Laureato in Scienze Politiche al «Cesare Alfieri» di Firenze, si interessa di storia del periodo fascista e dell’Italia repubblicana. Sul fascismo apuano ha pubblicato Al gancio del Negroni. «Il Popolo Apuano» di Stanis Ruinas. Fascismo rivoluzionario e Regime nella provincia del marmo (Solfanelli 2016) e Fascismi di provincia. Pontremoli e l’Alta Lunigiana 1919-1925 (Youcanprint 2019). Ha pubblicato saggi e articoli su riviste di studi storici («Rassegna Storica Toscana», «Nuova Antologia», «Diacronie») e sulla rivista on line del Centro Studi Geopolitica.info.

Il timore legato a una ritirata isolazionista dell’America di Trump non è solo un refrain mediatico e un fantasma che agita i ceti dirigenti e intellettuali europei. È presente anche nel dibattito americano, anche con voci autorevoli del campo conservatore. L’ex segretario di Stato Condoleezza Rice ammette che l’impegno globale degli Usa non potrà essere come negli ultimi 80 anni, bensì più selettivo, ma ha ricordato che gli Stati Uniti, anche quando riluttanti, furono comunque coinvolti in conflitti, nel 1917, nel 1941 e nel 2001: «L’isolamento non è mai stato la risposta alla sicurezza o alla prosperità del paese» (The Perils of Isolationism. The World Still Needs America—and America Still Needs the World, «Foreign Affairs», settembre-ottobre 2024). Il senatore Mitch McConnell, storico leader repubblicano al Senato (dal 2007 agli inizi del 2025), ha invitato Trump a respingere le tentazioni isolazioniste, a rafforzare l’hard power e a esercitare il primato di potenza egemone globale: «La risposta a quattro anni di debolezza non deve essere quattro anni di isolamento» (The Price of American Retreat. Why Washington Must Reject Isolationism and Embrace Primacy, «Foreign Affairs», gennaio-febbraio 2025).

L’isolazionismo è una categoria da usare in termini relativi nella storia americana. Gli Usa non sono mai stati chiusi in sé stessi. La dottrina Monroe del 1823 diffidava le potenze coloniali europee da interventi armati nelle Americhe e da revanscismi di riconquista delle loro ex colonie dell’America Latina divenute stati indipendenti. Ritenuta un manifesto dell’isolazionismo americano verso le nazioni europee, mirava in realtà a impedire la pericolosa vicinanza di potenze imperiali e finiva deliberatamente per fiancheggiare la politica inglese contraria a potenze egemoniche nelle Americhe come in Europa. Il presunto isolazionismo americano non impedì al commodoro Perry nel 1853-54 di costringere il Giappone con la minaccia della forza ad aprirsi ai rapporti diplomatici e commerciali. A fine Ottocento, la guerra ispano-americana portò gli Usa fuori delle Americhe con la presa delle Filippine. La partecipazione alla repressione della rivolta ultranazionalista e xenofoba dei Boxer in Cina fu accompagnata dalla rivendicazione della politica della “porta aperta” in Cina rivolta alle altre potenze. L’attivismo internazionale di Theodore Roosevelt agli inizi del Novecento lo portò alla mediazione nella guerra russo-giapponese, conclusa con successo con il trattato di Portsmouth che fruttò al presidente il Nobel per la pace, agli Usa la consacrazione di potenza nel Pacifico (oltre a uno stop all’avanzata giapponese). Gli Usa non si sono disimpegnati dalle dinamiche internazionali neppure negli anni Venti del secolo scorso, considerati gli anni del culmine dell’isolazionismo americano, nei quali echeggiava nel paese lo slogan «America First». Le amministrazioni repubblicane furono al centro delle conferenze per evitare una corsa agli armamenti navali e realizzare un equilibrio tra le potenze marittime, soprattutto per contenere l’ascesa del Giappone. Nello stesso periodo, si adoperarono per la stabilizzazione finanziaria europea, con i piani Dawes e Young e una gestione pragmatica del debito alleato. Negli stessi anni i governi repubblicani affidarono una sorta di surroga diplomatica a banche e corporation industriali per evitare impegni diretti. Il prestito Morgan all’Italia fascista del 1925 a sostegno della lira e gli investimenti industriali di Henry Ford nella Russia bolscevica ne sono un esempio. Questo excursus non ha bisogno di ricordare l’intervento nella prima guerra mondiale nel 1917 e soprattutto nella seconda, quando gli Usa assunsero il ruolo di potenza globale senza più remore. Dopo il 1945, gli Stati Uniti hanno costantemente svolto un ruolo egemonico globale nella creazione e nel mantenimento dell’ordine internazionale liberale, assumendo impegni diretti nella sicurezza e nelle relazioni economiche internazionali, con gli alleati che condividevano lo stesso sistema politico-economico, poi mantenendolo nelle organizzazioni di cooperazione internazionale (Onu, Fmi, Oece, Gatt e successori) anche dopo la fine della Guerra Fredda.

