Markus Krienke (1978) è professore di Filosofia moderna ed Etica sociale presso la Facoltà di Teologia di Lugano affiliata all’Università della Svizzera italiana, dove dirige la Cattedra Antonio Rosmini. Insegna Dottrina sociale della Chiesa presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale a Milano e Filosofia moderna presso la Pontificia Università Lateranense. Inoltre, tiene corsi di Filosofia politica presso l’Università degli Studi di Messina, la European School of Economics a Milano e fa parte del Master della Filosofia della pace presso l’Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari.
La radicalizzazione delle tendenze della modernità a cui assistiamo nella nostra contemporaneità che si esprime, tra i molti elementi, innanzitutto in una disgiunzione completa tra la “fede” e la “ragione”, pone alle religioni una loro co-responsabilità per una società libera e pacifica. Ciò viene spesso dimenticato in un contesto secolarizzato che non sa più confrontarsi con le religioni le quali sono pluralisticamente presenti al suo interno. Oltre a “rispettare le regole”, esse dovrebbero confrontarsi con quella ragione moderna che sta alla base dei diritti individuali, della costituzione, della società aperta e dei processi democratici. Uno sguardo nella storia, specialmente dell’800, insegna che questo non è stato facile in primis per la Chiesa cattolica, la quale ha, però, trovato in personaggi come Antonio Rosmini o John Henry Newman esponenti di un confronto critico-positivo con una situazione culturale marcata dalle dottrine di Darwin e Marx, dal liberalismo e del positivismo scientifico, dal razionalismo e dal modernismo. Dottrine che per il cattolicesimo dell’epoca erano tutte espressione di una società decadente e pertanto da contrastare con ogni mezzo possibile, tra cui l’infallibilità papale definita durante il Concilio Vaticano I (1870). In tale contesto, è notevole il percorso di John Henry Newman che da credente cristiano anglicano era in cerca dei migliori motivi razionali per la fede, contro una Chiesa cattolica che secondo lui l’ha allontanata dalle sue origini per adattarla all’istituzione: ed era proprio attraverso lo studio dei Padri della Chiesa – i grandi teologi e vescovi dei primi secoli – per comprendere l’essenza del cristianesimo conservata della Chiesa anglicana, che scoprì in tali autori il trait d’union con la tradizione cattolica di cui comprese sempre di più i motivi, per cui ad un solo anno dopo la pubblicazione dell’opera sul Development of Christian Doctrine (1845), egli si convertì al cattolicesimo.
Motivo centrale di tale opera è l’idea che i dogmi che definiscono la fede, si devono evolvere storicamente per tramandare in modo sempre nuovo il contenuto autentico della stessa. Così scoprì nel cattolicesimo la capacità di confronto con dottrine avversarie, di inglobare i loro motivi ragionevoli, nonché di discernere tra un “progresso” nella dottrina che giova alla sua identità e quello che invece la indebolisce. In tale prospettiva, egli poté accettare il culto mariano, la venerazione dei santi, il primato papale, la dottrina dei sacramenti. Egli si convinse che l’agire della Chiesa attraverso i secoli era espressione di “ragionevolezza” e non un reagire impulsivo agli attacchi degli “eretici”.
Che cosa significa, però, più precisamente la “ragionevolezza” della fede a differenza della “razionalità moderna”, con la quale tuttavia sa confrontarsi? Con il Grammar of Assent, Newman ha individuato il nucleo centrale di tale problema nella questione di come si possa stabilire, legittimare e assicurare “certezza”. Tale termine esprime infatti un elemento fondamentale della fede, che è la fiducia in ciò che si crede e che viene tramandato da un’istituzione, come anche dell’esistenza dell’individuo moderno che sovente nutre un’esaltazione sconsiderata della “razionalità”. La scienza – secondo il positivismo dell’epoca – suggerisce che le sfide dell’umanità sono risolvibili senza una dimensione espressa dalla fede, e oggi certamente nella “razionalità” delle nuove tecnologie si incontra una versione ancora più estrema di tale “visione del mondo”. Invece, la ricerca della plausibilità della fede apre il soggetto ad un accesso del tutto diverso alla realtà e alle sfide che essa pone: riteniamo le cose “vere” per una psicologia della credenza che sta alla base dei nostri assensi che – qualora non sono di carattere scientifico-nozionale – sono fondati sull’esperienza concreta, sulle rappresentazioni della realtà e sui sentimenti. Tutte dimensioni che la scienza positiva dell’epoca come anche le tecnologie attuali non colgono all’interno del loro concetto di “razionalità”.
Per Newman, invece, le convinzioni più importanti – quelle che costituiscono una “visione del mondo” e dunque il presupposto culturale per i nostri “sistemi di sapere” – si basano sulla convergenza di molti motivi i quali nel loro insieme rendono una determinata affermazione estremamente plausibile, specialmente nei confronti dell’alternativa di non affermarla – che singolarmente presi possono anche sembrare “deboli” nei confronti di una prova razionale. Ciò che l’insieme di tali motivi produce, è l’illative sense: a ben vedere, ogni nostro atto di fiducia verso la realtà e verso gli altri è fatto di tale stoffa. Non a caso, egli afferma che «dieci mila difficoltà non fanno un dubbio». Con questo ragionamento ha invertito l’onere della prova: mentre nella modernità il cristianesimo si è trovato sulla difensiva nei confronti dell’illuminismo nel dover giustificare la ragionevolezza della fede, per Newman diventa ora la posizione della non fede a dover dimostrare l’infondatezza dei motivi di credenza della fede cristiana. Se dovessimo aspettare, infatti, di avere le prove assolutamente evidenti per i motivi del nostro agire in generale, semplicemente non agiremmo mai: «Life is for action».
