Sergio Belardinelli (1952), già professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nel Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell'Università di Bologna, è attualmente professore Alma Mater dello stesso Ateneo. Nel 1988 (ottobre-novembre), 1989 (aprile-maggio), 1996 (aprile) è stato Visiting professor presso la Katholische Universitaet Eichstaett. Nel 1998 (aprile-maggio) è stato Visiting professor presso la Universidad Catolica Argentina. Ha tenuto conferenze in numerosi atenei stranieri: Madrid, Granada, Barcellona, Pamplona, Buenos Aires, Santiago de Chile, Graz, Bochum, Berlino, Monaco di Baviera, Eichstaett, Salvador de Bahia. Ha partecipato a diversi programmi di ricerca nazionali ed internazionali. Negli anni 2004-2005 è stato coordinatore insieme ai colleghi Karl Graf Ballestrem e Thomas Cornides del progetto internazionale su “Kierche und Erziehung in Europa”, finanziato dalla Volkswagen Stiftung. I suoi interessi di ricerca ruotano principalmente intorno ai problemi etico-politici collegati allo sviluppo delle società complesse, con particolare riferimento alla bioetica, al rapporto tra religione e politica, all'identità culturale e alla pluralità delle culture. Nel 2010 ha ricevuto il Premio Lucio Colletti per la cultura politica in Italia e in Europa per il volume L’altro Illuminismo. Politica, religione e funzione pubblica della verità(2009); nel 2012 gli è stato conferito il Premio Capri San Michele per il volume Sillabario per la tarda modernità(2012). È membro dell’Accademia Scientiarum et Artium Europea di Salisburgo e Socio effettivo della Accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna, Sezione Scienze Politiche e Sociali. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Diciamoci la verità: non è tutto una favola. Il cristianesimo e le sfide del tempo presente (2015); L’ordine di Babele. Le culture tra pluralismo e identità (2018); Le dinamiche culturali della globalizzazione (con P. Terenzi, 2018); All’alba di un nuovo mondo (con A. Panebianco, 2019); L’inesauribile superficie delle cose(2022); Niklas Luhmann (2023); Normatività, tradizione e traduzione. Due saggi su Alasdair MacIntyre(con L. Cimmino, 2023).

A cura di Danilo Breschi

Trent’anni fa, per la Festschrift di Nikolaus Lobkowicz, Lei scrisse un saggio intitolato Con quale liberalismo?, evocando chiaramente l’omonimo saggio dedicato da Norberto Bobbio, vent’anni prima, al socialismo. La prospettiva, un po’ ambiziosa, di quel suo saggio emergeva già nelle domande iniziali che vorrei riportare per intero:

«È lecito ritenere che una società più coesa, uno Stato più autorevole, che non debba comprarsi ogni giorno la propria legittimità, offrendo in cambio benefici ‘assistenziali’, e ancora capace di perseguire un qualche bene comune, siano conciliabili con una maggiore libertà individuale? Dobbiamo rassegnarci a considerare democrazia e anomia come “infelici compagni di letto”, come dice Dahrendorf, o possiamo sperare in progetti meno ‘freddi’, in legami più forti, capaci di tenere insieme la nostra società? Si può essere liberali, tolleranti, senza rinunciare alla verità, senza sentirsi neocontrattualisti, né comunitaristi e avendo addirittura in antipatia l’utilitarismo e il ‘fallibilismo’?».

Sono domande ancora attualissime, alle quali vorrei che rispondesse una ad una. Prima però Le chiedo: che effetto Le fanno a trent’anni da quando se Le è poste per la prima volta?

