Luca Tedesco insegna Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre. Dirige le collane "Liberismi italiani" dell’Istituto Bruno Leoni di Torino e "Ulteriori Divergenze" dell’Università degli Studi Roma Tre. È Senior Fellow dell’Istituto Bruno Leoni e membro del Comitato scientifico della Fondazione Luigi Einaudi di Roma.

Recensione a: E. Galli della Loggia e L. Perla, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Scholé, Brescia 2023, pp. 120, € 14,00.

Ernesto Galli della Loggia è professore emerito di Storia contemporanea e Loredana Perla è professoressa ordinaria di Didattica e Pedagogia speciale. Inoltre, Perla coordina la Commissione ministeriale per la revisione delle Nuove indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione e Galli della Loggia la sottocommissione relativa all’insegnamento della Storia (per il documento redatto dalla Commissione si rinvia a https://www.mim.gov.it/documents/20182/0/Nuove+indicazioni+2025.pdf/cebce5de-1e1d-12de-8252-79758c00a50b?version=1.1&t=1741806754378).

I due hanno avanzato una proposta (in gran parte accolta nelle nuove Indicazioni nazionali), la quale intende fare dell’“identità italiana” un nucleo trasversale a varie discipline della scuola del primo ciclo di istruzione, in primis quelle di storia e geografia. Per valutare tale proposta è inevitabile, a mio avviso, partire ab imis, vale a dire dalle seguenti domande: i bambini sono in grado di comprendere la storia? Ammesso che siano capaci di apprenderla, la storia merita di essere insegnata? E quale tipo di storia? Ancora una volta, ammesso che vi siano delle tipologie di storia più accessibili di altre ai bambini, queste dovrebbero essere le sole meritevoli di circolare tra i banchi di scuola o non vi sono anche tipologie di storia, che pur più ostiche di altre per dei giovanissimi scolari, devono comunque essere veicolate nella scuola dell’obbligo?

Sono domande, queste, su cui si sono misurati i pedagogisti, perlomeno a partire dagli studi di Jean Piaget. Questi, in modo particolare nel suo Psychologie de l’enfant et enseignement de l’histoire del 1933, aveva sostenuto come nel bambino, prima dello stadio delle operazioni formali (che iniziava attorno agli undici anni), egocentrismo e inadeguato sviluppo della nozione di tempo ostacolassero la rappresentazione del passato storico. A parere di altri autori, invece, come Lev Semënovič Vygotskij, Jerome Seymour Bruner e Paul Fraisse, Piaget, fondatore dell’epistemologia genetica, avrebbe sopravvalutato i condizionamenti bio­logici dell’apprendimento e trascurato le possibilità della dimensione socioculturale.

Se per Piaget lo sviluppo della psiche è un processo essenzialmente individuale, fortemente condizionato dalla struttura genetica e scarsa­mente influenzato da stimolazioni ambientali, per Vygotskij tale svilup­po è invece necessariamente mediato dall’ambiente sociale tramite «strumenti culturali», quali, ad esempio, il linguaggio. Attraverso il linguaggio, difatti, l’ambiente socioculturale permetterebbe anche ai bambini al di sotto degli undici anni, già capaci di elaborare concetti spontanei, proiezione del loro vissuto personale, la comprensione di quelli scientifici.

Fine della controversia? Possiamo affermare con certezza che quindi la storia possa essere insegnata e appresa a scuola? Non proprio. Alberto Manzi, insegnante, pedagogista, scrittore e straordinario affabulatore (con Non è mai troppo tardi avrebbe fatto prendere, solo nel primo anno in cui andò in onda il programma, la licenza elementare a 35.000 italiani), nell’ultima intervista televisiva nel giugno 1997 si esprimeva così: “io sono stato forse l’unico insegnante che è andato sotto consiglio di disciplina per otto volte. Credo di aver battuto ogni record e la prima volta perché non davo i voti ai ragazzi e perché non insegnavo storia. Io spiegavo che non insegnavo storia perché gli potevo raccontare le leggende, il racconto di Ulisse e l’Odissea, […] potevo raccontare tutte le storielle che volevano ma il concetto di storia significa avere chiaro un concetto di spazio e di tempo che a dieci anni il bambino normalmente non ha” (Il ‘testamento pedagogico’ di Alberto Manzi, in “TV buona maestra”. La lezione di Alberto Manzi, in https://www.youtube.com/watch?v=dIIRJH6LQUg). Il confronto scientifico, insomma, continua. Ammesso, allora (e concesso?), che la storia possa essere compresa dai bambini, vi sono alcune tipologie di storia a loro più intelligibili di altre?

