Giampaolo Conte (1986) è ricercatore e docente in Storia economica presso il Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università degli Studi Roma Tre, dove insegna Storia Economica, Storia del Capitalismo e Geopolitica Economica. Ha svolto attività di ricerca ed è stato borsista presso l’Università di Cambridge e la London School of Economics LSE. Ha insegnato all’Università di Gand in Belgio e in Olanda presso l’International Institute of Social Studies ISS. Le sue ricerche sono state pubblicate sulle riviste internazionali "Oriente Moderno", "The Journal of European Economic History", "Eurasian Studies", "The International History Review", "Capital & Class", "Journal of Modern European History". È autore inoltre delle seguenti monografie: L’Odissea del Debito. Le crisi finanziarie in Grecia dal 1821 a oggi (con A. Albanese Ginammi; 2015); Il Tesoro del Sultano. L’Italia, le grandi potenze e le finanze ottomane 1881-1914 (2018); Il Credito di una Nazione. Politica, diplomazia e società di fronte al problema del debito pubblico italiano 1861-1876 (2021); Riformare i vinti. Storia e critica delle riforme liberal-capitaliste (2022).

La guerra commerciale di Trump è un maldestro tentativo di riequilibrare uno sbilanciato ordine commerciale e finanziario internazionale. Che sia per trattare bilateralmente da una posizione di forza, che sia per creare un nuovo (dis)ordine internazionale, la guerra commerciale lanciata

dall’amministrazione americana è espressione del tentativo maldestro di Trump di risolvere problematiche strutturali con l’uso deprecabile della forza. A partire dagli anni Sessanta gli Stati Uniti hanno iniziato ad accumulare un progressivo deficit commerciale finanziato attraverso il ricorso alla spesa pubblica. Tale aspetto non è, fino ad oggi, stato un problema, essendo il dollaro la valuta egemone e i titoli del tesoro americano (i Treasury) sono andati sempre a ruba tra gli investitori. Questo per via della loro titolarità in dollari e perché riflettono il potere politico, militare ed economico della prima potenza capitalista mondiale. Così gli Stati Uniti hanno beneficiato di una posizione unica al mondo: finanziare a costi bassi e costanti il proprio deficit con possibilità di attrarre beni e servizi da tutto il mondo. Il deficit per gli Stati Uniti non è un problema finché gli Stati Uniti rimangono la principale potenza economica globale e finché il dollaro assurge a valuta egemone.

Gli Stati Uniti hanno progressivamente abbandonato la produzione manifatturiera specializzandosi nei servizi e nella finanza, usando il dollaro per comprare tutto ciò che serve alla propria economia anche grazie alla potenza del proprio mercato interno, che beneficia di un alto livello di ricchezza pro-capite (Nel 2024 gli Stati Uniti hanno un reddito pro-capite di 86,601 mila dollari in riferimento al Pil). Uno dei vantaggi comparati americani è senz’altro l’appetibile mercato di consumo, il settore finanziario, high-tech, e pochi altri, quasi tutti concentrati nel settore di produzione immateriale, dominando altresì una parte importante delle catene di valore a livello internazionale. La posizione egemone del dollaro permette agli Stati Uniti di consumare liberamente quello che gli altri producono. Drenano ricchezza dal resto del mondo grazie all’utilizzo esteso del dollaro. Anzi, con la globalizzazione neoliberista questo processo non fa che polarizzarsi. La crescente finanziarizzazione, il crollo dell’Unione Sovietica e del suo blocco e l’affermarsi del dominio unilaterale americano dal 1989 alla crisi del 2008, sono emblema del sedimentarsi di questo modus operandi.