Vedo in quelle domande una sorta di anticipazione di quanto avrei sviluppato negli anni in tre miei libri che considero strettamente connessi tra loro: La comunità liberale. La libertà, il bene comune e la religione nelle società complesse (1999); L’altro Illuminismo. Politica, religione e funzione pubblica della verità (2009); L’ordine di Babele. Le culture tra pluralismo e identità (2018). Prendendo lo spunto dal dibattito degli anni Ottanta-Novanta tra universalisti e comunitari, il primo libro è tutto incentrato sulle prime due domande; il secondo sulla terza; e il terzo è un tentativo di ricondurre tutte e tre le domande a una prospettiva di teoria della cultura, basata soprattutto sul linguaggio, al fine di mostrare come l’uomo occidentale, con la sua dignità e libertà, rappresenti il vero canone universale, aperto, plurale, e capace per questo di dialogare con tutti. Riguardo all’esito di questa mia riflessione, direi che mi riconosco ancora nelle conclusioni che trassi trent’anni orsono, nel saggetto da lei citato: «Con quale liberalismo dunque? Con il liberalismo delle convinzioni e delle istituzioni ‘forti’, che proprio per questo non teme la libertà dei cittadini, anzi la promuove; con il liberalismo che sa impedire che il diritto della maggioranza si trasformi nel ‘diritto del conquistatore che la classe dominante impone a quella più debole’; con il liberalismo della solidarietà testimoniata con il lavoro e la fatica, non con le fiaccolate o le rivendicazioni che non costano niente; con il liberalismo, infine, che pratica la tolleranza perché crede nella verità, che rifiuta di identificare nel consenso il criterio del vero e del giusto, ma nelle decisioni politiche sa affidarsi in ogni caso ai voti della maggioranza, magari perché sa, parafrasando un verso di Samuel Beckett, che una verità incapace di sopportare che la si offenda e la si malmeni non sarebbe di una specie sufficientemente robusta».

Mi sembrano i tratti di un liberalismo conservatore, sul quale tornerò alla fine. Vengo invece alla prima domanda e Le chiedo: in estrema sintesi, come pensa che si possano conciliare libertà individuali e legami sociali in una società come la nostra sempre più individualizzata e, nel contempo, sempre più sottoposta a imperativi sistemici?

Nel mio libro La comunità liberale ho cercato di rispondere a queste domande, partendo dalla nota distinzione di Ferdinand Tönnies tra “comunità” e “società”. La mia idea è che l’odierna società non è più, né può tornare a essere una comunità. La differenziazione, l’individualizzazione, la diversità, il conflitto, la contingenza, l’instabilità sono diventati suoi elementi strutturali. Al tempo stesso, però, registriamo anche una pericolosa tendenza alla frammentazione, all’esaltazione smodata della libertà individuale e nel contempo alla sua sottomissione alle ferree logiche sistemiche, quasi che politica, economia, scienza, tecnica, ecc. funzionino ormai come se gli uomini non esistessero. Tutto questo mi induce a pensare che la nostra società sia diventata troppo “societaria” (nel senso di Tönnies), abbia allentato eccessivamente ogni suo legame, col rischio di mettere a repentaglio proprio quell’autonomia e quelle libertà individuali, in nome delle quali ha combattuto la sua sacrosanta battaglia contro i troppo rigidi legami “comunitari”. Se è vero infatti che questi ultimi hanno rappresentato sovente una resistenza all’affermarsi di una cultura pluralistica e liberale, è altrettanto vero che ne hanno rappresentato anche una sorta di condizione di possibilità. Si veda quanto scrive Tocqueville in ordine ai cittadini che, non avendo più radicamento nella religione, finiscono per farsi portare via la libertà. Ritengo pertanto che debba prendersi molto sul serio la tesi di Wolfgang Böckenförde, secondo il quale l’autonomia individuale, il pluralismo, la tolleranza, che stanno alla base della moderna cultura liberale, vivono di presupposti che quest’ultima, da sola, non è in grado di garantire. Si potrebbe anche dire che il carattere “societario” della società odierna si esplica tanto più conformemente al bene dell’uomo, quanto più la stessa società riesce a salvaguardare da qualche parte certi elementi, diciamo così, “comunitari” (legami e convinzioni forti, amore, amicizia, senso dell’autorità), i quali, di per sé, non hanno la dimensione contrattuale dei rapporti “societari”, ma ne costituiscono, come ho già detto, una specie di condizione di possibilità. A questo proposito si pensi al ruolo fondamentale che viene svolto dalla famiglia e ai danni sociali sempre più evidenti che scaturiscono dalla sua crisi.