Gli studiosi di pedagogia e di psicologia infantile e dell’età evolutiva ci dicono che l’interesse del bambino è suscitato da oggetti e da problemi presenti nel suo paesaggio quotidiano. Le domande che i bambini si pongono ogni giorno non sono di ordine politico-istituzionale-diplomatico ma di ordine sociale, materiale. Tutti (o quasi) i bambini in Italia si svegliano in una casa riscaldata, all’interno di un nucleo familiare, prima agenzia di socializzazione, fanno colazione, si lavano e si vestono.

Nel paesaggio quotidiano del bambino, quindi, ciò che avviene all’interno delle mura domestiche e della propria famiglia precede, come lo stesso Galli della Loggia ricorda (p. 36), l’esperienza del contesto urbano con le sue bandiere esposte sull’edificio scolastico, i suoi uffici postali e le sedi del comune e della stazione dei carabinieri evocati dallo storico romano (ibidem).

Se questo è vero, allora, iniziare lo studio della storia con il processo di ominazione non mi sembra cosa così peregrina come pare invece a Galli della Loggia (che relega il tema al quarto o quinto anno del curriculum della scuola primaria da lui avanzato; proposta, questa, non accolta peraltro nelle citate Indicazioni nazionali che collocano la comparsa dell’uomo sulla terra e le «fasi iniziali della civilizzazione» al terzo anno).

Nella preistoria, ritroviamo, in forma più elementare, meno complessa rispetto alla società attuale, l’elaborazione di strategie di procacciamento di risorse per rispondere ai bisogni primari di sempre, bisogni che i bambini sperimentato nel loro vissuto quotidiano. Penso che nessun insegnante, per quanto dotato di capacità affabulatorie, potrebbe interessare i bambini di più allo studio delle Cinque giornate di Milano o dell’Inno di Mameli (che sia Galli della Loggia che le Indicazioni contemplano al secondo anno della primaria) che al modo in cui i nostri antenati, solo con lance sormontate da punte di selce, riuscivano ad abbattere i mammut.

La preistoria può essere presentata come formulazione di risposte alle domande e ai bisogni propri dei bambini: come ottenere il cibo per non morire di fame, come vestirsi e dove ripararsi per non morire di freddo. Questa è forse la strategia più efficace per catturare l’attenzione dei discenti, senza pregiudicare lo sviluppo cronologico delle questioni affrontate. La storia, quindi, come studio delle civiltà umane, a partire da quelle più primitive, per rendere comprensibile ai bambini, come da quelle più elementari a quelle più complesse, l’uomo abbia risposto con modalità differenti ad alcuni bisogni sempre identici a se stessi.

Ritengo, insomma, avesse ragione John Dewey quanto, più di cento anni fa, osservava che

il carattere apparente­mente già formato e la complessità delle condizioni attuali sono un osta­colo quasi insuperabile per gettar luce sulla loro natura. Ricorrendo ai primitivi si possono ottenere gli elementi fondamentali della situazione presente in una forma infinitamente semplificata. È come se si svolgesse un telo di stoffa così complicato e così vicino agli occhi che non se ne può vedere il disegno, fino a che non ne appaiono i primi tratti più gros­solani e più grandi. Non possiamo semplificare le situazioni attuali con un esperimento deliberato, ma il ricorso alla vita primitiva ci offre il ge­nere di risultati che desidereremmo da un esperimento. Le relazioni so­ciali e i metodi di azione organizzata sono ridotti ai loro termini più ele­mentari. […] La vita primitiva dà elementi per intendere [ad esempio] la storia della produzio­ne. Poiché una delle ragioni principali di ricorrere a condizioni più pri­mitive per risolvere il presente in fattori più facilmente percepibili è che possiamo capire come sono stati affrontati i problemi fondamentali di procurarsi il cibo, il riparo e la protezione; vedendo come questi proble­mi furono risolti nei primi tempi della razza umana, possiamo formarci un’idea della lunga strada che si è dovuta percorrere, e delle successive invenzioni con le quali la razza ha progredito [Dewey Democrazia e educazione (1916), La Nuova Italia, Firenze 1963, pp. 286-289].

