Katiuscia Vammacigna, nata e cresciuta a Brindisi, si laurea in Filosofia a Lecce, specializzandosi a Parma, dove insegna per diversi anni. Tornata a Brindisi, si dedica a passioni quali scrittura, teatro, filosofia. Frequenta corsi di scrittura creativa e partecipa a diversi concorsi letterari. Nel 2018 si classifica seconda nel concorso letterario Verso l’altro, promosso dall’associazione Jonathan di Brindisi, con il racconto La mia terra non ha nome. Sempre nel 2018 riceve una menzione di merito per il Premio Letterario Nazionale Città di Mesagne con il racconto Odore di salsedine su Tunisi. Si definisce ironica, appassionata e curiosa di indagare ancora sè stessa e il mondo attraverso la scrittura.

Quando ti vedo mi prostro davanti a te
e alle tue parole […];
infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto Ipazia sacra.

Elogio di Ipazia, Epigramma di Pallada

Nel suo libro Ipazia d’Alessandria Gemma Beretta sostiene che è nel terzo verso che si evidenzia l’amore di Ipazia, per l’astronomia e la filosofia. Icona del libero pensiero e della laicità, la sua morte ne fa una martire del fanatismo religioso, consegnandola ai posteri come una delle maggiori filosofe. Le donne citate nella storia della filosofia sono poche. Sebbene nel mito greco è forte la presenza della donna come dea o eroina, con l’affermarsi del sapere filosofico il predominio maschile è quasi totale. La donna del mondo greco era esclusa dai ruoli direttivi nella cultura e nella politica. Ad essa era riservato un ruolo nell’economia domestica e nell’autorità religiosa, come sacerdotessa.

Eva Cantarella ne L’ambiguo malanno sostiene che Socrate ammetteva che alcune donne avevano saggezza superiore alla sua. Egli, però, non ne riconosceva parità con l’uomo. Aristotele era convinto dell’inferiorità della donna. Platone nella Repubblica sostiene che la donna può accedere alla guerra e alla politica ma, nelle Leggi, sottolinea che la donna non riceve la stessa educazione dell’uomo. Nella Grecia antica prevarrà la visione misogina aristotelica. È nell’ambito della scuola pitagorica che le donne fanno la prima apparizione come filosofe. Giamblico, nella Vita pitagorica, parla di 17 discepole di Pitagora. Nell’Atene del V secolo si distingue Aspasia di Mileto. Diotima, è citata nel Simposio di Platone. Diogene Laerzio nomina Ipparchia. Ma la maggiore filosofa dell’antichità greca, resta Ipazia.

Nata ad Alessandria d’Egitto nel 350 d.C. c., Ipazia fu matematica, astronoma e filosofa. Figlia di Teone, matematico e filosofo, fu iniziata agli studi dal padre. Lo storico Filorgio testimonia scoperte di Ipazia, sul moto degli astri. Socrate Scolastico la identifica come filosofa, caposcuola del platonismo, dopo Platone e Plotino. Essa sarà a capo della scuola alessandrina, come testimonia Sinesio, suo discepolo. Ma la mancanza di suoi scritti rende problematico stabilirne il contributo. La vita di Ipazia cominciò ad essere scritta venti anni dopo il suo assassinio, nel 415 d.C. I primi ad occuparsene furono due storici della Chiesa: Socrate Scolastico e Filostorgio. Un’altra biografia è quella del filosofo bizantino, Damascio di Damasco.

Silvia Ronchey nel libro Ipazia. La vera storia (Bur, Milano 2018) intende restituire, attraverso una corretta interpretazione di quelle prime testimonianze, un’immagine di Ipazia, edulcorata da falsi miti. La Ronchey definisce Ipazia ricercatrice di verità e amante del dubbio. Il suo nome in greco evoca acutezza (cfr. ivi, p. 15). Indicata come sacerdotessa o mistica, fu invece, come Sinesio testimonia nelle sue Lettere, una donna che definiva la filosofia una costante ricerca della verità. Damascio sostiene che Ipazia si dedicò alla vera filosofia. Essa esercitava pubblico insegnamento in filosofia nelle strade, con libertà, quasi fosse un Socrate al femminile, in un periodo in cui ad Alessandria erano stati demoliti i templi della religione pagana per ordine del vescovo Teofilo. Damascio narra che Ipazia, «pur essendo donna, indossava il trìbon […], il mantello grezzo dei predicatori cinici» (ivi, p. 18). Come scrive Suida, essa era eloquente e dialektike (ivi, p. 38) nel parlare e piena di senso civico nell’agire, così che «tutta la città aveva per lei un’autentica venerazione» (ibid.). L’episodio del gesto scandaloso, riportato da Suida, secondo cui per respingere il corteggiamento di un allievo gli pose davanti un panno mestruale, a voler separare l’eros intellettuale da quello fisico, rompeva «uno dei maggiori tabù […] sulla figura femminile» (ivi, p. 143). Questi e altri aspetti trasgressivi del comportamento di Ipazia, come l’«apparire senza […] pudore negli uditori maschili» o la totale parrhesia, libertà di parola, hanno una base di verità. Ma sembrano sovrapporre all’immagine di filosofa, come afferma la Ronchey, uno stereotipo. Riguardo l’aspetto fisico, le fonti la descrivono come una donna dalla bellezza matura. Suida la definisce «dotata di carismatica bellezza» (ivi, p. 145).

