Alberto Giovanni Biuso è Professore ordinario di Filosofia teoretica nel «Dipartimento di Scienze Umanistiche» dell’Università di Catania, dove insegna anche Epistemologia e Filosofia delle menti artificiali. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Chronos. Scritti di storia della filosofia (Mimesis Editore, 2023). Il suo sito web è www.biuso.eu

Da dove è scaturita la filosofia moderna? Qual è la fonte principale dei suoi concetti, della sua ispirazione, della tonalità che la contraddistingue? La risposta più chiara e condivisa è: Descartes. Certo, dato che la separazione tra un mondo di strutture meccaniche e organiche (res extensa) e un mondo di strutture mentali e spirituali (res cogitans) trova nelle Meditazioni metafisiche (o Meditationes de prima philosophia, 1641) il luogo chiave e programmatico sin dal sottotitolo: «animae humanae a corpore distinctio demostrantur».

Un’altra risposta è: Kant. E anche questa è del tutto corretta poiché è nella Critica della ragion pura (1781-1787) che la realtà indubitabile del mondo diventa una ‘cosa in sé’ certamente esistente ma altrettanto sicuramente mai conoscibile dall’essere umano, generando in questo modo una netta frattura tra il mondo di Homo sapiens e quello di ogni ente possibile e pensabile.

Ma forse la risposta più corretta è: Berkeley. Nel Treatise Concerning the Principles of Human Knowledge (1710) emerge infatti con insuperata radicalità la tendenza soggettivista, idealistica e antropocentrica della filosofia contemporanea. Tendenza rafforzata dallo scetticismo di Hume sulla inconoscibilità e insussistenza di due dei concetti fondanti la metafisica: sostanza e causalità.

Nel 1909 Lenin affrontò l’intera tradizione idealistica e scettica del pensiero moderno – quella che appunto ha i suoi maggiori esponenti in Berkeley, Hume e Kant – attaccando una delle loro propaggini contemporanee, la gnoseologia e la filosofia della scienza di Richard Avenarius e di Ernst Mach, l’«empiriocriticismo». E soprattutto attaccando i seguaci russi di Avenarius e Mach che ritenevano di poter conciliare il materialismo dialettico di Marx ed Engels con l’epistemologia empiriocriticista.

Con la consueta chiarezza, Lenin così riassume l’empiriocriticismo: «Sia Mach che Avenarius, partendo da Kant, si sono incamminati non verso il materialismo, ma nella direzione opposta, verso Hume e Berkeley»; «Quando Mach dice: i corpi sono complessi di sensazioni, Mach è un berkeleiano. Quando Mach ‘rettifica’: gli ‘elementi’ (le sensazioni) possono essere fisici in un determinato rapporto e psichici nell’altro, Mach è un agnostico e un seguace di Hume. Mach nella sua filosofia non esce da queste due linee»[1]. Nel complesso si tratta per Lenin di filosofie eclettiche che non aggiungono nulla all’idealismo di Berkeley, a parte la sua esposizione in un linguaggio aggiornato alla contemporaneità.

Come Berkeley, infatti, Mach e Avenarius ritengono che la nostra conoscenza non entri mai in contatto con il mondo ma soltanto con le ‘sensazioni’ che abitano nella coscienza, con quanto Kant ha definito ‘fenomeno’. Il mondo della materia, la cosa in sé, se esiste è inattingibile. Questo è il cuore metafisico di ogni idealismo soggettivistico.

Il vescovo Berkeley, come in altro modo Descartes, non dubita di fatto mai dell’esistenza del mondo ‘esterno’ perché il suo garante è Dio ma nega qualunque esistenza di «quella che i filosofi chiamano Materia o sostanza corporea» (§ 34 del Treatise). Lenin ritiene che partendo dal presupposto soggettivistico dell’empiriocriticismo la conclusione debba essere analoga al fideismo trascendente di Berkeley, che deduce le idee presenti nella mente umana dall’azione che una divinità esercita sull’intelletto. Il mondo perde in questo modo ogni autonomia e diventa l’effetto di una causa ‘spirituale’, unica garante della costanza della natura e della realtà.