L’isolazionismo americano non è mai stato una ritirata degli Usa in sé stessi o nell’emisfero occidentale, è stato piuttosto un dato “culturale”, un sentimento di diffidenza degli americani, che i governi non potevano ignorare, verso il resto del mondo, in primo luogo proprio verso la “vecchia” Europa. In politica, l’isolazionismo non è stato un isolamento dal mondo, bensì un modo diverso di stare nel mondo. Il modo di stare nel mondo di Trump parte dal rifiuto della grande strategia internazionalista liberale post 1945 degli Stati Uniti, vista come «un disastro completo e totale». Considera la pax americana un periodo di declino nazionale, in cui gli Usa hanno assunto costi non ripagati e perso prestigio. Trump rispecchia il sentiment diffuso del paese, del quale egli non è la causa bensì l’effetto.

Ai vari presidenti americani è stata spesso attribuita una dottrina strategica. Venendo a tempi più vicini di quelli di Monroe, abbiamo avuto la dottrina Truman, che ha guidato gli Usa nella Guerra Fredda, la dottrina Eisenhower, la dottrina Reagan, la dottrina Bush II, alcuni analisti si sono affrettati a rinvenire anche una dottrina Biden. È luogo comune diffuso che invece Trump non abbia una sua “dottrina” e una coerente strategia di politica internazionale. In realtà, dai suoi discorsi e interviste, dalle sue campagne elettorali, dai tentativi del suo primo mandato, emergono gli elementi che definiscono una strategia: gli interessi vitali, le minacce ad essi, le risposte alle minacce. Gli interessi vitali degli Stati Uniti sono ovvi: la sicurezza nazionale, il benessere economico e lo stile di vita del paese, meglio chiariti dalla premessa della rinuncia all’ordine dell’internazionalismo liberale al quale il resto del mondo si è assuefatto. Le minacce sono dichiarate: la Cina, in quanto concorrente globale commerciale, che lancia una sfida non solo economica al primato americano; l’islamismo “politico”, che lancia una sfida di civiltà agli Usa (non a caso, le poche azioni militari del primo mandato hanno colpito l’Iran, l’Isis, e la prima azione del secondo ha colpito in Somalia basi islamiste). Infine, le risposte strategiche: la tutela del primato americano, tecnologico, economico, militare, base dell’esercizio spregiudicato della forza economica come prima risposta, al di fuori dei “lacci e lacciuoli” del multilateralismo internazionalista (in questa risposta rientra l’uso politico dei dazi). La forza militare è la seconda risposta, come strumento di deterrenza a sostegno di una negoziazione diplomatica non necessariamente benevola. Trump non privilegia l’uso della forza militare, ma ha mostrato con essa un rapporto sbrigativo: «Non esiterò a schierare la forza militare quando non ci sono alternative. Ma se l’America combatte, deve combattere per vincere». Cioè, vittoria piena, senza obiettivi intermedi.

Queste risposte abbandonano l’idea di promuovere la “pace democratica”, rifiutano iniziative di nation building e interventi umanitari in conflitti che non coinvolgono interessi giudicati vitali per gli Usa. La strategia “America First” rifiuta i due pilastri principali della grande strategia liberale, il multilateralismo e il globalismo, e li sostituisce con l’“americanismo”, inteso come un nazionalismo che subordina le direttive di politica estera alle esigenze e priorità interne. L’America di Trump (e non solo) non intende svolgere il ruolo di poliziotto mondiale, garante dell’ordine liberale internazionale, potenza egemone globale cui sia affidato il ruolo di arbitro e mediatore di conflitti, con interventi diretti e costosi in risorse umane e materiali senza un ritorno certo.