Allora, se è vero che la storia può essere appresa fin dalla scuola primaria, e se è vero che la storia più adatta agli stili cognitivi dei bambini non è la storia politico-istituzionale ma quella latamente sociale, gli insegnanti possono tirare un sospiro di sollievo perché hanno a disposizione la straordinaria tradizione della scuola annalistica a cui attingere a piene mani.

La rivista «Annales d’histoire économique et so­ciale», fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre e tuttora esistente, costituì, come noto, una rivoluzio­ne nel panorama storiografico moderno. Essa avrebbe rivolto la propria attenzione non solo alla storia politico-diplomatica e mili­tare, ma anche e soprattutto a quella sociale, economica, culturale.

Alla storiografia precedente, incapace, a parere di Jacques Le Goff, di scandagliare «la vita in profondità», occorreva così affiancare quella volta a «studiare ciò che cambia lentamente e cioè quelle che da alcuni decenni si usano chiamare le strutture […]. La storia del breve periodo è incapace di cogliere e di spiegare le permanenze e i cambiamenti» (in La nuova storia, Mondadori, Milano 1980, p. 32).

L’esigenza di una storia dell’evoluzione sociale e culturale, di lungo periodo, era già stata avvertita nel Settecento. «Dopo aver letto tre o quattromila descrizioni di battaglie, e il contenuto di alcune centinaia di trattati, ho trovato che in fondo non ne sapevo molto più di prima. Così non imparavo altro che avvenimenti. Studiando la battaglia di Carlo Martello, non imparavo a conoscere i francesi e i saraceni», annotava Voltaire nel 1744 nelle sue Nouvelle considérations sur l’histoire.

Nel secolo successivo sociologi come Au­guste Comte avrebbero ridicolizzato i «dettagli troppo minuziosi, ricercati così puerilmente dalla curiosità irrazionale degli ottusi compilatori di aneddoti sterili» e invocato una «storia senza nomi»; Émile Durkheim liquidato gli eventi particolari come «nulla più che ‘manifestazioni su­perficiali’, come l’apparenza più che la sostanza effettiva di una nazio­ne» (P. Burke, Una rivoluzione storiografica, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 3-6) e letterati come Lev Tolstoj invitato a «mutare radicalmente l’oggetto dell’osservazione, la­sciare tranquilli i re, i ministri, i generali, e studiare gli elementi comuni, infinitamente piccoli, che guidano le masse» (R. Cousinet, L’insegnamento della storia e l’educazione nuova, La Nuova Italia, Firenze 1955, p. 10).

La storia sociale e della di­mensione quotidiana è probabilmente quella più adatta ad accendere la curiosità degli alunni. Essa inoltra risulta utile anche per gli apprendimenti futuri. È difatti evidente come per comprendere un qualsiasi avvenimento storico sia necessario conoscere il quadro generale nel quale prese forma. La proposta della Nouvelle histoire, ha precisato Landi, è allora quella più proficua perché «focalizzare […] lo studio della storia sulle caratteristiche strutturali (cioè, per i bambini, sugli aspetti della vita quotidiana) delle varie civiltà nello spazio e nel tempo, permette di costruire una rete concettuale nel­la quale si andrà a inserire organicamente, nei successivi anni scolastici, la storia degli avvenimenti economici, politici e militari» (L. Landi in Di chi è questa storia? Proposte didattiche per le classi multiculturali, Carocci, Roma 2010, p. 11).

Vengo all’ultima domanda. La storia (da quella sociale a quella politico-istituzionale) merita di essere insegnata?