Dove queste garanzie trascendenti, che siano Dio o il Geist, vengono a mancare, il risultato è che gnoseologia e metafisica cadono nello scetticismo sterile o nel più bizzarro solipsismo: «Il modo differente di esprimersi di Berkeley nel 1710, di Fichte nel 1801 e di Avenarius negli anni 1891-1894 non cambia assolutamente la sostanza delle cose, cioè la linea filosofica fondamentale dell’idealismo soggettivo. Il mondo è la mia sensazione; il non-Io è ‘posto’ (creato, prodotto) dal nostro Io; l’oggetto è indissolubilmente legato alla coscienza» (p. 81). La domanda da porre è dunque molto semplice, se la si vuole porre facendosi comprendere, ed è la seguente:

Bisogna procedere dagli oggetti alla sensazione e al pensiero? O dal pensiero e dalla sensazione agli oggetti? Engels segue la prima via, la via materialistica. Mach segue la seconda via, la via dell’idealismo. Nessun sotterfugio, nessun sofisma […] può eliminare il fatto chiaro e indiscutibile che la dottrina di Ernst Mach, la dottrina delle cose considerate come complessi di sensazioni, è idealismo soggettivo, è una semplice rimasticatura della dottrina di Berkeley. Se i corpi sono ‘complessi di sensazioni’, come dice Mach, o ‘combinazioni di sensazioni’, come diceva Berkeley, ne consegue inevitabilmente che tutto il mondo non è che una mia rappresentazione. Partendo da questa premessa, non si può ammettere l’esistenza di altri uomini all’infuori di se stessi: questo è il più puro solipsismo (p. 53).

In modo assai netto, e certo anche molto tranchant, Lenin sostiene dunque che le diverse filosofie si possano ricondurre o all’ambito idealistico o a quello realistico, che lui definisce comunque sempre ‘materialistico’. Attraverso la critica all’empiriocriticismo Lenin ha come obiettivo operativo la polemica contro l’accoglienza che troppi marxisti russi, in particolare Aleksandr Bogdanov, hanno fatto delle posizioni di Mach. Se infatti e «naturalmente ogni cittadino, e particolarmente ogni intellettuale, ha il sacro diritto di seguire qualunque ideologo reazionario» non ha però il diritto di presentarsi come marxista e di pretendere di ‘correggere’ in una prospettiva empiriocriticista il materialismo dialettico e il materialismo storico.

Questo è lo sfondo teoretico-politico nel quale Lenin elabora la propria critica non soltanto all’empiriocriticismo ma in universale alle filosofie idealistiche e soggettivistiche. Lungi dall’essere una forma autonoma di elaborazione soltanto mentale e solipsistica, la sensazione costituisce per Lenin un legame diretto della coscienza con il mondo nel quale ogni coscienza possibile e pensabile viene alla luce, il mondo materico. Dire, ad esempio, che «il colore è il risultato dell’azione di un oggetto fisico sulla retina» significa dire che «la sensazione è il risultato dell’azione della materia sui nostri organi dei sensi» (pp. 68-69).

In generale il materialismo gnoseologico e metafisico consiste nel riconoscere l’autonomia ontologica della materia rispetto a qualunque coscienza, sensazione ed esperienza dei singoli individui umani come dell’intera specie. Significa precisamente che «1) il mondo fisico esiste indipendentemente dalla coscienza dell’uomo ed esisteva molto prima dell’uomo, prima di qualsiasi ‘esperienza umana’; 2) lo psichico, la coscienza, ecc. è il più alto prodotto della materia (cioè del fisico), è una funzione di quella particella particolarmente complessa della materia che si chiama cervello umano» (p. 245).

