Alberto Giovanni Biuso è Professore ordinario di Filosofia teoretica nel «Dipartimento di Scienze Umanistiche» dell’Università di Catania, dove insegna anche Epistemologia e Filosofia delle menti artificiali. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Chronos. Scritti di storia della filosofia (Mimesis Editore, 2023). Il suo sito web è www.biuso.eu

Recensione a: P.-L. Coriando, Metafisica e ontologia nella filosofia occidentale e buddista, trad. it. di S. Spina, InSchibboleth, Roma 2021, pp. 76, € 12,00.

Esistono e si danno delle differenze radicali tra la filosofia europeo/mediterranea e la riflessione delle grandi culture orientali, siano esse induiste siano buddiste. La filosofia è e dà primato alla conoscenza in quanto tale, fine a se stessa, compimento della razionalità e insieme della vita. La riflessione orientale pone invece al centro una condizione di vita della quale la conoscenza è soltanto una parte, per lo più da oltrepassare per giungere alla serenità, che consiste soprattutto nella consapevolezza del vuoto e del nulla:

Nella metafisica occidentale la conoscenza (razionale) della realtà occupa la posizione di prima philosophia, nella tradizione orientale essa è sempre al servizio dell’interpretazione, della preparazione o del raggiungimento di una condizione, la quale ha in sé un carattere pre-razionale ed extralinguistico (p. 50).

A partire dal primato di elementi esistenziali, etici, emotivi, nella riflessione orientale si verifica un mescolamento impoverente e una confusione tra pensiero, sentimento e fede; i confini tra i quali «divengono porosi di fronte alla realtà ultima» (p. 61). In questo modo, infatti, lo sguardo filosofico si perde, confuso e reso vago da una immersione nell’irrazionalità del quotidiano che rischia di dissolverlo.

Più fecondo è, invece e non a caso, uno dei concetti fondamentali del buddismo, ripreso e sostenuto con particolare forza da Nagarjuna (monaco attivo tra il II e III secolo dell’e.v.), vale a dire una continuità tra samsara e nirvana che si spinge sino a identificarli:

Samsara (il mondo fenomenico con il suo ciclo di sofferenza e rinascita) e nirvana (il completo essere giunti nel vuoto) si mostrano come la stessa cosa. Essi non sono delle realtà, bensì delle condizioni, a cui non corrisponde alcuna oggettività ontologica. ‘In nulla il samsara è differente dal nirvana; in nulla il nirvana è differente dal samsara’ Il confine del nirvana è il confine del samsara’ (p. 60).

Più sinteticamente, uno dei motti del Buddismo Mahayana recita «samsara-come-esso-è è nirvana» (p. 62). Se il samsara è la condizione di sofferenza, buio e limite ben nota a tutti i viventi, il suo coincidere con il nirvana può indicare una conoscenza più alta ed esoterica della stessa condizione, una prospettiva che ne intende il vero significato, che è la nullità di tutto ciò che accade e ci accade in questo frangente istantaneo e irrilevante che è l’esserci di un pianeta abitato, quale la Terra, all’interno di un universo infinito e perfetto che è la materia stessa.

È significativo che l’autore delle seguenti righe:

In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della ‘storia del mondo’: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire (Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in «Opere», a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1980, trad. di G. Colli, vol. III/2, p. 355).

sia lo stesso di un emblematico e potente frammento intitolato proprio Essoterico-esoterico. In esso la tesi secondo cui «tutto è volontà contro volontà» si indirizza indifferentemente a ciascuno; ai pochi, invece, è riservata la consapevolezza che «non c’è affatto una volontà» (Frammenti postumi 1885-1887, trad. di S. Giametta, vol. VIII/1, 5[9], pp. 176-177).

In questo modo il nirvana che sta all’inizio e alla fine, il nirvana che è tutto rispetto all’inconsistente e insignificante intervallo del samsara, riscatta quest’ultimo riconducendo l’esistere di ogni vivente, la sua sofferenza, pensiero e gioia, a un minuto «tracotante e menzognero», destinato a non lasciare traccia di sé nell’infinito volgersi della materia e dei mondi. Non soccombere di fronte a questa verità, non cadere nella rassegnazione e non precipitare nella disperazione, richiede l’esercizio di uno sguardo distante, oggettivo e razionale. Richiede «la filosofia in quanto metafisica», la quale «si basa sull’incondizionato, sull’indipendente e sull’assoluto pensato a priori» (p. 52). Detto in termini meno kantiani e meno insufficienti, la metafisica è un tentativo di pensare il mondo come si presenterebbe allo sguardo della redenzione, vale a dire della materia cosmica, della sua potenza ed eternità.

Ritengo che anche questo tentativo possa significare l’esigenza heideggeriana di un altro inizio, non contro la metafisica ma come suo inveramento. Ed è per questo che «l’essenza a-venire dell’uomo si dà innanzitutto in e attraverso la ripetizione della metafisica» (p. 46), come afferma Paola-Ludovika Coriando in questo volume utile a comprendere gli elementi di convergenza ma anche le radicali differenze tra il pensiero europeo e la meditazione buddista.

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