Pino Pisicchio (1954) è professore ordinario di Diritto Pubblico Comparato presso l'Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT). È stato più volte deputato (tra il 1987 e il 2018) ed europarlamentare nella V legislatura (1999-2004). Ha ricoperto la carica di Sottosegretario di Stato al Ministero delle Finanze nel primo governo Amato (1992-1993) e Sottosegretario di Stato al Ministero dei Lavori Pubblici nel governo Ciampi (1993-1994). È giornalista professionista, editorialista per alcune testate tra cui Formiche.net, "Il Dubbio", "La Gazzetta del Mezzogiorno". Ha pubblicato numerosi lavori scientifici, saggi di politologia, tra cui Costituzione e diritti a Singapore. Tra modello Westminster e tradizione confuciana (2020); Ordinamenti Giuridici e Gestione dei Flussi Migratori (2021); La politica come mestiere. Non-manuale per carriere, militanze e cittadinanza (2022), nonché alcuni lavori di narrativa, tra cui Il collezionista di Santini(2019), un giallo ambientato a Montecitorio nella XVII Legislatura.

È circolata anche nei media generalisti la contabilità dei tentativi di manomissione larga della Carta Costituzionale in 45 anni di ambizione riformista, che prende slancio dalla “grande riforma” craxiana e, attraversando D’Alema, Berlusconi, Renzi, giunge alla Meloni dei giorni nostri.

Il catalogo è vario per visione e architettura giuridica, ma l’esito è stato sempre uguale: deludente, vuoi per il mancato decollo del progetto, rimasto a livello di prodotto della mente del riformatore (Craxi) o di qualche commissione bicamerale (D’Alema, ma prima ancora De Mita-Iotti e Bozzi), vuoi per l’esito negativo nelle consultazioni referendarie (si veda la riforma “presidenzialistica” varata dalla maggioranza berlusconiana e l’ambiziosa riscrittura del bicameralismo e molto altro ancora di Renzi). Migliore sorte è toccata alle riforme parziali, ancorché sospinte da un chiaro afflato populistico, come quella del taglio dei parlamentari, approvata con il referendum popolare del 2022.

È questo il quadro dei precedenti storici, dunque, in cui si va ad incastonare il disegno di legge costituzionale tendente ad introdurre il cosiddetto “premierato elettivo”, riforma che non può essere considerata un intervento chirurgico di portata minore, ma un vero e radicale cambiamento della forma di governo “parlamentare” disegnata dai nostri padri costituenti. Riforma che, con ogni probabilità, potrebbe, se approvata, misurarsi con il referendum confermativo perché la maggioranza, ancorché rinforzata dai parlamentari di Italia Viva, dichiaratamente aperti a questa ipotesi, non avrebbe l’autosufficienza prevista dall’art. 138 Cost. per evitare il confronto con il voto popolare.

Prima ancora di esprimere qualche valutazione nel merito, val la pena di ricordare l’antefatto di un articolato gioco di specchi allestito dalla maggioranza di governo sul contenuto di una riforma e sulle modalità per conseguire il risultato. Beninteso: la propensione per forme di governo presidenzialistiche – nelle declinazioni possibili offerte dal diritto pubblico comparato – è cosa antica e nota nella visione della destra italiana: a parte la rammentata riforma costituzionale del 2005 proposta dal governo Berlusconi e condivisa dagli alleati con una chiara implementazione dei poteri del Presidente del consiglio, tutte le forze del Centro-Destra italiano hanno sempre manifestato una netta propensione per il rafforzamento della figura del Primo Ministro. La stessa on.le Meloni aveva più volte evocato in campagna elettorale la soluzione presidenzialistica come elemento caratterizzante la proposta programmatica della sua parte politica in materia di riforme istituzionali. Così, in coerenza con una visione e con un impegno, non ha mancato, dopo la vittoria del 2022 e l’affidamento da parte del Presidente della Repubblica dell’incarico di guida del governo, di tornare a sottolineare l’importanza della scelta. In verità i contorni di tale scelta sono apparsi, per certo tempo, alquanto sfumati e oscillanti nel dibattito pubblico, tra richiami al presidenzialismo ma anche alle sue declinazioni intermedie, come il semipresidenzialismo alla francese, senza peraltro che si manifestasse un accenno, seppur generalissimo, all’impalcatura giuridica che avrebbe sostenuto la riforma. Incerto è stato anche il percorso parlamentare che avrebbe avuto la riforma proposta dal governo.

L’on. Meloni scelse di dialogare con le forze parlamentari d’opposizione, rispettando formalmente un galateo istituzionale nell’ascolto delle proposte e delle obiezioni di principio. Atteggiamento sicuramente condivisibile: se si vuol mettere mano ad una riforma costituzionale d’impianto occorrerà andare oltre la numerosità del consenso parlamentare richiesta dalla procedura di una Carta “rigida”, perché esiste la necessità “politica” di condividerla con un arco che non coincida solo con quello della maggioranza di governo. Sembrò, allora, che si volesse puntare ad un consenso innanzitutto sul “modo”, sulla procedura. Si parlò di Commissioni bicamerali per le riforme.