Il deficit americano vuol dire di fatto la ricchezza di altri paesi, come Cina ed Europa (specialmente la Germania) che beneficiano della posizione del dollaro e della sua capacità di generare un “sopravvalutato” potere d’acquisto per vendere le proprie merci accumulando, al contempo, pericolosi surplus commerciali. È tuttavia qui che si insinua il problema. Paesi come Cina e Germania (e in piccolo anche l’Italia) hanno usato i surplus derivanti dal commercio in attivo non per redistribuire la ricchezza aumentando complessivamente il potere d’acquisto, ma per aumentare le diseguaglianze interne mantenendo volontariamente i salari bassi (deflazione interna) per continuare ad avere un vantaggio commerciale, in linea con una tipica strategia neomercantilistica.

Teoricamente, un paese che ha un surplus commerciale vedrà progressivamente il suo potere d’acquisto interno aumentare (se non vi sono manipolazioni monetarie). In questo modo esporterà sempre di meno perché il maggior poter d’acquisto del mercato interno nonché la rivalutazione della moneta renderanno le sue esportazioni meno competitive e attireranno più importazioni. Così il paese che era in surplus commerciale andrà in deficit commerciale. A questo punto il paese in deficit, che ha perso competitività (al netto di una parità in termini di produttività del lavoro), vedrà il potere d’acquisto del mercato interno calare ritornando ad acquisire progressivamente quei vantaggi perduti per ritornare competitivo. Così la ruota torna a girare. Ma dalla teoria alla pratica ci sono le politiche inevitabili dei governi. Nel caso cinese, tedesco ed anche italiano, il maggior surplus commerciale non si è trasformato in un aumento del potere d’acquisto del mercato interno perché i salari sono tenuti bassi. La Cina, inoltre, non ha mancato di ostacolare la rivalutazione della moneta, vantaggio che la Germania riesce ugualmente ad ottenere grazie alla moneta comune. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno alterato il processo di progressiva diminuzione del potere d’acquisto del mercato interno grazie al ricorso al debito, sia pubblico (dagli anni ‘70) che privato (dagli anni ‘80).

Lo spostamento americano verso la finanza e verso una posizione di rentier globale ha distrutto il settore produttivo interno e la classe lavoratrice, in particolare i così detti colletti blu. Il debito privato ha per anni creato l’illusione dell’aumento della ricchezza per tutti (noto come keynesismo privato) per quanto essa si polarizzava verso la parte alta della piramide sociale. Se una buona parte dei lavoratori americani ha visto aumentare materialmente la propria ricchezza ad un tasso del 3% all’anno dal 1946 al 1973, dopo questa data tale tasso è rimasto immutato solo per i più ricchi, mentre per la classe media e quella operaia la quota si è abbassata tra lo 0.5 e l’1% all’anno. Come abbiamo visto, la differenza è stata compensata dal debito pubblico prima e da quello privato poi.

Trump vorrebbe teoricamente e maldestramente porre termine a questo disequilibrio commerciale esistente, che certamente non poteva e non può durare in eterno. Che sia realmente capace di ottenere dei risultati concreti e nei reali interessi degli Stati Uniti e degli operai americani è tutto da vedere, anche perché è sostenuto da gruppi di potere economico che hanno beneficiato enormemente degli squilibri sopra esposti. Al di là che si tratti o meno di propaganda, quello che è certo è che la responsabilità della presunta fine del sistema in vigore non è solo ed esclusivamente americana, ma di tutti quei paesi che hanno beneficato del sistema non volendone pagare il prezzo per il suo mantenimento. A farne le spese infatti sono state le classi lavoratrici che hanno visto progressivamente ridotto il proprio potere d’acquisto (nel così detto “nord capitalista”) e nei paesi emergenti come la Cina, dove i salari sono stati mantenuti volontariamente bassi. L’aumento di ricchezza derivante dal commercio (sia di prodotti industriali da parte europea e cinese che finanziaria da parte americana) è finito in poche mani grazie alla propaganda del “It’s the economy, stupid”. Per salvare il commercio internazionale bisogna salvare il salario reale, per quanto sia più conveniente pensare di farlo con strumenti più coercitivi e pericolosi per la pace internazionale.

Loading