Consolo, l’utopia
Vincenzo Consolo (1933-2012) rappresenta un singolare innesto di disincanto leopardiano, di impegno politico vittoriniano e di furore gaddiano. I temi antropologici, il destino, il dialetto, l’invenzione linguistica che ne fa un autore espressionista (e, interessante intuizione di Giuseppe Traina, anche postmoderno) vengono declinati in una evidente e inevitabile tonalità siciliana, quella che fa di Consolo un allievo, un amico, un fratello di Leonardo Sciascia e di Gesualdo Bufalino.
È la lingua soprattutto che segna l’opera di Consolo. Il rispetto per la lingua, l’amore per la lingua, la passione per essa. Garantire la bellezza e la complessità del linguaggio e della parola, difendere il verbo dall’«oblio sistematico della memoria storica e della sensibilità linguistica che l’appiattimento sul presente della comunicazione telematica e la diffusione di basici e asettici linguaggi transnazionali hanno irrimediabilmente innescato»[1] costituisce il maggior contributo di Consolo alla letteratura italiana contemporanea.
Capolavori come Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) «che seppe revocare in dubbio e positivamente decostruire la tradizione del romanzo storico italiano»[2] o Retablo (1987), ricercato esperimento storico-linguistico, costituiscono lo sfondo necessario per intendere il lavoro consoliano dagli anni Novanta del Novecento sino alla morte. Quella di Consolo è infatti un’opera «intrinsecamente palinsestica» (p. 34) che scrive e riscrive su se stessa e sul mondo, come un nero su nero della comprensione e della speranza.
Vincenzo Consolo, uomo e scrittore nomade tra la Sicilia, Milano e l’altrove, intende la letteratura anche come attività civile non semplicemente attraverso un impegno e delle prese di posizione politiche, che pure a Consolo non mancarono di certo, ma anche e specialmente come lotta contro «l’irrazionalismo, ovvero la rinuncia alla razionalità come prodromo della rinuncia alla libertà, al consegnarsi di un popolo alla dittatura» (p. 32).
Ed è esattamente su questo punto che vanno mossi dei rilievi critici allo scrittore siciliano. L’irrazionalismo del presente, quello contemporaneo e successivo a Consolo, hanno assunto infatti aspetti, valenze e tonalità più pericolosi rispetto ai consueti e antichi referenti teoretici e politici dell’irrazionalismo. Quest’ultimo si esprime infatti con tutta la forza dell’inesorabile nel cedimento ai dogmi imposti dal capitalismo vincente, vale a dire della globalizzazione, del globalismo, i quali non sono affatto scalfiti da alcune delle idee che muovono la narrativa di Consolo ma anzi ne vengono del tutto rafforzati. Mi riferisco in particolare al meticciato, nel quale lo scrittore vede un dispositivo di apertura, dialogo e arricchimento tra i popoli quando invece – lo si poteva vedere già all’inizio del XXI secolo ma certamente oggi è più evidente – rappresentano la tragedia e l’impoverimento della sostituzione, del crepuscolo dell’Europa fagocitata da un Occidente anglosassone al dominio del quale l’arrivo di masse di migranti dall’Africa e dall’Asia è del tutto funzionale.
Lo aveva in qualche modo intuito Consolo quando ne L’olivo e l’olivastro scriveva «giunsero questi arabi a riempire i vuoti della fatica lasciati dagli emigranti locali, far da braccianti nei lavori più duri e più rischiosi»[3]. E tuttavia si tratta di una intuizione che invece di volgersi in analisi politica dei flussi propri del capitalismo, che da sempre è senza luogo e senza patria, immagina «quell’utopia che potremmo chiamare dello ‘sperma meticciante’ che s’affaccia più di una volta […] nella scrittura ‘d’intervento’ di Consolo» (p. 102).
Utopia dannosa per gli sfruttati dell’uno e dell’altro versante del Mediterraneo perché sembra ignorare del tutto il dispositivo sociale ed economico dell’«esercito industriale di riserva disponibile [eine disponible industrielle Reservearmee] che appartiene al capitale in maniera così assoluta come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese. Esso crea per i propri mutevoli bisogni di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto [exploitable Menschenmaterial]»[4].
