Niccolò Mochi–Poltri (1991): è impegnato da molti anni in attività di promozione culturale con le associazioni “Sur Les Murs” e Fondo Marco Mungai, delle quali è membro. Laureato in Scienze storiche, studioso appassionato di Filosofia, concentra i suoi interessi di ricerca sull’analisi della cultura politica dell’età moderna e contemporanea. Ha pubblicato Società. Divenire storico e conservazione (introduzione di F. Cardini, Roma–Cesena 2018).
Troverai a destra delle case di Ade una fonte,
e accanto ad essa eretto un bianco cipresso:
a questa fonte non avvicinarti neppure.
Più oltre troverai la fredda acqua che scorre
dal lago di Mnemosyne. Vi stanno innanzi custodi,
ed essi ti chiederanno a qual fine sei venuto fin lì.
A loro tu esponi tutta la verità [ΠΑΣΑΝ ΑΛΗΘΕΙΗΝ ΚΑΤΑΛΕΞΑΙ];
dì: ‘Son figlio della Terra e del Cielo stellato;
Asterios è il (mio) nome. Son arso di sete: ma datemi
da bere dalla fonte.
Così recita una delle lamine d’oro orfiche, proveniente da Farsalo (Tessaglia), e databile alla seconda metà del IV secolo a.C. Giovanni Pugliese Carratelli commenta così il passaggio che abbiamo messo in evidenza:
[…] l’espressione omerica αληθειαν καταλεξαι assume nel testo un particolare valore, come indice di cognizione della verità, e αληθεια per la sua stessa composizione si presenta quale antitesi dell’oblio (ληθη) e rievoca dunque immediatamente la Μνημοσυνη che predispone la salvezza dell’iniziato[1].
Si dice che la Verità inerisce immediatamente all’alveo semantico del ricordo, o meglio: della non-dimenticanza (α-ληθεια). La lamina offre l’immagine di acque che scorrono: l’una scorre da una certa fonte; l’altra scorre dalle acque del lago di Mnemosyne (≈ “memoria”). Viene da pensare che queste acque scorrano in direzioni opposte: la prima, verso il basso; la seconda, verso l’alto – così che se il dimenticare è uno scivolar via, il ricordare è un risalire.
Questo movimento di risalita è la dinamica della αναμνησις descritta da Platone. Detta anche «reminescenza», la αναμνησις è dottrina inventata prima di Platone già dagli orfici, per l’appunto, e dai pitagorici – scuole sapienziali alle quali lo stesso Platone era iniziato.
La αναμνησις è ipso facto la constatazione che la nostra anima, ψυχη, frequenta le regioni iperuraniche – cioè divine. Ora: se l’anima è ciò che informa ontologicamente l’Uomo; e se l’anima può frequentare le regioni divine; allora l’Uomo è in qualche modo conforme al divino. Perciò, la αναμνησις rivela la dignità essenziale della nostra natura: che consiste nel poter partecipare al divino.
Il “ricordare” assume dunque il senso di metafora fenomenologica della disposizione ontologica dell’Uomo. Interpretata in questo senso, possiamo affermare che la αναμνησις sia una forma di consapevolezza – e così la interpretavano gli orfici, i pitagorici e Platone stesso. Consapevolezza di cosa? Della natura divina della nostra anima. E siccome ciò che è migliore non può derivare da ciò che è peggiore; e siccome non c’è niente di migliore di Dio («Id quo maius cogitari nequit», s. Anselmo di Canterbury); allora: la nostra anima è divina, e non può esservi niente di migliore – se non Dio stesso[2]. In altre parole, il ricordare anamnesico è un esercizio spirituale vòlto a recuperare[3] la coscienza (= autocoscienza) della origine divina della nostra anima, così da creare quei presupposti imprescindibili per ricongiungerci all’Origine stessa[4].
Così come la αναμνησις, reminescenza o ricordo che dir si voglia, è una forma di consapevolezza; così, mutatis mutandis, lo dev’essere anche la dimenticanza. In questo senso, possiamo considerare la dimenticanza come una forma di “non-consapevolezza”. Siccome il sapiente, σοφος, è il consapevole par excellence, se ne deduce che colui che dimentica è l’insipiente, lo stolto («Lo stolto pensa: ‘Dio non esiste’», Sal 53, 2), colui che «segue la via sinistra» e finisce col cadere nel Ληθη, nella dimenticanza.
La dimenticanza intesa come non-consapevolezza allontana da Dio, che è il Bene. Perciò, la dimenticanza è in sé male. Ora: il male non è che una privazione di Bene, cioè non ha una sua propria indipendenza ontologica – così che la dimenticanza non può essere la costituzione ontologica propria dell’Uomo. Egli si rivela piuttosto come ontologicamente ricordante, cioè come colui che è disposto alla αναμνησις – e che vi è disposto in quanto ente divino, generato dal Bene/Dio che vuole il suo ritorno a Lui. Ne consegue che se l’Uomo “dimentica”, dev’essere a causa di una vulnerazione della sua natura. Questa vulnerazione è quella determinata dal peccato originale – che è appunto ciò che ha decretato l’allontanamento dell’Uomo da Dio.
Ciò detto, possiamo tentare una spiegazione metafisica di quella disposizione d’animo (d’anima!) chiamata da Mircea Eliade: «nostalgia dell’Origine», e che è stata rilevata come il fondamento degli universi religiosi di molte culture tradizionali. Quanto manifestato fenomenologicamente nelle culture tradizionali come nostalgia di una dimensione divina, come lontananza dolorosa, sofferta, dell’Uomo dagli dei/dio, è la conseguenza psicologica di una condizione ontologica.
Intanto, occorre dire che si è “nostalgici” perché si “ricorda” – cioè: prima si ricorda, poi si prova nostalgia. Ma tale ricordare non è solo un rievocare certi miti d’origine, di cui sono protagonisti di volta in volta dei o eroi ancestrali diversi a seconda della cultura presa in considerazione. Nella sua essenza, tale ricordare non è mitopoiesi, bensì coscienza sapienziale che deriva a sua volta dalla condizione ontologica originaria dell’Uomo: quella di ente divino separatosi da Dio, ma che a Dio deve ricongiungersi perché Dio vuole che egli si ricongiunga con Lui.
Ergo: è dalla nostra condizione divina che deriva quella nostalgia per la distanza da Dio. Una nostalgia dell’Origine, perché Dio è l’Origine.
[1] Le lamine d’oro orfiche, a cura di G.P. Carratelli, Adelphi, Milano 2001, p. 74
[2] Ma: se Dio e l’anima «fossero una cosa sola»? (Cfr. Meister Eckhart, L’anima e Dio sono una cosa sola, a cura di M. Vannini, Le Lettere, Firenze 2020. Questo problema è talmente complesso che non può nemmeno esser posto in modo adeguato nell’economia del ragionamento che stiamo qui sviluppando.
[3] Ma si potrebbe dire anche: «a svelare» la nostra natura originaria. In questo senso, ritorna raddoppiato in pregnanza il termine αληθεια, che per l’appunto significa anche “svelamento”. E così αληθεια si rivela un termine che indica uno stesso concetto, quello della “verità sull’Uomo”, cioè che l’Uomo è divino, acquisito procedendo da direzioni razionali diverse, ma coincidenti in quello stesso centro concettuale. In altre parole, procedendo dal concetto di «non-dimenticanza» si giunge a quello di «svelamento», e viceversa.
[4] Come si potrebbe infatti andare alla ricerca di qualcosa, se non si sapesse di averlo perso?