Enrico Palma (1995) è dottore di ricerca in Scienze dell’Interpretazione e collaboratore della cattedra di Filosofia teoretica del Disum di Catania. Ha pubblicato saggi, articoli e recensioni per numerose riviste nazionali e internazionali. Le sue aree di ricerca sono principalmente la metafisica, le intersezioni tra filosofia e letteratura in chiave ermeneutica e l’ontologia della scrittura letteraria. Nel 2022 ha partecipato alla collana Greco. Lingua, storia e cultura di una grande civiltà del "Corriere della Sera" con la cura del volume ψυχή. L’anima. Nel 2024 ha pubblicato De scriptura. Dolore e salvezza in Proust (Mimesis, Milano-Udine). Nel 2024 ha conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale alle funzioni di Professore di II fascia per il S.S.D. di Filosofia Teoretica (11/C1).
Recensione a: L. Murat, Proust, romanzo familiare (Proust, roman familial, 2023), trad. di M. Di Leo e G. Sanseverino, Sellerio, Palermo 2025, pp. 304, €15,00.
Ciò che colpisce di questo libro, che unisce il rigore critico-ricostruttivo alla testimonianza biografica, sono la limpidezza e l’eleganza della scrittura, che, forse a dispetto delle intenzioni emancipatrici dalla nobiltà di cui l’autrice parla diffusamente, per la diretta discendenza dal famoso Murat e per la scelta del tema, possono essere considerate, in realtà, un’ulteriore prova della raffinatezza spirituale ed espressiva con cui ci si deve avvicinare a Proust, che Proust, in fondo, richiede e prescrive ai suoi lettori. Una raffinatezza che però, in certi momenti della Recherche, come sottolinea giustamente Murat, specialmente quella che appartiene all’aristocrazia e alla mondanità parigina più snob oggetto del romanzo, deve essere squarciata per appropriarsi di se stessi. Non è del tutto peregrino, infatti, considerare l’epopea del Narratore come un attraversamento storico-sociale della nobiltà francese, o di ciò che stancamente ne rimaneva, seguendone passo dopo passo, festa dopo festa, l’inesorabile tracollo, che è un altro degli effetti della metafisica temporale che agisce tanto nella Recherche quanto nella realtà. Un lento e indefettibile corrompersi delle cose e delle persone a cui, con la scrittura, trovare un rimedio. La Recherche, non a caso, si conclude con la promessa di raccontare quelle stesse persone in un libro che ne cogliesse i caratteri, come un fisico farebbe ponendosi alla ricerca delle leggi dei fenomeni naturali, allo scopo di mostrarne le sporcizie morali, gli spaventosi egoismi, le più nefande turpitudini, cose che, del resto, appartengono a tutti gli umani ma che nei nobili assumono un aspetto di brillante eleganza.
È a partire da quest’ultima indicazione, teoretica e psicologica, che Murat descrive il debito personale che deve alla lettura della Recherche, esibendo in modo evidentissimo quanto l’accostamento all’opera di Proust sia un’esperienza di liberazione e di salvezza. Il desiderio dell’autrice era di distaccarsi da questa nobiltà, da questa aristocrazia vuota, vittima delle sue stesse procedure, bugie e meschinità, rispetto alle quali Proust, con l’acume della sua lente analitica, ne rovescia il fodero, mostra in maniera implacabile la verità che sta dietro a ogni dissimulazione. Per Murat, il monumento che è la Recherche è «lo spazio intelligente che invitava a girare senza fine, a entrare, uscire, arrampicarsi, ridiscendere, imboccare tutte le scale e percorrere tutti i corridoi del Tempo» (p. 80). Un’esperienza di profonda verità, un’opera in cui il Tempo, nel suo aspetto prismatico e imprendibile, si fa spazio, come in una galleria d’arte nella quale per ogni quadro Proust raffigura un concetto. Ma è anche uno spazio sopraelevato, che rispetto alla miseria del mondo umano e alla sua inevitabile decadenza cerca, con la comprensione che si può ottenere di tutto questo, di non compromettersi mai con essa. «L’enorme superiorità di Proust rispetto a una classe sociale vanitosa e incolta mi ha colpita in modo memorabile, suggerendomi la più liberatoria delle identificazioni simboliche, rafforzata a ogni successiva rilettura: le persone che mi circondavano erano, stricto sensu, personaggi di Proust. E, a ulteriore conferma della mia convinzione, non se ne rendevano neanche conto» (p. 81).
