Maria Alessandra Varone (1998) si è laureata in Filosofia all’Università degli Studi Roma Tre nel 2019, conseguendo poi la laurea magistrale in Scienze Filosofiche nel novembre 2021. Attualmente è dottoranda presso l’Università degli Studi Roma Tre per il curriculum Filosofia analitica e scienze empiriche e con interessi di ricerca rivolti alla metafisica e alla storia della scienza in Europa tra la seconda metà del diciottesimo secolo e la prima metà del diciannovesimo secolo.
Recensione a: T.P. Nagai, Il passo della Vergine, Storia dei martiri cristiani di Tsuwano, a cura di G. Di Comite, Amici Nagai (Indipendently published), Torino 2021, pp. 113, € 8,31.
Il 13 maggio del 1951 venne celebrata l’inaugurazione di una piccola cappella dedicata a santa Maria, presso una sperduta piana di montagna del sud del Giappone, nella prefettura di Shimane. Questo passo, chiamato Otome Toge, che significa “il Passo della Vergine”, si inerpica per un breve tratto sui monti delle spalle di Tsuwano, una minuta cittadina di poche migliaia di abitanti, dove già sorgeva all’epoca una bella chiesa cattolica in stile neogotico, dalla facciata candida come la neve che ogni inverno imbianca copiosamente quelle terre e con un alto campanile che svetta, estraneo, in quell’anonimo paesaggio di montagna (p. 13).
Così Gabriele di Comite, suo curatore, introduce il testo di Takashi Paolo Nagai (1908-1951). Si tratta di un racconto di martiri e santi, ma soprattutto di contadini contro lo shogun prima e i Meiji poi. Ciò rende il tutto ancora più straordinario, perché in Giappone i contadini erano considerati alla stregua di animali su cui tutte le classi superiori avevano diritto di vita e di morte[1]. Ma del resto, gli ultimi saranno i primi[2].
Questa storia inizia, in realtà, il 15 agosto 1549, quando il gesuita Francesco Saverio sbarcò a Chipangu. Con delle predicazioni pubbliche, che annunciava a suon di campanella, il santo riuscì a diffondere il messaggio cristiano. Presto il porto di Nagasaki divenne l’epicentro dei cristiani giapponesi, i kirishitan, che credevano in Dio, Cristo e Maria, e i cui rispettivi nomi avevano adattato alla loro lingua con Deusu, Mariya e Iesu Kirisuto. Nagasaki fu anche in luogo dei primi martiri, da lì, i neonati kirishitan pian piano divennero kakure kirishitan[3], i nascosti. A seguito della rivolta dei samurai cristiani di Shimbara del 1638, infatti, il Giappone adottò misure sistematiche di sterminio, a tal punto che questi praticavano il culto nel segreto delle loro dimore, trasmettendolo di generazione in generazione con canti e preghiere. In particolare, Nagai riporta questa lirica:
Oki ni kuru no wa
Papa no fune yo
Maruiya no aza no
Ho ga miyuru[4].
Nel 1867, dopo il progressivo deterioramento del potere dello shogun, i cattolici giapponesi di Urakami chiesero al shoya -il capo villaggio- di poter praticare liberamente il loro culto, come era concesso a buddhisti e shintoisti. La richiesta, tuttavia, destò un tale sgomento al shoya, che non solo arrivò ai due governatori di Nagasaki, ma anche a Kyoto, dallo shogun. Dopo mesi di dubbi, quest’ultimo decise sul da farsi: procedere con l’arresto dei cristiani, dando inizio a quella che viene ricordata come Quarta Persecuzione di Urakami, preceduta dalle “tre persecuzioni” degli anni 1789, 1839 e 1856. Delle quattro, la più cruenta fu l’ultima, nella quale furono deportati e torturati oltre 3.400 cristiani, di cui 664 morirono e 1022 abiurarono.
Il 15 dicembre 1867 ci fu la prima retata di Urakami, e seppur nell’ottobre dello stesso anno lo shogun cadde, l’avvento della dinastia Meiji inacerbò la persecuzione. Nagai riporta le vicende attraverso l’esperienza di Jinzaburo Moriyama e quella dei suoi fratelli: la sorella maggiore, Matsu, e il fratellino Yujiro.