Nel suo Alexandria. A History and a Guide Edward M. Fortser vuole dissacrare alcuni stereotipi su Ipazia, sottolineando che era una signora di mezza età che insegnava matematica al Museo e che «sebbene fosse anche un filosofo, [non si ha] testimonianza sulle sue dottrine» (p. 85). Ma alcune fonti associano il suo nome ad un Canone astronomico, alle Tavole di Tolomeo e al terzo libro dell’Almagesto di Tolomeo. Damascio la definisce «versata nella geometria» (ivi, p. 161). Di recente vi sono speculazioni su un sistema ipaziano, precursore di quello copernicano mai giunto a noi. Ipazia soleva tenere anche «sedute private» per il suo cenacolo di iniziati, tra cui esponenti della classe governativa della città, convertiti alla nuova religione, ma legati all’antica «religio ellenica», in un paganesimo filosofico (ivi, p. 173). Ipazia è definita da Giovanni di Nikìu, una «teurga» (ivi, p. 170), una filosofa pagana che «il vescovo di Alessandria, Cirillo, farà tacere» (ivi, p. 171). Dell’assassinio di Ipazia esistono due versioni, una pagana e l’altra cristiana e di entrambe le versioni, una moderata e una radicale (cfr. ivi, p. 129). La versione cristiana moderata è quella di Socrate Scolastico. La sua Storia condanna il vescovo Cirillo, accusato di aver inaugurato ad Alessandria un episcopato simile ad un principato. La versione cristiana radicale è quella di Giovanni di Nikiu, che la considera una sacerdotessa opposta al Cristianesimo (ivi, p. 176) che influenzava gli uomini potenti della città. Il rancore di Cirillo per la filosofa non può esser ridotto ad un sentimento di invidia, ma ha una motivazione politico-religiosa. Nel 391 d.C. Teodosio aveva proclamato il Cristianesimo, religione di Stato e nel 392 promulgata una legge contro i culti pagani, molti templi furono distrutti. Ad Alessandria, Cirillo rappresentava il potere ecclesiastico, ma Ipazia ne deteneva il potere culturale. Secondo la Ronchey gli elementi di conflitto non erano solo paganesimo e cristianesimo, ma anche il conflitto tra classi dirigenti, locale e romana, e categorie sociali, antica aristocrazia e nuova burocrazia ecclesiale. Il contesto dell’omicidio è anche quello di una rivalità fra il prefetto Oreste, affascinato dalle lezioni della filosofa e il vescovo Cirillo, che ambiva ad un potere socio-politico in città. Ipazia fu considerata tra le cause di quel conflitto. Giovanni di Nikiu scrive: «In quei giorni apparve ad Alessandria un filosofo femmina, una pagana chiamata Ipazia, […] che ingannò molte persone con stratagemmi». E considera il linciaggio della filosofa una meritata punizione: «tutta la popolazione circondò […]. Cirillo e lo chiamò nuovo Teofilo, perché aveva liberato la città dagli ultimi idoli» (p. 178). Damascio scrive che «un giorno che Ipazia […] tornava a casa […] le piombò […] addosso una moltitudine di uomini imbestialiti. Questi […] massacrarono la filosofa. E […] le cavarono gli occhi». Socrate aggiunge: «usando cocci aguzzi, la fecero a brandelli. E trasportati quei resti al Cinaron, li diedero alle fiamme» (pp. 177-178).

Ipazia non fu lapidata come crede E.M. Forster, ma o scorticata viva, supplizio riservato agli eretici, o smembrata, secondo la prassi del sacrificio (cfr. ivi, p. 86). Cirillo sarà proclamato dottore della Chiesa: «Il titolo di Doctor Incarnationis gli verrà conferito nel 1882 […] da Leone XIII […]» (p. 91). La Chiesa non lo ha mai assolto, da «quell’ombra che la storia ha fatto pesare su di lui» (ivi, p. 92), ad eccezione dell’ala modernista del cattolicesimo francese. Nella sua Histoire, Louis Duchesne definisce Cirillo «il terribile vescovo» ed esalta le facoltà dell’«illustre Ipazia» (ivi, p. 93). Ipazia muore, ma il suo nucleo intellettuale giungerà fino ai giorni nostri. Il suo nome è stato dato a corpi ed entità celesti. La sua figura resta icona di un iter antropologico sull’emancipazione della donna, incompiuto. E ci indica che in filosofia, come in scienza e in politica, abbiamo ancora bisogno di una buona stella.

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