del Cinghiale Bianco fu una sorta di rinascita artistica in chiave mistico-pop per un rinvigorito Battiato, sarà La voce del padrone, terzo album della nuova era, datato 1981, a segnare il vero punto di svolta non solo della vita del cantautore siciliano, ma anche – con estrema sorpresa di tutti, dai media influenti alla gente comune – della musica leggera italiana. Si può ben affermare oggi, nell’anno in cui si è celebrato il quarantesimo compleanno del disco in questione, che La voce del padrone è un’opera unica e irripetibile, tanto che nemmeno lo stesso Battiato riuscì a partorirne una altrettanto efficace nell’effetto che riuscì a restituire. Il vero e proprio “miracolo” che riuscì a Battiato, nell’assemblare un’opera simile, non fu tanto lo strabiliante ritorno economico (fu il primo disco che riuscì a superare, in Italia, il milione di copie vendute), quanto l’esasperare il connubio misticismo-cultura nazional popolare in una cornice pop dall’effetto ipnotico e ridondante, ricca di messaggi subliminali, giochi di parole e nonsense da fare invidia anche ai maestri delle patrie lettere, oltre che agli artisti al tempo sulla ribalta.
La voce del padrone fu un atto rivoluzionario, colto, sottilmente ludico e interclassista, immaginato per un uditorio vasto e variegato. Ciò accadde, anche oltre ogni più rosea aspettativa dello stesso Battiato, tanto che ancora oggi è probabilmente l’album di musica leggera italiana più ascoltato, conosciuto e canticchiato di questi ultimi 40 anni. Anche in questo caso, è inutile andare a scavare all’interno delle singole tracce. Bastano i titoli (Bandiera bianca, Centro di gravità permanente, Summer on a solitary beach…), e arrivano presto alla mente immagini e ritornelli, in cui convivono armoniosamente Omero e Adorno, i Rolling Stones e Bob Dylan, la dinastia dei Ming e gli Indiani d’America. Dal 1979 al 1993 la vena mistico-popolare di Battiato ispirò album davvero rimarchevoli, tra i quali spiccano Orizzonti perduti (1983), Mondi lontanissimi (1985) e Fisiognomica (1988), in cui è contenuta la splendida E ti vengo a cercare, inno ad un amore assoluto, carnale e spirituale, al contempo immanente e trascendente.
A partire dal 1994 vi è una nuova svolta artistica, ispirata dall’incontro col filosofo siciliano Manlio Sgalambro, il quale divenne l’autore dei suoi testi. Testi che risulteranno all’ascolto più criptici nei contenuti, e pertanto meno decifrabili, accompagnati però da nuove esplorazioni musicali, più elettroniche e rock, che si condensarono efficacemente in due album come L’imboscata (1996), da cui estrasse uno dei singoli più noti e celebrati della sua intera produzione (La cura), e Gommalacca (1998). Tra 1999 e il 2008 Battiato fece uscire anche tre dischi di cover, condite da un esiguo numero di inediti (Fleurs, Fleurs 3, Fleurs 2), contenenti canzoni di cantautori del passato a lui particolarmente cari. In questi album si distinguono, in particolare, gli splendidi riarrangiamenti di due perle di Fabrizio De André, come La canzone dell’amore perduto e Amore che vieni, amore che vai, Aria di neve di Sergio Endrigo, Impressioni di Settembre della PFM, Se mai di Charlie Chaplin, Ritornerai di Bruno Lauzi, Il venait d’avoir 18 ans di Dalida e Sepideh Raissadat, più una suggestiva rilettura de L’invito al viaggio di Baudelaire. L’omaggio che in queste tre opere Battiato tributa loro dimostra una volta di più quanto l’artista catanese fosse grato a chi, nel tempo, aveva influenzato la sua arte e la sua vita.
A ben guardare, la stessa identica disposizione che aveva avuto rispetto a mistici, filosofi e letterati che avevano ispirato i suoi testi, tanto da dimostrare coi fatti, e non per puro snobismo, il motivo per il quale avesse sempre rifiutato l’appellativo “Maestro”. Maestro Battiato non si sentì mai, nemmeno nell’ultima parte della sua vita, quando avrebbe avuto i titoli e le competenze per rivendicare tale riconoscimento, considerato il livello scadente degli intellettuali italiani. Egli in fondo sì sentì sempre un discepolo, semmai un sapiente divulgatore delle tante influenze interiorizzate nel peregrinare tra uomini, culture e mondi; uno sperimentatore di linguaggi da sincretizzare e restituire in una sostanza il più possibile adatta alla forma canzone, alla comprensione dei più.
È forse questo il più grande lascito di Franco Battiato ai posteri, questa sua indubbia capacità di tradurre in forma più semplice e interiorizzabile la complessità dell’esistenza. L’ultimo disco registrato in studio dal cantautore siciliano, Apriti Sesamo, seppur distante quasi un decennio (2012) da questi Strani giorni che stiamo vivendo, portava già in sé le tracce del suo congedo artistico, sublimato più di recente dall’intensa, toccante e meditativa Torneremo ancora («La vita non finisce / È come il sogno / La nascita è come il risveglio / Finché non saremo liberi / Torneremo ancora / Ancora e ancora»). Nella seconda traccia dell’album, Testamento, i suoi versi hanno l’agrodolce sapore dell’ultimo saluto. Naturalmente, a suo modo:
Lascio agli eredi l’imparzialità / La volontà di crescere e capire / Uno sguardo feroce e indulgente / Per non offendere inutilmente / Lascio i miei esercizi sulla respirazione / Cristo nei Vangeli parla di reincarnazione / Lascio agli amici gli anni felici / Delle più audaci riflessioni / La libertà reciproca di non avere legami / E mi piaceva tutto della mia vita mortale / Anche l’odore che davano gli asparagi all’urina (…) Il tempo perduto chissà perché / Non si fa mai riprendere / I linguaggi urbani si intrecciano / E si confondono nel quotidiano / Fatti non foste per viver come bruti / Ma per seguire virtude e conoscenza / L’idea del visibile alletta, la mia speranza aspetta.
E Battiato fu tante altre cose: abile scopritore di grandi interpreti femminili, come nel tempo si rivelarono essere Alice e Giuni Russo, autore cinematografico (Perduto amor, Musikanten), pittore, autore di opere musicali colte (Genesi, Gilgamesh, Il cavaliere dell’intelletto). Addirittura tentò l’avventura politica (assessore alla cultura della Regione Sicilia), con esiti davvero sconfortanti, tanto era inadatto ai compromessi e al linguaggio, per lui assolutamente indecifrabile, di quel mondo più volte destinatario dell’invettiva, sovente talmente manifesta da risultar grossolana (Povera Patria), contenuta in alcuni suoi brani. Tutto questo è stato e resta Franco Battiato, e forse molto altro di più che in questo breve omaggio-ricordo non riesco a significarvi.
Quello che posso restituirvi, in ultima analisi, del grande impatto che il cantautore catanese ha avuto sulla mia vita e – sono sicuro – su quella di coloro che hanno amato la sua musica, è l’emozione legata al ricordo del tempo che fugge, inesorabile e crudele nella sua parvenza di linearità, ma anche dolce ed evocativo, nella sua effettiva circolarità: un giorno d’estate, un falò sulla spiaggia, un concerto, un pomeriggio malinconico, un bacio appassionato… A ben guardare, se mi volto indietro, tu ci sei sempre stato. E non mi è difficile immaginare, che continuerai ad esserci.