In questo senso, e contro Kant come contro qualunque fenomenismo, la cosa in sé è conoscibile e «non vi è né vi può assolutamente essere differenza di principio tra il fenomeno e la cosa in sé. La differenza è semplicemente fra ciò che è noto e ciò che non è ancora noto» (p. 116); e quindi la trasformazione della ‘cosa in sé’ in ‘cosa per noi’ accade di continuo e consiste in ciò che chiamiamo conoscenza.

A essere primordiale non è la sensazione ma la materia dalla quale scaturisce la sensazione, la quale è anch’essa un fenomeno materiale che accade nel corpomente, in un qualsiasi corpomente, che sia quello dell’animale umano come di qualunque altro essere vivente. È quanto Lenin sostiene ad esempio riguardo alla percezione visiva. Le onde luminose esistono infatti indipendentemente dall’occhio che le cattura e «proprio questo è il materialismo: la materia, agendo sui nostri organi sensori, produce la sensazione. La sensazione dipende dal cervello, dai nervi, dalla retina, ecc. ecc., cioè dalla materia organizzata in un modo determinato. L’esistenza della materia non dipende dalle sensazioni. La materia è primordiale» (p. 67).

Naturalmente possono poi essere formulate ipotesi anche assai diverse sulle modalità relative alla elaborazione che il cervello fa delle immagini e di ogni altra sensazione. E infatti Lenin condivide la critica di Engels ai materialisti ‘volgari’ e alla loro «concezione secondo la quale il cervello secerne il pensiero allo stesso modo in cui il fegato secerne la bile» (59). In ogni caso il postulato fondamentale del materialismo è un altro e consiste nel riconoscimento della materia come una categoria filosofica che semplicemente indica e designa la realtà oggettiva che le sensazioni umane e animali riflettono ma che in nessun modo producono. Lenin sintetizza con chiarezza il problema e la sua soluzione affermando che «in gnoseologia il concetto di materia non ha nessun altro significato all’infuori di questo: realtà obiettiva esistente indipendentemente dalla coscienza umana e rispecchiata da essa» (p. 280).

Si tratta, anche se Lenin non apprezzerebbe tale accostamento, dello stesso realismo della filosofia medioevale e prima ancora dell’intero pensiero greco. Come Aristotele, Lenin ribadisce l’inseparabilità di materia e movimento; contro una delle tesi dell’empiriocriticismo sostiene infatti non la riduzione del movimento a sensazione o la deduzione della sensazione dal movimento ma il fatto che qualunque sensazione sia una proprietà della materia in movimento

In generale la prospettiva materialista di Lenin è dal punto di vista metafisico analoga al realismo della filosofia classica e all’ontologia di Heidegger, il quale a proposito di Kant afferma che «per i Greci le cose appaiono. Per Kant le cose mi appaiono. Nel tempo intercorso tra i due è accaduto che l’ente è diventato oggetto, ciò che sta di fronte (Gegen-stand, obiectum o meglio: res obstans). Il termine oggetto non ha alcun equivalente in greco»[2].

I Greci, la Scolastica, Lenin e Heidegger per quanto diversi e tra di loro lontani sostengono una filosofia oggettiva e non antropocentrica, la stessa che Lenin riconosce nei materialisti del Settecento e in Diderot. Il corpomente umano è una parte della natura/materia, non è la natura/materia una parte del corpomente umano. Per questo bisogna «riconoscere l’esistenza delle cose, dell’ambiente, dell’universo, indipendentemente dalla nostra sensazione, dalla nostra coscienza, dal nostro Io e dall’uomo in generale» (p. 82).

Lenin accosta esplicitamente tale materialismo a ciò che in filosofia si chiama tecnicamente «‘Realismo ingenuo’, cioè quel punto di vista materialistico, spontaneo e inconscio, proprio dell’umanità intera, che riconosce l’esistenza del mondo esterno indipendentemente dalla nostra coscienza» (p. 73)[3].