L’importanza che in questo modo egli riconosce al soggetto moderno, ossia di essere protagonista nella formulazione dell’illative sense, non solo costituisce la presa sul serio dell’istanza centrale della cultura moderna e i dubbi che esso nutre nei confronti di una fede autoritariamente definita, ma apre anche, proprio per questo, lo sguardo a comprendere lo sviluppo dei dogmi secondo la legittimità storica in cui esso avviene. In tale modo, egli ha sviluppato un rapporto positivo e senza barriere – quali potevano essere costituite dalla teologia dell’epoca – con le discipline accademiche moderne per cui molto emblematicamente fondò l’Università cattolica a Dublino, di cui divenne il primo rettore. In seguito, egli pubblicò L’idea di un’Università riassumendo i suoi discorsi tra il 1852 e il 1858, volti al tema della coltivazione della formazione tramite il perfezionamento dell’intelletto. Qui egli esprime come la filosofia, quale tenuta personale ma anche quale orizzonte all’interno di cui le singole discipline si svolgono, realizzi quell’orizzonte sapienziale che fu sempre affermato dal cristianesimo. La coltivazione dell’intelletto per Newman non è solo lo studio della materia specifica che dà poi la base per l’esercizio della professione, ma porta anche alla formazione della personalità, da un lato, e aiuta a evitare la chiusura autoreferenziale dei singoli saperi disciplinari, dall’altro. In questo senso, l’idea dell’università è l’apertura al mondo: «non si può imparare a nuotare in acque agitate se non si osa entrarvi». Tale dimensione sapienziale del sapere funge come via d’intersezione della teologia con gli altri saperi: «questo è il modo per progredire; questo è il modo per giungere a dei risultati: non inghiottire la conoscenza, ma (secondo l’immagine talvolta usata) masticarla e digerirla». In questo modo viene insegnato un metodo per calare l’umanesimo all’interno della velocità dello sviluppo scientifico-tecnico che oggi, nell’ambito dell’intelligenza artificiale, pone molte sfide alla teologia, e di fronte alle quali quest’ultima troppo spesso non sa come diventarne partecipe: la sua esclamazione «abbiamo bisogno di teologi, non di vescovi», oggi dovrebbe fare più eco.
Dove, però, si può trovare quel “punto archimedeo” a partire dal quale Newman è riuscito ad affermare la dottrina dell’identità della fede cristiana nella dinamica dello sviluppo dottrinale, delle convinzioni della fede come paradigma del rapporto dell’individuo alla realtà e alla verità, e infine della capacità della teologia di confrontarsi con le discipline accademiche che ormai si sono metodologicamente allontanate? Esso è da rintracciare – in un “brindisi” che Newman idealmente esprime «al papa; tuttavia prima alla Coscienza, poi al Papa». Con tale affermazione egli ha introdotto nel mondo cattolico l’istanza centrale della modernità, ossia l’(auto-)coscienza individuale: la fede, prima di aver bisogno di un’autorità, viene affermata dall’individuo e ne diventa l’espressione più egregia, e per questo egli era certamente contrarissimo al Syllabus errorum (1864) con il quale Pio IX condannava le istituzioni dello Stato liberale di diritto moderno. Ritenne un errore la definizione dogmatica dell’infallibilità papale, la quale per lui doveva rimanere un’opinione teologica, ribadendo il suo “brindisi”: «se il Papa parlasse contro la coscienza, minerebbe le proprie fondamenta e commetterebbe un suicidio spirituale». A partire da qui il pensiero di Newman può essere compreso come un personalismo teologico liberale. Nella e attraverso la coscienza, la fede (come fede religiosa così come fiducia esistenziale) si riferisce alla realtà e si afferma all’interno di essa. Non meraviglia, così, che insieme alla teoria sullo sviluppo del dogma, l’idea di coscienza è per Ratzinger «il suo contributo decisivo per il rinnovamento della teologia»: due modi, dunque, per conciliare la verità eterna con la storia concreta che è il presupposto indispensabile per la realizzazione della vita umana. Non a caso, uno dei momenti decisivi della sua conversione al cattolicesimo era la comprensione del fatto che a partire da Leone I, la Chiesa ha sempre valorizzato – contro il “monofisismo” che Newman riconobbe anche nella Chiesa anglicana e che riduce Cristo alla sola natura divina – la vera natura umana di Cristo, affermando dunque la persona umana, non un’istituzione politica o religiosa, come destinatario della rivelazione divina.
Leone I – Leone XIII (che nel 1879 creò Newman cardinale) – Leone XIV (che lo ha dichiarato Dottore della Chiesa il 1° novembre 2025): sembra giunto il momento che le idee di Newman si realizzino nella Chiesa e vengano percepite da un Occidente in cerca della propria identità. Infatti, ciò che Newman durante i suoi studi ha imparato dalla storia del cristianesimo, vale innanzitutto per lui stesso, come anche per Rosmini, Lord Acton e molti che si confrontavano criticamente con il liberalismo moderno a partire da una prospettiva cattolico-liberale, anche al prezzo di dover accettare che «chi tenta di fare, in un momento inopportuno, qualcosa che in sé è giusto, può facilmente diventare un eretico o uno scismatico. È scoraggiante non essere in sintonia con il proprio tempo e, per questo, ricevere rimproveri e ostacoli in tutto ciò che si fa». In questo modo loro hanno preparato la Chiesa per il XX secolo, anticipando il Concilio Vaticano II (1962-65), e mettendo le basi per un dialogo ancora oggi fecondo tra una fede maturata attraverso il confronto con l’illuminismo e le sfide del nostro presente.
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