Anche la “grand strategy” di Trump presenta rischi e limiti. L’abbandono americano della leadership politica ed economica globale rischia una crescente insicurezza e conflittualità mondiali, un vuoto di potere, che incoraggi potenze regionali come Cina, Russia, altre emergenti, ad occupare il vuoto. Un esito paradossale che aumenterebbe le minacce che la “dottrina Trump” intende fronteggiare. Il limite è dato dalla natura irreversibile della globalizzazione: un mondo interrelato al punto che nessuna area può essere ignorata perché i suoi sviluppi hanno ricadute, quantunque indirette, su altre di interesse strategico per gli Usa. Senza dimenticare che gli Usa sono una poliarchia, la distribuzione del potere coinvolge nell’elaborazione della politica estera non solo il presidente, anche il Congresso, specie il Senato, indirettamente gli stessi Stati, che eleggono ciascuno due senatori che portano le sensibilità locali in Congresso, fino agli apparati militari e di sicurezza. Inoltre, il pluralismo della società americana condiziona le scelte governative anche in campo internazionale. La sintesi della dialettica “poliarchica” è la forza della politica Usa perché accresce la sua condivisione ma comporta che anche la “grand strategy” di Trump attraversi una negoziazione interna che può modificarne i tratti.

Quello che dobbiamo aspettarci è una politica estera americana guidata dalle priorità di politica interna. Il discorso inaugurale di Trump del 20 gennaio scorso ha sfiorato temi di politica estera ma ha riepilogato soprattutto le priorità interne. La priorità della difesa e del rilancio dell’industria americana trova nella Cina e nella sua aggressiva concorrenza la priorità dell’attenzione, nei vari scacchieri in cui essa si manifesta, incluso un canale di Panama dal quale passa buona parte del traffico commerciale cinese verso le Americhe. La priorità dell’indipendenza energetica cerca una garanzia nella stabilizzazione del Medio Oriente (accordi di Abramo) e rende assai meno bizzarra l’attenzione verso la Groenlandia e l’Artico, zone ricche di risorse energetiche. Nessuna priorità interna sembra giustificare un impegno nella difesa a oltranza dell’Ucraina; tuttavia, un mondo interrelato suggerisce agli Usa la ricerca di un negoziato con la Russia con lo scopo di trattenere il suo completo scivolamento sotto l’influenza cinese e bloccare la cooperazione russo-iraniana, specie in campo nucleare.

In conclusione, non si prospetta l’America isolazionista dei media, bensì un’America che interpreta il suo ruolo in maniera selettiva, con il criterio della grande potenza tradizionale, cioè l’interesse nazionale misurato in termini restrittivi, strettamente nazionali, con una scarsa disponibilità a un negoziato di risoluzione comune in sedi multilaterali. Un paese meno disponibile a ruoli di poliziotto dell’ordine mondiale e alla condivisione di pesi (difesa, commercio) laddove non bilanciati da uno scambio vantaggioso. La sfida che il mondo fronteggia è più ampia dei dazi, è la possibile fine di un ordine internazionale garantito da una potenza globale che si assumeva responsabilità e costi di contenimento dei conflitti, non senza errori pagati in proprio, nella convinzione che la sicurezza collettiva e la crescita economica comune fossero una garanzia della sua stessa sicurezza e del suo benessere.

Il XXI secolo ha già smentito che il crollo sovietico e la fine della Guerra Fredda abbiano decretato la “fine della storia” con il trionfo dell’ordine liberale globale. L’America di Trump (e non solo) ha preso atto di questa smentita. Di globale si annuncia una diffusa rinegoziazione. La revisione dell’ordine post 1945, inseguita dalle potenze revisioniste ostili ad esso, sembra avviata proprio dal suo creatore. Le domande che essa pone al resto del mondo e agli stessi Stati Uniti sono quelle sottese al saggio di Condoleezza Rice: quanto il mondo abbia bisogno degli Usa e quanto gli Usa abbiano bisogno del mondo.

Gli Stati Uniti possono ancora permettersi una “ritirata” selettiva. Amici e alleati dovranno calcolarne i problemi relativi alla copertura di sicurezza e alla cooperazione economica. Gli organismi internazionali dovranno ricalcolare il loro ruolo di fronte al disimpegno americano. I nemici della pax americana, i “revisionisti”, come la Russia putiniana o la Cina, potrebbero interpretare il nuovo corso come una ritirata segno del declino Usa. Un malinteso pericoloso, perché potrebbe indurre queste potenze a passi avventati, convinte di una passività americana mal calcolata. L’“impero”, benché tornato “riluttante”, non sembra al tramonto, per forza economica, superiorità militare, capacità scientifica e tecnologica, posizione tra due “valli” oceanici, competitività e attrattiva del proprio sistema politico-economico. Le ambizioni di aspiranti successori, al momento, appaiono alquanto velleitarie, oltre che temerarie.

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