Il grande dibattito sviluppatosi negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso tra universalisti e comunitaristi verteva proprio su questi problemi. Quale è la sua opinione in merito?

Ho sempre pensato che, anziché seguire certe strategie di radicalizzazione dell’una o dell’altra prospettiva, si dovesse in qualche modo cercare di conciliare, non di porre in alternativa, gli argomenti “comunitaristi” e quelli “universalisti”. In quanto uomini, tutti siamo accomunati dall’appartenenza alla stessa specie, da universali diritti che ci spettano in quanto uomini, nonché da universali diritti di cittadinanza, ma proprio la concreta determinatezza storico-sociale della nostra natura ci lega a una determinata terra, a una determinata lingua, a particolari gruppi umani, che vanno dalla famiglia fino al gruppo o ai gruppi etnico-culturali che siamo soliti chiamare nazione. La situazione planetaria nella quale stiamo vivendo esige certo che si insista su ciò che ci accomuna, quindi sugli elementi “universalistici”, ma questo non deve porre in secondo piano la rilevanza delle nostre differenze etniche, religiose, culturali. Ben vengano dunque tutti i discorsi che si fanno sulla “cittadinanza cosmopolitica”, purché non si dimentichi il fatto che non c’è cultura politica che non si radichi profondamente in una storia, in un contesto socio-culturale, religioso e istituzionale sempre particolare. L’esasperazione della dimensione “universalistica” rischia di sfociare nell’astrattezza o, peggio ancora, nella più squallida omologazione; l’esasperazione della dimensione “comunitaria” potrebbe sfociare invece nella più radicale chiusura nei confronti dell’altro, fino alla volontà di annientamento (si pensi alla tragedia di certi conflitti etnici). Pertanto, sia a livello nazionale che internazionale, si tratta soprattutto di imparare a convivere con le diversità, convinti che, in quanto uomini, abbiamo tutti qualcosa che ci accomuna. Ma bisogna farlo con realismo, investendo molto sull’ educazione, sulla storia dei popoli e sulla libertà, non certo sugli stereotipi ideologici che vanno per la maggiore. Il mio libro su La comunità liberale voleva essere in fondo una proposta in tal senso.

Detto in altre parole, una società individualizzata come la nostra, se vuole sfruttare a pieno le opportunità che si aprono per gli individui in termini di autonomia, libertà, apertura, ecc., ha bisogno di quella che una volta si chiamava socializzazione primaria; ha bisogno di luoghi, come la famiglia, dove sia data la possibilità agli individui di crescere fino a guadagnare veramente la propria autonomia e dire veramente “io”. Tanto più sono forti e vivi questi luoghi “comunitari” e tanto meglio si affrontano gli esperimenti sociali quotidiani in cui consiste la nostra vita “societaria”, trasformandoli addirittura in un’esperienza gratificante. Ma è esattamente ciò che la nostra società complessa sembra non essere in grado di offrire. Da quando essa ha abbracciato la “neutralità” come suo valore etico primario, l’educazione, per fare un esempio, è diventata una pratica “a soggetto”; ognuno si regola a modo suo, visto che la società non sembra chiedere nient’altro. Di qui il disagio giovanile, lo spaesamento e l’anomia sempre più diffusi a tutti i livelli della vita sociale.

Quindi aveva ragione Dahrendorf a dire che democrazia e anomia sono “infelici compagni di letto”?