Non è possibile, come ha splendidamente spiegato Max Weber, dimostrare che la vita sia degna di essere vissuta. Le scienze naturali, osserva Weber, «rispondo­no alla domanda: che dobbiamo fare se vogliamo padroneggiare la vita con la tecnica? Ma che si debba e si voglia padroneggiare la vita con la tecnica, e che ciò abbia in definitiva un senso, è qualcosa che esse lascia­no del tutto fuori discussione, o che al limite presuppongono» ma che non possono provare scientificamente. Le scienze storiche, poi, continuava il sociologo tedesco, «ci insegnano a comprendere i fenomeni politici, artistici, letterari e sociali della nostra civiltà nel contesto in cui essi sono sorti. Ma non rispondo­no direttamente alla domanda se quei fenomeni fossero o siano tutt’ora degni di esistere, né alla domanda se valga la pena di conoscerli» [Weber, La scienza come professione (1919), cit. in L. Tedesco, Didattica della storia. Un manuale per la scuola primaria e dell’infanzia, Le Monnier-Mondadori, Firenze, 2019, pp. 32-33].

Quindi? Quindi se e solo se crediamo che la realtà in cui siamo immersi meriti di essere conosciuta, l’insegnamento della storia ha diritto di cittadinanza nella scuola, in quanto quella realtà non si è appalesata in un vuoto pneumatico ma è necessariamente un portato di fenomeni ad essa precedenti. Ancora; se e solo se crediamo che la convivenza pacifica meriti di essere incoraggiata, allora l’insegnamento della storia appare dotato di senso nella misura in cui favorisce la comprensione della complessità sociale, la rinuncia ad egocentrismi ed etnocentrismi e a una visione manichea della vita (ipotesi che non vogliono essere assolutamente retoriche, che qualcuno potrebbe obiettare, forse ragionevolmente, che consapevolezza della realtà storica e delle sue cause può indurre ad abiti mentali critici poco rispondenti alle esigenze produttive e che tra l’apertura alle altre identità culturale al relativismo e al collasso della società passa il tempo di un battito di ciglia).

Tra gli obiettivi, infine, dell’insegnamento della storia nella scuola dell’obbligo deve essere annoverata anche “la conoscenza dei materiali storico-culturali che hanno costituito l’identità italiana” (come auspica Galli della Loggia a p. 6) e del “canone cultural-identitario italo-occidentale” (proposto da Perla a p. 78)?

Certamente (ma qualcuno ha sostenuto seriamente il contrario?) lo studio delle civiltà mediterranee antiche, a partire da quella greca e romana, e del cristianesimo non può non essere praticato a partire dalla scuola primaria. Anche il Risorgimento italiano, all’interno della più ampia questione dello Stato-nazione, tratto centrale della modernità in Europa a partire perlomeno dall’Ottocento, non può certamente essere ignorato.

Da una parte però, per le ragioni qui esposte, ritengo che tali temi debbano essere affrontati rispettando la successione temporale degli stessi; dall’altra penso anche che non solo il carattere sempre più multiculturale delle nostre classi ma anche le acquisizioni della World history impongano l’illustrazione, anche nella scuola del primo ciclo, di frequenti connessioni. Michael Scott, nel suo Mondi antichi. Una storia epica d’Oriente e d’Occidente (Bollati Boringhieri, Torino 2017), racconta che sulla via della Seta, già nel primo secolo d.C., aristocratiche e aristocratici romani e cartaginesi indossavano seta cinese in virtù di reti commerciali già consolidatesi da circa un secolo e che collegavano Roma antica, Tiro in Libano e Cina e come tali nuove vie della seta «si sarebbero rivelate fondamentali per il commercio mondiale per buona parte dei successivi 1500 anni, finché Colombo non scoprì l’America e Vasco da Gama non riuscì a circumnavigare la punta meridionale dell’Africa, aprendo così nuove rotte e nuovi mercati per il commercio a est e ovest» (p. 230).

Prendere una cartina geografica del globo, fissare su questa cartina le rotte commerciali non possono che essere per i bambini della primaria esercizi più stimolanti delle “letture (con spiegazione) della memorialistica risorgimentale” (Galli della Loggia, p. 52).

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