Nel XXI secolo l’esercito industriale di riserva si origina dalle migrazioni di masse che in parte fuggono dalle guerre che lo stesso capitalismo scatena in Africa e nel Vicino Oriente, in parte semplicemente dall’illusione di migliorare la propria condizione economica giungendo in un Paese di cuccagna che non esiste. La composizione sociale dei migranti che intendono arrivare in Europa non è infatti quella immaginata da Consolo ma quella molto più articolata e riferita al ceto medio africano come è stata indagata e analizzata dal sociologo Stephen Smith[5]. Si tratta di dinamiche volte non al meticciato come scambio e reciproco arricchimento ma come accumulazione di materiale umano, come creazione di una riserva di manodopera la cui presenza ha l’inevitabile e marxiano effetto di abbassare drasticamente i salari, di squalificare la forza lavoro, di distruggere la solidarietà operaia. È anche così che si spiega il sostegno di ciò che rimane della classe operaia europea a partiti e formazioni contrarie alla politica delle porte aperte a tutti. Non si spiega certo con criteri morali o soltanto politici. La struttura dei fatti sociali è, ancora una volta marxianamente, economica. Tutto questo si chiama appunto anche globalizzazione. Il sostegno alla globalizzazione o invece il rifiuto delle sue dinamiche è oggi ciò che davvero distingue le teorie e le pratiche politiche, non certo le obsolete categorie di destra e sinistra.
Sembra che ad aver influito sull’opera di Consolo sia stato un tipico errore di prospettiva nel quale incorrono studiosi di letteratura e letterati, vale a dire pensare che le dinamiche del presente possano essere identiche, o almeno fortemente somigliare, a quelle assai diverse di secoli o persino millenni prima. La «valorizzazione della Sicilia araba» (p. 29) diventa in Consolo l’immaginazione di una Sicilia del XX e XXI secolo che possa somigliare a quella federiciana del XIII secolo. Ma si tratta, come è evidente, di modalità, contesti, condizioni del tutto imparagonabili in qualunque senso e modo.
Parlando del Mediterraneo di Leonardo Sciascia, Traina rileva che lo scrittore di Racalmuto aveva amato anch’egli la civiltà degli Arabi di Sicilia ma sapeva anche «di aver coltivato, in tal modo, un’astrazione geo-storica, un ‘sogno’» (p. 115). Questa astrazione e questo sogno si fanno invece in Consolo progetto e dispositivo politico praticabile, creando un mito letterario invalidante come appunto quello dello ‘sperma meticciante’. È significativo che «la posizione di Sciascia si potrebbe riassumere così: gli Arabi, sì, ma solo se in Sicilia; e la Sicilia, sì, ma solo se rimane attaccata all’Europa illuminista» (p. 116).
Consolo, la storia
Quell’Europa illuminista che pure Consolo conosceva bene anche attraverso gli studi che al Mediterraneo ha dedicato Fernand Braudel. Traina osserva infatti in Consolo il progressivo maturare di «un’idea forse utopica ma generosamente volta a superare quell’interpretazione del Mediterraneo come universo concentrazionario che Consolo prelevava da talune pagine di Fernand Braudel, che ha citato un gran numero di volte, e che per fortuna in lui convive con un’altra idea di Mediterraneo» (97).
Braudel è uno storico che come tale ha sempre cercato di indagare gli spazi, i tempi, i flussi in modo quanto più rigoroso possibile, senza condizionamenti di tipo valoriale. Ogni approccio moralistico o anche soltanto etico ai fenomeni migratori che investono l’Europa nella prima metà del XXI secolo è infatti insufficiente. Di tale fenomeno va colta non l’esigenza di abbraccio umanitario e morale ma le radici economiche nello sfruttamento coloniale dell’Africa e il permanere di tale colonialismo anche in alcune delle forme e delle strutture dell’accoglienza contemporanea.
Nel XVIII e XIX secolo come nel XXI, infatti,
sono stati usati tutti i mezzi per reclutare gli emigranti necessari. […] Per moltiplicare le partenze, la violenza si sommava alla pubblicità ingannevole. […] Si ebbe dunque una grande e lunga ‘schiavitù’ bianca. La schiavitù nera […] si è sviluppata soltanto in seguito all’insufficienza della manodopera locale e di quella importata dall’Europa. […] Così ha voluto un’esigenza coloniale che ha regolato mutamenti e sequenze in base a ragioni economiche, non razziali; tali ragioni non hanno ‘niente a che vedere con il colore della pelle’. Gli ‘schiavi’ bianchi cedono il posto perché avevano il difetto della temporaneità, e forse costavano troppo cari, non fosse che dal punto di vista dell’alimentazione[6].