Tuttavia, l’indicazione che Murat offre non è da intendersi come una mera sovrapposizione, cioè di collocare le forme proustiane dell’umano sulle loro concretizzazioni reali. Anzi, tutto il contrario. Come un’idea platonica, il personaggio proustiano è una lanterna per la visione nel buio dell’incomprensione. Ed è per questo che, per un’aristocratica di alto lignaggio come l’autrice, le luci di Proust sono le uniche, le indispensabili, per capire il proprio mondo, poterlo trapassare da parte a parte. Grazie, soprattutto, alla magia della penna proustiana: «Traduceva in parole e paragrafi intelligibili quello che avevo sotto il naso da quando ero nata. Fu uno shock. Per la prima volta, infatti, la forma proustiana dava senso alla vacuità della forma aristocratica. Il testo suppliva al vuoto, il romanzo prendeva in carico il niente e la futilità di un mondo che credeva di possedere la chiave del proprio regno; la letteratura forniva consistenza, densità e spessore a una pantomima senza scopo, a tutto un susseguirsi di scene raffinate ma prive di carne e d’interesse» (p. 91). La carne del mondo diventa la parola, la scrittura letteraria, che attribuisce una nuova dignità e un nuovo contenuto a ciò che ne è privo, come l’aristocrazia impaludata in un eccesso di forma che la svuota di ogni materia. Sicché, anche per questa ragione Proust può essere considerato un filosofo della forma, dell’idea, il creatore di un iperuranio in cui i fenomeni vengono salvati. Per dirla con brevità, un modo di porgere la mano o di salutare sommessamente erano redenti da una frase che li cogliesse ed esprimesse, in un’estetica dell’astrazione che crea la forma colmando qualcosa di assolutamente inconsistente. «Così, rappresentando figure in rappresentazione, Proust, capace di penetrare i segreti della pantomima, li restituisce in qualche modo alla loro natura vera, positiva, come nella formula matematica – x – = +» (p. 95).
Anche in questo senso, come detto, la lettura della Recherche diventa una via per la salvezza. Certamente, il mondo descritto da Proust non esiste più, travolto dalle maree implacabili della storia, e pochi lettori possono riconoscersi in questa alta società. Ed è anche per questa ragione che il racconto di Murat acquista interesse. «L’aristocrazia gli aveva fornito un esercito di burattini, sempre di profilo; lui le rimandava la lunga scena cangiante di una folla in rilievo e in movimento. Il fucile con l’anima vuota si ritrovava a un tratto con il caricatore pieno» (p. 103). Di cosa avrebbe dovuto parlare il suo futuro romanzo, si chiede il Narratore, passeggiando sbigottito e incredulo in quel Trionfo della Morte che è il Bal de Têtes, l’ultimo, mastodontico, teatro mondano con cui si chiude il libro? Ce li aveva intorno gli argomenti, i temi, le trame, quegli uomini e quelle donne nel loro durare nel Tempo. «Devo a Marcel Proust l’immensa consolazione di aver colto questa verità delle mie origini grazie alla letteratura, tanto più precisa e inoppugnabile della Storia. È un debito straordinario che non ho mai avuto e non potrò avere con nessun altro autore» (p. 103). È una consolazione dovuta, anzitutto, dal riconoscimento che la lettrice Murat ricava dalla lettura del romanzo, ritrovandovi il nefando, l’omosessualità associata al peccato e la voluttà portata fino alla vergogna del vizio, in cui pur si cela il lato fascinoso del male e del negativo. Negativo che per Proust ha le caratteristiche di un vero e proprio universale, quello dell’inversione. «L’intimo legame tra cattivo gusto e aristocrazia, volgarità di sentimenti e nobiltà di rango, lungi dall’essere una contraddizione, costituisce un paradosso apparente di cui Proust ha fatto una costante della Recherche, mettendo in scena un progressivo disvelamento sociale in cui, per ammissione dello stesso autore, alla fine i personaggi si rivelano tutto il contrario di come sembravano all’inizio. Dietro l’uomo di mondo, lo zotico. Dietro una leggendaria duchessa, una donna ordinaria. Il virile si rivelerà effeminato, il nobile ignobile. La Recherche, ovvero il grande libro dell’inversione» (p. 111-112). In questo senso, il liberatorio è l’esperienza del contrario, un mondo scintillante che si rivela un’accozzaglia di inanità. Strategia che tocca il suo apice nel celebre episodio delle scarpe di Oriane analizzato con grande cura dall’autrice.
Sono toccanti le espressioni che Murat utilizza per descrivere questo libro di salvezza, perché, semplicemente, dice la verità, sulla menzogna dell’amore, sulla brutalità delle relazioni umane, sull’indifferenza verso la tenerezza e sulla fine di ogni cosa, a cui comunque Proust ha insegnato a guardare con la poesia che solamente può redimere il nostro essere qui in mezzo a tale imperdonabile efferatezza. La Recherche «è come l’universo: in perpetua espansione» (p. 242), «una fonte di gioia e di conoscenza a cui il tempo non toglie nulla» (p. 243).