Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.
Recensione a
L. Pellicani, I difensori della libertà
Rubbettino, Soveria Mannelli 2018, pp. 134, €13,00.
L’intellettuale, che non si sente più legato a nulla, non si accontenta di opinioni, ma vuole una certezza, un sistema. La rivoluzione gli dà il suo oppio (Raymond Aron).
È cosa ardua trovare un pensatore di sinistra che non prenda a pugni il mercato e la libertà economica. Sconvolge forse ancor di più che egli possa riferirsi ad autori come Ludwig von Mises o Friedrich von Hayek, condividendone le posizioni, almeno fino a un certo punto. Luciano Pellicani è stato quasi un’eccezione in questo senso. Infatti, come ricorda in uno dei suoi numerosi volumi, L’Occidente e i suoi nemici (Rubbettino 2015), «il mercato è una istituzione indispensabile per garantire la razionalità delle scelte effettuate dagli attori sociali. E lo è prima di tutto perché esso è una struttura di informazioni: lancia preziosi messaggi sotto forma di prezzi, insostituibili indici di scarsità». Ma soprattutto, come ricorda egli stesso, è oltremodo puerile fossilizzarsi sull’aspetto economico del mercato, giacché «esiste una precisa analogia fra il mercato dei beni e il mercato delle idee: in entrambi, vige la legge darwiniana dello sterminio dei più “deboli”, cioè di quei prodotti che risultino comparativamente meno soddisfacenti». Insomma, il principio di concorrenza risulta valevole non solo in ambito economico, ma anche in ambito scientifico e, a ben vedere, può pure essere utile per l’analisi della democrazia, come fece Anthony Downs. In buona sostanza l’istituzione centrale della società aperta, in quanto estremo tutore delle libertà, è il mercato.
Si tratta pertanto di un formidabile strumento volto a contenere e disperdere il potere in ogni ambito. Infatti, la perfetta società chiusa è proprio quella che, con le parole dello stesso scienziato sociale, ha abbattuto il mercato e ha, per contro, istituzionalizzato il triplice monopolio della violenza, delle risorse materiali e delle idee. Certo è che una siffatta poliedrica istituzione crea (o, più semplicemente, è il più realistico modo, in quanto non cerca di ingannare i limiti della natura umana, per fare i conti con) l’incertezza dell’uomo. Una condizione, questa, che ha trovato sovente negli intellettuali i promotori della sua risoluzione, purificando l’esistente tramite il suo rovesciamento. Ma non tutti si sono fatti abbacinare dalle sirene della redenzione della connaturata imperfezione delle società.
Proprio a questi ultimi, Pellicani ha dedicato il suo penultimo libro: I difensori della libertà (Rubbettino 2018, pp. 134, € 13). Si tratta di autori assai diversi tra loro, in quanto il tema della libertà viene di volta in volta concepito in diversa guisa a seconda che a difenderlo sia Benedetto Croce o Guglielmo Ferrero, José Ortega y Gasset o Simone Weil, Raymond Aron o Friedrich von Hayek, Norberto Bobbio o Giovanni Sartori (così posti in ordine dall’Autore). E Pellicani, d’altra parte, non lesina critiche mordaci agli stessi pensatori da lui scelti a mo’ di esempi per la difesa della libertà. Come sa chi lo ha avuto come docente (ed educatore) o lo ha semplicemente ascoltato su Radio Radicale o attraverso le sue opere, la vena critica è stata una sua caratteristica precipua. A Benedetto Croce, ad esempio, obietta l’incapacità di comprendere, mosso da influenze hegeliane, come la libertà economica sia una condizione imprescindibile per esperire la libertà politica. Infatti, nella celebre polemica con Luigi Einaudi, Pellicani si premura di citare quest’ultimo, secondo il quale, in una società in cui venisse meno la proprietà privata, la libertà sarebbe annichilita, giacché «non potrebbero esistere forze indipendenti da quella dello Stato». Una tesi, com’è noto, cara anche a F. von Hayek.