In sintesi, una sintesi significativa e drammatica, nella storia moderna come in quella contemporanea, «l’immigrazione è un vero e proprio ‘commercio di uomini’»[7], che nelle tratte dei negrieri assume la sua forma più organizzata, violenta, sistematica. La schiavitù dell’età moderna non venne inventata dagli europei ma costituiva una pratica comune dei mercanti e delle economie islamiche e anche dei mercanti e delle economie interne del continente africano. «La tratta deve essere formulata anche in termini africani. […] Bisogna restituire all’Africa i suoi modelli e le sue responsabilità»[8]. Allo stesso modo e
una volta di più si rivela l’identità profonda tra l’imperialismo islamico e quello occidentale. Sono entrambe civiltà aggressive, schiaviste, nei cui confronti l’Africa nera ha pagato il prezzo della sua non-vigilanza e della sua debolezza. È vero che l’invasore si presentava ai suoi confini portando beni sconosciuti, capaci di affascinare l’eventuale acquirente. Entra in gioco la cupidigia. […] ‘Si vendono l’uno con l’altro – scrive Garcia de Rezende (1554), – e ci sono molti mercanti la cui specialità consiste nell’ingannarli e venderli ai negrieri’. L’italiano Gio. Antonio Cavazzi, che soggiornò in Africa dal 1654 al 1667, rileva ‘che per una collana di corallo e un po’ di vino, accadeva che i congolesi vendessero genitori e figli, sorelle e fratelli, spergiurando agli acquirenti che si trattava di schiavi al loro servizio’. […] Se in Africa c’è stato un commercio di uomini è certo perché l’Europa lo ha voluto e imposto, ma anche perché l’Africa aveva la cattiva abitudine di praticarlo, molto prima dell’arrivo degli europei, in direzione dell’Islam, del Mediterraneo e dell’Oceano Indiano. Nel continente africano la schiavitù costituisce una struttura endemica e quotidiana[9].
Le dinamiche migratorie contemporanee delle masse che dall’Africa arrivano in Europa non costituiscono delle forme di emancipazione ma sono anch’esse strutture coloniali di conquista, organizzate con una pluralità di metodi e strutture a supporto.
Il piano letterario conserva sempre, come è giusto che sia, la sua autonomia rispetto all’andamento reale delle dinamiche storiche e tuttavia quando il poeta intende essere anche un analista politico affidarsi soltanto ai propri sentimenti e valori morali può avere come esito una vera e propria eterogenesi dei fini, la trasformazione delle dinamiche di sfruttamento in utopie del meticciato.
Mi sono dilungato su un argomento che Traina tratta ampiamente, come è giusto data l’importanza che esso riveste nell’opera di Consolo, ma il suo libro va oltre questo singolo tema e rimane un testo assai bello e illuminante di ermeneutica letteraria, un volume che ogni lettore di Consolo dovrebbe senz’altro conoscere.
[1] G. Traina, «Da paesi di mala sorte e mala storia». Esilio, erranza e potere nel Mediterraneo di Vincenzo Consolo (e di Sciascia), Mimesis, Milano 2023, p. 11. Già nel 2001 Traina aveva dedicato una monografia allo scrittore siciliano: Vincenzo Consolo (Cadmo Editore, Fiesole). Questo nuovo libro si presenta dunque come una sorta di secondo tomo di un’indagine raffinata e limpida, che dello scrittore fa emergere la complessità, le passioni, l’impegno e la malinconia. Il romanzo al quale l’analisi di Traina dedica una particolare attenzione è Lo Spasimo di Palermo, dolente e desolato capolavoro del 1998.
[2] Ivi, p. 10. I riferimenti di pagina delle successive citazioni da questo libro verranno indicati nel testo, tra parentesi.
[3] V. Consolo, L’ulivo e l’olivastro, a p. 863 dell’«Opera completa» nei Meridiani Mondadori, citato da Traina alle pp. 88-89.
[4] K. Marx, Il Capitale, libro I, sezione VII, cap. 23, «La legge generale dell’accumulazione capitalistica», §§ 3-4.
[5] S. Smith, La ruée vers l’Europe. La jeune Afrique en route pour le Vieux Continent, Grasset, Paris 2018; tradotto in italiano con il titolo piuttosto diverso (e sviante) Fuga in Europa. La giovane Africa verso il vecchio continente, trad. di P. Arlorio, Einaudi, Torino 2018.
[6] F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), trad. di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1982; vol. III, I tempi del mondo, pp. 416-417.
[7] Ivi, p. 426.
[8] Ivi, p. 455.
[9] Ivi, p. 457.