No. Secondo me non è affatto vero che pluralismo, democrazia, differenziazione sociale, individualizzazione debbano essere considerati come “infelici compagni di letto” dell’anomia. Lo possono certo diventare e per molti versi lo sono diventati. Del resto che cosa ci si può aspettare quando all’insegna della libertà e del pluralismo si scrivono apologie del caso e del nichilismo, esaltando il gioco rispetto al dovere, la spontaneità contro ogni forma di potere e magari il consenso come unico criterio del vero e del giusto? Ovvio che l’anomia cresca. A maggior ragione, come ho già detto, se consideriamo la crisi delle principali agenzie educative, come famiglia e scuola. Ma siccome le principali vittime di questo processo rischiano di essere proprio la libertà individuale, il pluralismo, la democrazia, la tolleranza e le istituzioni dello stato di diritto, dobbiamo cercare di invertire la rotta, altrimenti l’anomia potrebbe anche distruggere la democrazia.

Mi rendo conto ovviamente che parlare di democrazia liberale di solito significa porre l’accento sull’individuo, sulle sue libertà e sulle istituzioni che dovrebbero garantirle, e che quindi può apparire sospetta questa mia insistenza su dimensioni quali la famiglia, l’educazione o la religione (altro tema a me assai caro), che sembrano rinviare più ai legami che alle libertà individuali, più alle relazioni di tipo “comunitario” che a quelle di tipo contrattuale. Invece tale connessione non soltanto si trova in perfetta sintonia con la migliore tradizione del pensiero liberale – quella, per intenderci, che dall’Illuminismo scozzese (Locke, Hume, Smith e Ferguson), giunge, attraverso Burke, fino a Tocqueville, Lord Acton e Hayek –, ma ne rappresenta forse l’unica chance di sopravvivenza in una società complessa quale è la nostra, la cui disgregazione, imputabile per lo più all’affermarsi di un “falso individualismo”, come lo definirebbe Hayek, sembra minacciare in primo luogo proprio l’autonomia e la libertà individuale, nonché le istituzioni dello stato di diritto.

Più sospetta ancora può apparire la mia insistenza sull’importanza della verità per una cultura che voglia essere veramente liberale e democratica.

Può spiegare in che senso?

Il tema della funzione della verità in una cultura liberale e democratica sta al centro del mio libro L’altro Illuminismo. Grosso modo la tesi principale di quel libro era questa.

Per il fatto di vivere in un contesto socio-culturale contrassegnato dalla presenza di diverse opinioni in ordine a ciò che è bene e giusto e di prendere quindi le nostre decisioni politiche a maggioranza, ci siamo erroneamente convinti che un’opinione valga l’altra. La verità non sembra più compatibile con lo spirito di una società secolare, anzi, la frattura tra verità e pluralismo, tra verità e democrazia sembra che sia diventata incolmabile. La mia tesi, invece, è che pluralismo e libertà, ben lungi dal rappresentare un’antitesi alla verità, esprimono il naturale contesto socio-culturale entro il quale la verità è chiamata oggi a proporsi. Persino il relativismo, se con esso si intende la semplice consapevolezza della “relatività” e quindi della non esaustività dei punti di vista rispetto alla ricchezza della realtà, è pienamente compatibile con l’idea di verità.  D’altra parte, chi sarebbe così relativista da pensare che tutte le opinioni e tutti i punti di vista valgano allo stesso modo? Invece siamo diventati relativisti, con la convinzione che questo fosse il modo migliore per essere tolleranti.

Su questo punto pesa evidentemente la storia. Per troppo tempo la verità è stata ostaggio di una sorta di ipoteca totalizzante (di tipo religioso, ma non solo), in virtù della quale dalle verità più banali, tipo “la neve è bianca”, si arrivava a proclamare con la stessa sicurezza anche la verità delle norme morali e politiche o addirittura la verità dell’intero universo. Morale, politica, cosmologia, tutto doveva sottostare alla verità, la quale, se necessario, non solo veniva imposta con la forza, ma lo si faceva persino con la convinzione che questo servisse al bene degli interessati. Di conseguenza è un po’ come se oggi scontassimo questo dispotismo. La verità ci incute timore; la percepiamo come un pericolo per la nostra libertà. Per essere veramente liberali e democratici, riteniamo di dover agire come se la verità non ci fosse (etsi veritas non daretur); per la cultura secolare dominante conta soltanto la ragione debole di chi pensa che ormai siano possibili innumerevoli “giochi linguistici” e nulla più. Ma per quanto questo atteggiamento abbia qualche comprensibile ragione è pur sempre un atteggiamento sbagliato che potrebbe danneggiare seriamente la cultura e le istituzioni liberali e democratiche.

