Niccolò Mochi–Poltri (1991): è impegnato da molti anni in attività di promozione culturale con le associazioni “Sur Les Murs” e Fondo Marco Mungai, delle quali è membro. Laureato in Scienze storiche, studioso appassionato di Filosofia, concentra i suoi interessi di ricerca sull’analisi della cultura politica dell’età moderna e contemporanea. Ha pubblicato Società. Divenire storico e conservazione (introduzione di F. Cardini, Roma–Cesena 2018).
Recensione a
R. Cubeddu, Individualismo e religione nella Scuola Austriaca
ETS, Pisa 2019, pp. 202, €18,00.
Chi, appena dopo una pagina dall’inizio dell’introduzione, legge che «[…] dalla scoperta di una teoria generale dell’azione umana (“teoria dei valori soggettivi”) […] gli Austriaci non traggono nessuna inferenza esplicita e diretta concernente Dio e la religione. E si potrebbe anche aggiungere che tra gli argomenti trattati nelle loro opere lo spazio dedicato alla religione è indubbiamente esiguo» (p. 11), potrebbe sentirsi smarrito. Di cosa si parlerà, se la religione è un problema del tutto secondario nella riflessione degli Austriaci, affrontato alla stregua di un corollario alle loro ipotesi fondamentali (“utilità marginale”, “valori soggettivi”, “catallassi”, “conseguenze inintenzionali” o “organico-irriflesse”, etc.)? In verità è proprio per l’originalità del problema che il lavoro di Cubeddu risulta affascinante: riassumerlo rischierebbe di sminuirne la complessità e, di conseguenza, travisarne le conclusioni. Perciò mi limiterò solo a fornire una sorta di “sussidio alla lettura”.
Il titolo del saggio rivela quali saranno i temi-guida intorno ai quali si svilupperà la riflessione: individualismo e religione, contestualizzati nell’alveo della cosiddetta “Scuola Austriaca”, fondata (involontariamente) dall’economista Carl Menger (Neu Sandez, 1840 – Vienna, 1921). Pertanto, in via preliminare ritengo opportuno chiarire cosa si debba intendere in questo contesto per «individualismo» e «religione».
Partendo dal primo termine, si deve tenere a mente che l’individualismo in questione è anzitutto “individualismo metodologico”, ovverosia la prospettiva euristica adottata dagli Austriaci ed incentrata sull’individuo (o sul soggetto, che dir si voglia), sui suoi atteggiamenti e le sue necessità. È da questa prospettiva che Menger scoprì la cosiddetta “utilità marginale”, ossia il fatto che un bene non possiede un valore intrinseco ma lo acquista in relazione alle esigenze del soggetto acquirente – una scoperta prodromica alla successiva formulazione della “teoria dei valori soggettivi”. Questo individualismo metodologico, esteso dagli Austriaci oltre l’ambito specifico dell’economia per diventare una teoria sociologica generale, avrebbe dimostrato quanto gli individui siano “moralmente” individualisti nei loro comportamenti in società, ovverosia legati ad istanze edonistiche ed eudemonistiche. Attenzione, però: «legarsi» non significa «fondarsi»; dunque tali istanze non devono essere considerate come dei valori, quanto, semmai, elementi di una prassi sociale che la teoria dei valori soggettivi può comprendere.
Il secondo termine da intendere in questo contesto è «religione». Abbiamo dianzi detto che la Scuola Austriaca ha esteso l’ambito delle sue ricerche anche alle scienze sociali in generale; pertanto, la religione può anche essere considerata come fenomeno sociale in senso lato, a prescindere dalla confessione specifica. Tuttavia, gli Austriaci le rare volte in cui parlano di religione hanno in mente soprattutto il Cristianesimo, e specificamente il cattolicesimo. Questo è dovuto in parte alla circostanza per cui il loro laboratorio, in origine, si trovava nel cattolico Impero Austro-Ungarico, ma è soprattutto dovuto al fatto che la declinazione cattolica del fenomeno religioso assume delle caratteristiche peculiari che sono motivo di interesse per una teoria sociale incentrata sul valore soggettivo. In particolare: 1) la religione cristiana agisce come una sorta di “moderatore” delle aspettative individuali e sociali (p. 17), quindi adottare una scala di valori piuttosto chiara; 2) i cattolici sono guidati e coordinati nelle loro scelte dalla Chiesa di Roma, perciò agiscono in linea di massima nel modo in cui Roma (il papa) dice loro; di conseguenza, si pone un criterio per circoscrivere ciò che può essere voluto.
Ebbene, dati questi chiarimenti, possiamo dire che la riflessione di Cubeddu procede intersecando tra loro individualismo e religione (cristiana-cattolica), facendone strumenti per investigare reciprocamente l’uno sull’altra e scoprire quanto, e se, ci sia qualcosa di assimilabile tra loro. O meglio: quanto gli esiti delle ricerche economico-sociali della Scuola Austriaca, pur diversi a seconda degli interpreti (per citare en passant i principali, oltre a Menger: Friedrich von Wieser, Eugen von Böhm-Bawerk, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek – peraltro presi in considerazione singolarmente nella seconda parte del saggio) siano debitrici della religione e quanto possano con essa convivere nella società capitalista-liberale occidentale. L’esito, anticipato alla fine dell’Introduzione, è apparentemente piuttosto prosaico: «la riflessione degli Austriaci sulla religione può essere identificata con la credenza secondo la quale non era scontato che, essendo una delle istituzioni sociali che, pur essendo sorte in maniera “organico-irriflessa” possono contribuire al “bene comune”, potesse fare più male o meno bene di altre teorie, mode, credenze e culture. Lo si sarebbe dovuto e potuto vedere caso per caso» (p. 41). E ancora, nella Conclusione: «[…] quel particolare liberalismo che viene detto “austriaco” […] per i suoi esponenti non ha una qualsiasi fondazione religiosa giacché essi pensano che la religione sia una delle tante ed importanti istituzioni sociali sorte in maniera “organico-irriflessa” e, comunque, che possa essere compresa nel proprio sistema esplicativo dell’azione umana e delle sue conseguenze inintenzionali» (p. 183).