In un importante passo de La via della schiavitù, infatti, l’Austriaco scrisse che «il controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo esclusivo dei mezzi – seguita Hayek – deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati più alti e quali più bassi; in breve ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi». Insomma, la società aperta ricadrebbe in una società teleocratica, in cui all’ordine spontaneo – cosmos, nel lessico hayekiano – si sostituirebbe l’edificazione di taxis, un ordinamento costruito in virtù di quella “presunzione fatale” di poter tutto conoscere, e così pianificare, sulla base di un sovrumano “punto di vista privilegiato sul mondo”. Un progetto che, come ricorda Pellicani, è destinato a fallimento come, del resto, lo sono stati i vari tentativi totalitari novecenteschi.
D’altro canto, lo stesso Marx, di cui Pellicani è stato un fine studioso, definì i mezzi di produzione le “sorgenti della vita”. E sempre lo stesso pensatore di Treviri, ricorda Pellicani, è stato l’autore dell’elogio forse più lusinghiero nei confronti dell’attore della rivoluzione capitalista, la borghesia. Nel Manifesto, infatti, si può leggere ciò che segue: «La borghesia per prima ha mostrato che cosa possa l’attività umana. Essa ha creato ben altre meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha fatto ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le Crociate. La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione […]. Con il rapido miglioramento dei sistemi di produzione, e con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia spinge nella civiltà anche le nazioni più barbare». Sennonché, lo stesso Marx – da Pellicani definito a più riprese “schizofrenico”, proprio perché profondamente contradditorie sono talvolta le sue tesi – non esitava a definire il capitalismo un sistemo perverso, che inaugura «il tempo della corruzione generale», trasforma la società in «in un deserto popolato da bestie feroci» e la proprietà privata è così l’istituzione responsabile della «depravazione e putrefazione dell’uomo». Da ciò deriva il programma pantoclastico elaborato da Marx, volto alla distruzione totale del mondo traviato dal sistema di mercato. Un programma, tuttavia, che si contraddistingue per una carica esclusivamente negativa, giacché il comunismo viene definito dal pensatore tedesco «la negazione della negazione», la negazione, cioè, del capitalismo.
In tal senso, la scoperta della Verità da parte di Marx non porta a un programma positivo, ma solo a un sovvertimento dell’esistente. Illuminanti sono allora le parole di Karl Korsch che Pellicani riporta: «Se si domanda a un socialista che cosa intende per socialismo si riceve come risposta, nel caso migliore, una descrizione del capitalismo e l’osservazione che il socialismo eliminerà questo capitalismo con la socializzazione dei mezzi di produzione. Tutto l’accento è posto sull’aspetto negativo, cioè che il capitalismo deve essere eliminato […]. Socialismo significa anticapitalismo». Un richiamo, quello della redenzione dell’esistente, che da sempre attrae chi, animato da passioni nichiliste, vede nelle condizioni in cui vive una malattia radicale che va estirpata per restaurare il «Regno millenario della libertà». Poco importa che non vi sia una visione contenutisticamente definita di ciò che si vuole costruire: è sufficiente percepirsi investiti dalla salvifica missione di purificare l’esistente e la presunzione di essere in grado di farlo perché la tabula rasa sia auspicabile.
In definitiva, l’invito di Pellicani è quello di non cadere facili e ingenue prede di chi prospetta un avvenire radioso in cambio della distruzione della società aperta e della proprietà privata che istituzionalizza la resistenza alla concentrazione di potere, sebbene ciò non debba indurre, secondo l’Autore, a seguire fino in fondo i “fondamentalisti del mercato” (Mises, Hayek e così via). Come scrisse Proudhon ne La teoria della proprietà, la quale opera inverte la sua precedente idea della proprietà privata come un furto, «dove trovare una potenza capace di controbilanciare questa formidabile potenza dello Stato? Non v’è che la proprietà privata […]. Servire da contrappeso al potere pubblico, bilanciare lo Stato e in questo modo assicurare la libertà individuale: tale sarà, nel sistema politico, la funzione principale della proprietà. Sopprimere questa funzione, oppure, il che sarebbe lo stesso, togliere alla proprietà il carattere assolutistico che le abbiamo attribuito e che la distingue: imponetele condizioni e dichiaratela non cedibile e non divisibile: subito essa perde ogni forza e non conta più nulla: essa ridiventa un semplice beneficio: un possesso precario, una dipendenza dello Stato senza possibilità di azioni contrarie». Chi anela alla certezza di un mondo migliore, avallando una rivoluzione che abbatta la proprietà (dispersa e decentrata), insomma, probabilmente una certezza la otterrà: diventare servo della “megamacchina” statale.