Giunti all’ora in cui il cielo iniziava a schiarire verso est, circa 200 persone erano state fatte prigioniere. Le guardie iniziarono allora a requisire i beni dei preti di Oura e fu a quel punto che spuntarono fuori altri 200 cristiani, armati di rudimentali lance di bambù, intenzionati a farsi restituire i preziosi oggetti.
La piccola rivolta dei contadini cristiani, però, non ebbe successo. Anzi, iniziarono così le prime deportazioni a Tsuwano volte alla tortura per l’abiura. Tra i primi rastrellamenti, vi fu solo una persona, riporta Nagai dal racconto di Jinzaburo, che non cedette: un vecchio, povero contadino di nome Senemon Takagi, la cui determinazione, colpì anche gli ufficiali:
All’inquisitore che lo incitava a convertirsi Senemon rispose: “Sarebbe una disgrazia di fronte a Dio e alla mia anima. Seguirò il mio Signore, fossi in compagnia di 100 compagni o rimanessi da solo.” Profondamente colpito dalla sua determinazione, l’ufficiale gli disse: “Tu dimostri un vero spirito da samurai nel rimanere fedele al tuo signore sino alla fine, anche se rimasto solo. Puoi tornare a casa!”.
E così Senemon fece ritorno ad Urakami, «senza aver mai, fino alla fine, rinnegato la fede in Cristo».
Jinazaburo, tuttavia, non fu da meno: dopo immani torture, non rinunciò alla propria fede. E lo stesso si può dire del fratellino Yujiro, che non ebbe la stessa resistenza del fratello. Morì tra le braccia della sorella Matsu, pieno di speranza, dopo 14 giorni di supplizi.
I cristiani giapponesi di Urakami trascorsero i loro giorni a Tsuwano tra le più disparate e crudelmente creative torture. Solo il 24 dicembre del 1871, quando l’ambasciatore Tomomi Iwakura si recò in America e in Europa per rinegoziare i trattati commerciali, vi fu una ondata di indignazione e di protesta per la barbarica persecuzione dei cristiani. Eloquente fu il caso del Belgio: a Bruxelles la delegazione giapponese venne attaccata da una folla inferocita che chiedeva la concessione della libertà di culto. In quel momento Iwakura e gli altri delegati furono sorpresi che il mondo conoscesse le vicende dei cristiani di Urakami:
Iniziarono a capire quali fossero le dimensioni della Chiesa di Cristo: non si trattava, quindi, di una piccola setta d’Occidente. L’ambasciatore si vide costretto a inviare un telegramma a Tokyo nel quale riportava che: “Ovunque ci rechiamo, veniamo assaliti da cittadini stranieri che esercitano strenue pressioni in favore dei cristiani deportati e della libertà di culto.
Così, il 21 febbraio 1873, sesto anno dell’era Meiji, il governo annullò i bandi contro il cristianesimo e il 14 marzo dello stesso anno, i cristiani deportati vennero liberati. La casa di Jinzaburo venne ridotta in cenere dall’esplosione atomica, che portò via con sé anche suo nipote e il suo pronipote. Tutto ciò che rimane di quella abitazione sono quattro germogli di una piccola pianta di rose rosse, sopravvissuta alla devastazione. […] Quando dal Nyokodo, ogni anno, vedo sbocciare i fiori di quelle rose rosse, mi viene sempre alla mente il vecchio insegnamento: “il sangue dei Martiri è il seme della comunità cristiana”.
E così, con delle rose rosse e Tertulliano, Nagai ricorda il sangue dei martiri dimenticati del Giappone, che hanno subito immani torture, offese e provocazioni, avendo scelto di abbracciare la croce nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
[1] Cfr. R. Camilleri, Shimbara no ran, La grande rivolta dei samurai cristiani, I Quaderni del Timone, Milano 2019; G. Di Comite, Santi, martiri e samurai. Storia del Giappone cristiano, La Fontana di Siloe, Torino 2021; R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, Laterza, Bari 2017 (ediz. ampliata).
[2] Mt, 20-1, 16.
[3] Lett. Cristiani nascosti.
[4] Lett. Giungerà dal mare / La nave del Papa / Vedrete ondeggiare la vela / Nel segno di Maria.