La conseguenza sulla questione fondamentale dello spaziotempo è coerente con tale epistemologia oggettivistica e «deve inevitabilmente riconoscere anche la realtà obiettiva dello spazio del tempo, a differenza, anzitutto, del kantismo il quale, come l’idealismo, considera lo spazio e il tempo come forme dell’intuizione umana e non come realtà obiettive» (p. 191). Lenin chiarisce giustamente e opportunamente che non bisogna confondere la variabilità dei concetti di spazio e di tempo con l’impensabilità e l’impossibilità che umano e natura esistano fuori dallo spazio reale e dal tempo reale. A questo proposito credo che le riflessioni sull’empiriocriticismo elaborate nel 1909 possano essere ancora assai proficue per una critica all’interpretazione di Copenaghen della fisica quantistica, non a caso nota come interpretazione ‘idealistica’:

I grandi progressi delle scienze naturali, la scoperta di elementi semplici e omogenei della materia, le cui leggi del movimento ammettono un’elaborazione matematica, fanno dimenticare la materia ai matematici. ‘La materia scompare’: restano soltanto equazioni. Nel nuovo stadio di sviluppo sembra che si ripresenti la vecchia idea kantiana: la ragione detta le sue leggi alla natura (p. 329)[4].

Certo, questo libro di Lenin presenta aspetti del tutto contingenti quali le ripetizioni degli stessi concetti, la declinazione fortemente polemica, la tonalità militante. E tuttavia a un secolo dalla morte del suo autore credo che Materialismo ed empiriocriticismo sia un testo dalla chiarezza esemplare nell’indicare la nudità del sovrano idealista, soggettivista, solipsista che ancora regge molte terre delle scienze e delle filosofie contemporanee.

Si tratta di un’opera che conferma la fecondità del realismo, il quale prende atto dell’indubitabile, del fatto che qualcosa c’è oltre l’io, oltre il soggetto, oltre la specie, al di là della tracotanza che vorrebbe legare l’universo alla Terra abitata dagli umani e che invece lega gli umani ai confini nei quali abitano, ai limiti di ciò che sono, alla materiatempo. La materia e il tempo esistono e solo per questo possono poi essere, anche se in modi imperfetti, conosciuti. Gli oggetti della conoscenza umana sono indipendenti da tale conoscenza ed è invece l’umano che nel conoscerli dipende dalle proprie particolari e specifiche modalità di conoscenza. La seconda parte di questa affermazione è la verità di ogni idealismo ma si tratta di una verità possibile soltanto sul fondamento della prima parte della frase, solo sul fondamento del fatto che qualcosa è, indipendentemente dall’essere pensata o meno da uno specifico corpomente animale.

NOTE

[1] V.I. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo. Note critiche su una filosofia reazionaria (1909), Edizioni Lotta Comunista, Milano 2004, pp. 379 e 221. I numeri di pagina dei successivi riferimenti a questo libro saranno indicati tra parentesi nel testo.

[2] M. Heidegger, Seminari, a cura di F. Volpi, trad. di M. Bonola, Adelphi, Milano 2003, p. 92.

[3] Sul realismo ingenuo si può assai utilmente consultare il paragrafo 2.5 della Storia dell’ontologia curata da Maurizio Ferraris, dal titolo Teorie ingenue (di Y. Berio Rapetti e D. Tagliafico, Bompiani, Milano 2008, pp. 273-295), tra le quali rientrano quelle di epistemologi come Paolo Bozzi e James Gibson.

[4] Per una discussione della interpretazione di Copenaghen aggiornata e interna alla fisica ma con notevoli elementi epistemologici, cfr. L. Smolin, La rivoluzione incompiuta di Einstein. La ricerca di ciò che c’è al di là dei quanti, Einaudi, Torino 2020; D. Lindley, Quale universo? Come la fisica fondamentale ha smarrito la strada, Einaudi, Torino 2021.

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