Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.
Recensione a
D. Mengozzi, Lenin e Oriani. Il «corpo sacro» del leader nelle religioni politiche del Novecento
Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena 2021, pp. 192, € 16,00.
Milan Kundera scrisse una volta che a distinguere i giovani dai vecchi è anche l’atteggiamento che si ha davanti alla morte: i vecchi, infatti, quando pensano alla propria fine, si preoccupano anche e soprattutto di ciò che accadrà al proprio cadavere, a come sarà trattato, in che mani esso finirà. Il problema del “dopo”, della tomba ma non soltanto, sembra più assillante di quello della propria stessa immortalità. Parallelamente, anche ogni regime politico, specie se di genere autoritario o francamente totalitario, ha sempre dovuto preoccuparsi del problema del cadavere del capo di turno appena scomparso, di come governare il momento critico dato dal vuoto di potere, ma anche di come trarre il massimo profitto dalle emozioni che quella morte può suscitare nelle masse. La “morte del capo” è sempre pericolosa, ma anche promettente, per chi si trova nell’orbita del potere, perché essa rappresenta necessariamente un momento di verifica sul proprio valore e sulla tenuta della fedeltà dei propri sodali.
Questo discorso è valso massimamente per il totalitarismo sovietico, a cominciare dalla scomparsa, il 21 gennaio 1924, di Lenin. Dino Mengozzi, storico a Urbino, parte da quella morte per allestire un discorso molto affascinante sul rapporto fra corpo e politica nel Novecento e lo fa accostando il destino capitato alle spoglie di Lenin al destino toccato a quelle di Alfredo Oriani, scrittore romagnolo inclassificabile ed eccentrico come pochi, che era morto nel 1909 ma per il quale, proprio in quel 1924, Mussolini in persona volle far creare un mausoleo (con tanto di esposizione in permanenza del sarcofago) nella stessa casa dello scrittore, a Casola Valsenio, nelle colline del ravennate.
In entrambi i casi, pur così diversi fra loro per mille ragioni, c’è un cadavere che viene usato da un regime come elemento fondativo di una vera e propria religione politica. Il corpo morto perde ogni individualità e diventa una specie di reliquia laica, a disposizione di tutti i pellegrini. Sia nel caso di Lenin sia in quello di Oriani, il potere usa l’arma potentissima dell’esposizione di una specie di corpo taumaturgico, prolungando all’infinito l’emozione del lutto. Nel caso russo, poi, il corpo imbalsamato di Lenin assume davvero la funzione, quasi diabolica a pensarci nel contesto di un regime anticlericale e materialista come quello sovietico, di fondazione di una nuova chiesa, di una nuova Roma: come la tomba di Pietro per i cattolici, così il cubo che contiene la mummia di Lenin è stato pensato come centro assoluto per i comunisti di tutto il mondo. Il primato sovietico si è concretato nella cripta atea dove il vecchio capo riposa, inedita figura di morto-non-morto. Ovviamente, è stato Stalin a volere questa messinscena, peraltro indubbiamente efficace, e a beneficiarne in termini di propria legittimazione. La Piazza Rossa, una vera e propria piazza-cimitero, dove riposa non soltanto Lenin, si è così trasformata nel miglior luogo dove mostrare lo splendore del potere ereditato. Senza dubbio, l’uso politico del cadavere di Lenin, con il relativo mausoleo, ha rappresentato un notevole successo, tanto da avere parecchi casi di emulazione (da Mao a Franco a Che Guevara). Esso ha permesso di confermare masse di fedeli nella loro fede, dando loro l’illusione di poter avvicinare, di poter avere un contatto diretto il corpo sacro del leader.
Con l’imbalsamazione di Lenin, la scienza sovietica ha voluto sfidare la morte, regalando al dittatore scomparso una doppia immortalità, sia fisica sia spirituale. Oggi, ovviamente, resta soltanto la prima: chi si reca oggi alla tomba di Lenin non lo fa più per motivi di fede politica, ma per pura curiosità turistica. Eppure, Lenin sembra inamovibile e proprio perché immortale. Nella assoluta trasparenza della teca, il corpo di Lenin ha perso qualsiasi dimensione privata, è uscito dal tempo: esso non è più – come una volta – una specie di avamposto, di simbolo del futuro radioso sovietico, che avrebbe forse potuto garantire un giorno addirittura la risurrezione scientifica dei morti. Esso è ormai soltanto un oggetto totalmente spersonalizzato, insignificante, eppure, in qualche modo, condannato all’immortalità.
Allo stesso modo, un altro regime novecentesco, quello fascista, usò il corpo morto di un intellettuale come Alfredo Oriani, manipolando largamente la sua figura e il suo pensiero, al fine di costruirsi un nobile precursore. Mussolini volle fare di Oriani una specie di profeta, un genio incompreso (ma geniale pur sempre un po’ meno del duce…), vittima dei soliti benpensanti, boicottato dai mediocri. Anche in questo caso, tramite il martirologio postumo e inventato di Oriani, Mussolini voleva ovviamente parlare soltanto di sé, celebrarsi come attuatore di ciò che lo scrittore romagnolo aveva saputo soltanto vagheggiare. Ecco che il 27 aprile del 1924, una specie di pittoresca processione, allo stesso tempo militaresca e popolare, avviò il nuovo culto di Oriani presso la sua casa-mausoleo, il Cardello, dove vennero trasferiti i suoi resti.
L’inviato del «Corriere della sera» ne faceva un resoconto dettagliato. L’arrivo di Mussolini a Riolo risolveva intanto un dubbio: si andrà davvero a piedi. Il Duce partiva a passo veloce e dietro di lui si formava un corteo di tre chilometri, stimato in diecimila persone. Non tutti, però, ne tengono il passo e per riguadagnare posizioni c’è chi prende scorciatoie o taglia i gomiti delle curve per rimettersi fra le posizioni di testa. «La freschezza eccezionale del Presidente – come notava il giornalista – comincia a far contrasto con quella di alcuni del gruppo che marciano con minore baldanza». E sarebbe stato poco prima della frazione di Rivola, a metà del percorso, che a una osservazione di Paulucci de Calboli su quelli che perdevano terreno, Mussolini avrebbe risposto: «Non ho pietà per i grassi!». Tempi da marcia forzata: due ore in tutto per raggiungere casa Oriani; eloquente messa in scena di quell’energia giovanile che il Duce evocherà nel discorso al Cardello (pp. 122-123).
Mussolini, inaugurando una successiva serie infinita di visite rituali all’ultima dimora dello scrittore, voleva sollecitare un culto allo stesso tempo popolare e intellettualistico, ideologico e sentimentale, con cui il popolo potesse respirare, accostandosi alla tomba di un “martire”, lo spirito fascista più genuino. Il Cardello è stato, appunto, un altare politico dove celebrare il nuovo capo.
Al di là della artificiosità di questa appropriazione, il mito di Oriani funzionò realmente nell’ambito di un vero e proprio “turismo fascista”, che comportava, assieme alla visita al Cardello, ovviamente quella a Predappio, la Betlemme del fascismo. Nel culto di Oriani, del suo corpo ormai solo di pietra, Mussolini intuì la possibilità di farsi sacerdote e, respingendo, fra l’altro, integralmente l’indubbio individualismo proprio della figura dello stesso Oriani, la possibilità di celebrare la religione politica dell’uomo nuovo fascista.