Le nostre decisioni politiche, ad esempio, vengono prese a maggioranza, non perché la verità non esiste e un’opinione vale l’altra, ma semplicemente perché, grazie a una certa idea che abbiamo dell’uomo, della sua libertà e della sua incommensurabile dignità, è molto meglio una decisione sbagliata, presa con il consenso della maggioranza, che una decisione giusta imposta con la forza. Altro che relativismo!

Lungi dal costituire il fondamento di una cultura liberale e democratica, l’ostilità alla verità ne costituisce piuttosto la malattia, l’anticamera del più radicale emotivismo, come lo definirebbe MacIntyre, un habitus mentale che, anziché guardare alla possibilità che le nostre convinzioni etiche, politiche o d’altro tipo vengano validate discorsivamente insieme a coloro che non la pensano come noi, semplicemente le afferma come valide soltanto perché corrispondono al mio “sentire”. Ma senza la fiducia in una verità che in ultimo, con maggiore o minore evidenza, ci si rivela, della quale non siamo padroni, nemmeno i nostri grandi valori politici avrebbero consistenza. Pluralismo, tolleranza, principio di maggioranza, l’idea stessa di stato di diritto e di democrazia finirebbero inevitabilmente per confondersi con la demagogia, la rivendicazione fanatica dei diritti di questo o quel gruppo e la lotta per il potere fine a se stesso. Ce ne rendiamo conto soprattutto quando il dibattito pubblico si fa incandescente e il fanatismo e l’uso della menzogna diventano la regola. Esattamente quanto si sta verificando da molti anni nelle nostre liberaldemocrazie. Una sorta di brodo di coltura ideale del quale, tra l’altro, si sono avvantaggiate l’ideologia Woke e la cancel culture.

Dopo quanto ha detto su verità e democrazia l’idea di un liberalismo di stampo conservatore di cui parlavo prima mi pare che esca decisamente rafforzata. Le piace essere definito un liberalconservatore?

Sì. Purché sia chiaro che, sulla scorta di Lord Acton, considero la libertà un “fine” e non un “mezzo” dell’azione politica. Estremizzando potrei dire che in una società come la nostra la libertà e la dignità di ogni persona costituisce l’unico vero bene comune compatibile con il livello di differenziazione e di individualizzazione che abbiamo raggiunto. Detto questo, va benissimo anche l’etichetta di liberalconservatore. In fondo conservare è la naturalissima reazione degli uomini rispetto alla caducità delle cose. Queste ultime tendono inesorabilmente a decadere, così un uomo o una donna che riassettano la casa o il giardino, che trattano con cura gli oggetti che li circondano, che mettono i loro gioielli in una cassetta di sicurezza o raccomandano ai loro figli di non frequentare certi luoghi si comportano appunto come persone che cercano di conservare. In questo senso siamo tutti un po’ conservatori. Anche in politica. Lo stato, non a caso, è per sua definizione l’istituzione che tutela, che conserva. E quello dispotico costituisce un’eccezione, proprio perché, come diceva Montesquieu, «nel regime dispotico il principe conserva solo se stesso». Niente di più naturale, dunque, almeno per me, che essere conservatori.

Ma allora perché tanto discredito sul cosiddetto conservatorismo?