In realtà con quel nome si ricordano tre prodigiosi insuccessi che, a partire dagli anni ’80, recarono i nomi già evocati di Bozzi, Iotti-De Mita e D’Alema, più una Convenzione per le Riforme, avviata dal Governo Letta con la forte condivisione del Capo dello Stato Napolitano. Tutte le esperienze svilupparono un’importante accumulazione documentale, interessante per gli studiosi ma non in grado di produrre qualcosa sul piano delle riforme. E si capisce anche il perché: il lavoro delle bicamerali, secondo l’art.138 Cost., ritorna alle Camere, dove le maggioranze sono quelle che sostengono il governo. Domanda: si può giungere alla norma condivisa da tutti se a regolare il traffico è la stessa maggioranza politica votata dai cittadini per sostenere il governo? Certo che no.  A maggior ragione non è consigliabile fare riforme d’impianto alla maniera di Berlusconi o Renzi, entrambi provvisti di larghe maggioranze a sostegno del governo. Il problema del “come” procedere, tuttavia, è sembrato totalmente rimosso ed oggi la via prescelta sembrerebbe quella del confronto parlamentare senza conferimenti a commissioni bicamerali.

L’opzione del premierato elettivo, pertanto, non è apparsa appartenere al piccolo bouquet della prima scelta, bensì ad una soluzione intervenuta successivamente, forse per tentare l’allargamento di una base di consenso parlamentare che altrimenti sarebbe stata chiusa nel recinto del solo governo. Il disegno di legge ha finalmente una sua configurazione che ci consente qualche schematica osservazione.

È giusto innanzitutto rammentare che si introduce nell’ordinamento un istituto che non c’entra molto con quel che già c’è, perché prefigura l’elezione diretta del capo del governo, trascinato a quel ruolo per effetto della coalizione vincente. Al destino del “premier” eletto, peraltro, è legato quello della legislatura in base alla clausola simul stabunt, simul cadent: ove mai venisse approvata una mozione di sfiducia al capo del governo, andrebbero a casa tutti. Insomma: il modello guarda, più o meno, ai Comuni e alle Regioni. Non possiamo dire che prenda ispirazione da altri ordinamenti democratici fuori dal confine nazionale perché l’unica esperienza di premierato elettivo che si ricordi è quella Israeliana, peraltro spazzata via senza alcun rammarico dopo solo tre votazioni. Tuttavia, aprendo lo sguardo all’orizzonte più vasto delle esperienze di premierato, andrebbero ricordate alcune cose importanti che indurrebbero a domandarci perché si intenda battere la strada onerosa di un’elezione “diretta” quando altre realtà istituzionali, come quella inglese, offrono percorsi collaudati e funzionali. Il premierato inglese, il più noto, non mette affatto nel conto di eleggere il capo del governo direttamente, ma gli basta che sia il capo del partito di maggioranza uscito dalle urne, proprio per evitare che, in caso di cortocircuito interno alla maggioranza, si debba far ricorso al voto anticipato, evento sempre traumatico per un Paese.

Ma si tace anche sullo squilibrio che la modifica apporterebbe all’impianto costituzionale, a cominciare dal rapporto con il Capo dello Stato, scelto dai grandi lettori parlamentari e regionali, mentre il premier sarebbe eletto dal popolo, dotandosi di una legittimazione diretta. Il che sconvolgerebbe l’assetto attuale dell’ordine costituzionale senza spiegare perché. Si dice: “dobbiamo rafforzare il governo e i poteri del primo ministro”. Bene. Ma non si comprende perché non si opti per qualcosa di meno impattante con il quadro ordinamentale.

Per esempio, si potrebbe mantenere la regola già sperimentata nel famigerato “Porcellum” italiano sotto forma di indicazione a Presidente del Consiglio del Capo dell’alleanza che raccoglieva la maggioranza nelle urne. Ancora: si potrebbe discutere della prerogativa del Capo del Governo di proporre al Presidente della Repubblica la rimozione del Ministro non più idoneo a svolgere il suo ruolo nell’Esecutivo. Si potrebbe, inoltre, adottare la sfiducia “costruttiva” per rafforzare la tenuta delle legislature sostituendo subito il capo di governo privo di maggioranza parlamentare con uno che invece ce l’ha. Oltretutto, parliamoci chiaro: dopo aver generosamente tagliato il numero dei parlamentari, si è rafforzato l’effetto maggioritario della legge elettorale, offrendo al governo una tutela aggiuntiva: maggioranza attuale docet.

Senza contare, infine, che la pretesa di poter effettuare interventi “chirurgici” sul corpo della Costituzione, senza avere una visione e senza apportare ulteriori interventi per garantire l’equilibrio dell’architettura costituzionale, pretendendo che tutto resti funzionante come prima, è veramente velleitaria.

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