Insomma: per usare una metafora sportiva, secondo gli Austriaci la religione può al più partecipare al gioco della società capitalistica e liberale (così come, in passato, ha partecipato alla formazione della civiltà occidentale), ma non può vincerlo. Di più: anche solo per partecipare avrebbe comunque bisogno di modificare alcune sue istanze per adattarsi alle “regole” di questo gioco economico-sociale. Per chiarire meglio questo esito, occorre evidenziare alcuni aspetti salienti della Scuola Austriaca. Il primo dei quali, quello che potremmo chiamare l’“afflato fondamentale” degli Austriaci, di tutti gli Austriaci (compresi i loro epigoni contemporanei), è che non solo si muovono nel solco del liberalismo, ma considerano le proprie teorie come gli unici anticorpi veramente efficaci per difendere la società, o meglio, gli individui (molti di loro sono scettici perfino sul fatto che esista qualcosa come “la società”) da derive socialistiche che comprometterebbero la loro libertà. Questa difesa si basa sul sistema economico capitalista, interpretato però non secondo l’assunto classico (e marxistico-socialista) per cui una merce avrebbe un valore intrinseco, ma secondo quello dell’utilità marginale, per cui una merce acquista valore in base all’interesse dell’individuo, dunque un valore soggettivo. Pertanto, il fatto che la Scuola Austriaca sia imperniata sull’economia, è fuori dubbio, così come l’economia in questione sia quella capitalista.
Evidentemente, la religione c’entra poco, anzi: il cristianesimo, che postula l’esistenza di valori assoluti (intrinseci), si colloca proprio agli antipodi dell’assunto fondamentale della teoria austriaca. Al più, condizionando i fedeli, che sono individui che scelgono e, quindi, che possono partecipare alla catallassi (l’ordine creato dalle relazioni economiche in un sistema capitalista), la religione è parte di un sistema molto più ampio, comprendente anche chi fedele non è – un sistema governato però dalla legge dell’utilità marginale, quindi, per così dire, governato dagli Austriaci (p. 14).
Attenzione, però: questo non è nemmeno il punto più controverso nel rapporto tra Austriaci e religione; ne è piuttosto una sorta di preambolo. I punti più controversi sono semmai i seguenti: 1) abbiamo già detto che i fedeli cattolici agiscono, in linea di massima, come la Chiesa di Roma dice loro. Ma se la Chiesa non possiede, in senso proprio, una teoria del capitale che le permette di partecipare alla catallassi; non solo, ma che storicamente ed anche attualmente dichiara ex-cathedra il proprio scetticismo, se non una vera e propria avversione, verso il capitalismo – perché gli austriaci dovrebbero considerarla un interlocutrice? (p. 20) Semmai, come soprattutto von Mises dice chiaramente (cfr. il paragrafo dedicatogli, da p. 139), andrebbe guardata con altrettanto sospetto, perché indulge nell’elaborazione di teorie sociali ambigue, che strizzano l’occhio al socialismo, e quindi potenzialmente dannose per la libertà; 2) la teoria dell’utilità marginale avrebbe dimostrato, secondo gli Austriaci, che le scelte degli individui si basano di fatto su criteri edonistici ed eudemonistici (in senso tecnico, non valoriale). Dei molti corollari che si potrebbe ricavare da questo assunto, e che Cubeddu analizzerà nel corso del saggio, il primo che viene in mente è quello dell’immanenza. Ovverosia: le scelte degli individui sono generalmente finalizzate a migliorare la propria condizione nell’“hinc et nunc”, ad ottenere miglioramenti nel più breve tempo possibile e nella maniera più concreta possibile. In questo senso, «[…] poiché la catallassi riduce il tempo e consente di migliorare le previsioni per il futuro, gli Austriaci non hanno più bisogno della religione e pensano che la politica e la scienza non siano alternative ma sussidi a quel proposito di riduzione del tempo e di affinamento delle previsioni» (p. 23).
Un rapporto controverso, dunque, quello tra individualismo e religione nella Scuola Austriaca. Un rapporto che, nonostante oggi siano molti a voler risolvere nel senso di una conciliazione – forse per resistere alle tendenze collettivistiche (quindi potenzialmente illiberali) del mondo democratico, in cui l’identificazione dei beni pubblici da realizzare tramite scelte collettive diventa appannaggio dell’elettorato (p. 40) – continua a restare problematico proprio perché problematica è la conciliazione dei rispettivi fondamenti. Eppure, forse proprio nella condivisione di una causa comune si potrebbe trovare una soluzione – la salvaguardia della libertà personale? Ma questa è un’altra storia.