Non credo che tale discredito dipenda dal fatto che la naturale (e ragionevolissima!) disposizione degli uomini a conservare ciò che hanno a cuore li spinga in molti casi all’eccesso, poniamo a conservare anziché moltiplicare, come accade nella famosa parabola evangelica dell’uomo che sotterra il suo talento. Le cause sono piuttosto di natura politico-culturale ed hanno a che fare certamente con il fatto che storicamente il conservatorismo è nato in contrapposizione rispetto alle spinte libertarie della rivoluzione francese, ma forse più ancora con il successo che in questi ultimi cinquant’anni ha avuto l’identificazione del conservatorismo con l’antidemocrazia, l’antiliberalismo e l’antimodernità. Habermas e Steinfels, tanto per fare due nomi importanti, ne sanno qualcosa. Eppure tale identificazione è tutt’altro che scontata.

Premesso che il conservatorismo politico fin dal suo inizio è sempre stato caratterizzato da notevole polimorfismo: Burke non è certamente Novalis, e Adam Müller non è certamente de Bonald o de Maistre; premesso altresì che nel XX secolo abbiamo la “rivoluzione conservatrice” di Hugo von Hoffmannstahl e nel contempo conservatori che difficilmente si distinguono dai liberali, penso a Oakeshott e a Nisbet; altri che sono conservatori tecnocrati, penso a Gehlen e a Schelsky; altri ancora che, sulla scia della scuola di Joachim Ritter, sono conservatori ecologisti; altri infine, vedi Wolfgang Böckenförde, che sono conservatori e cristiani; premessa tutta questa varietà di posizioni, diventa invero difficile giustificare la suddetta identificazione del conservatorismo con l’antidemocrazia, l’antiliberalismo e l’antimodernità. Ma tant’è. L’identificazione ha avuto successo e il discredito nei confronti del conservatorismo è più vivo e operante che mai.

Non voglio dire ovviamente che in diverse correnti del pensiero conservatore non sia presente una forte vena antidemocratica, antiliberale e antimoderna, ma certamente questo non vale per autori come Burke, Oakeshott, Nisbet, Böckenförde o lo stesso Ritter, i quali potrebbero costituire invece un riferimento importante per un conservatorismo di stampo liberale del quale ci sarebbe estremo bisogno. Come ho già detto, si tratta in fondo di preservare quelle condizioni della libertà moderna che la libertà, da sola, non è in grado di preservare. Questo è il conservatorismo che potrebbero insegnarci i suddetti autori. Un conservatorismo che, alla fine, si riduce a poche, anzi pochissime convinzioni: l’inviolabile dignità della persona umana, ma anche la sua caducità; il primato della libertà in una politica il cui scopo non è il conseguimento della perfezione, bensì la minimizzazione del male possibile; un ethos ereditato dalla tradizione premoderna capace di impedire che la libertà si riduca alla semplice rivendicazione di ciò che io, e io soltanto, considero un mio diritto; l’importanza della religione come forma di alleggerimento e di protezione della politica da qualsiasi tentazione sacralizzante; la consapevolezza che è sì possibile una società del tutto priva di libertà e uguaglianza, mentre è impossibile una società nella quale regnino contemporaneamente la più totale libertà e la più perfetta uguaglianza.

Tenuti fermi questi punti, potremmo dire che tutto il resto è affidato alla saggezza e alla fantasia degli uomini. Conservatorismo dunque che in senso strettamente filosofico si gioca soprattutto sul tema della umana libertà e dei suoi limiti, e che in senso politico significa soprattutto realismo, da non confondere con il cinismo. Una forma di conservatorismo che si concepisce non tanto come netta opposizione agli ideali della rivoluzione francese, quanto come una sorta di comprensione di quegli ideali nel solco della tradizione politica classica, a conferma del fatto, che, come ebbe ad osservare Hermann Wagener, consigliere politico di Bismarck, il conservatorismo può essere anche «qualcosa di più alto e più profondo del meschino desiderio di perdere ciò che si ha il più lentamente possibile». Certamente, almeno per me, conservatorismo può essere una forma di liberalismo.

Loading