Valerio Vagnoli (1952) si è laureato in letteratura italiana moderna e contemporanea con Luigi Baldacci. Dal 1973 al 2007 ha insegnato in tutti gli ordini di scuola, inclusi gli istituti penitenziari di Firenze. Rimane fondamentale la sua esperienza di maestro nel carcere minorile e nella sezione femminile del carcere di Sollicciano (sembra sia stato il primo docente maschio a ricoprire questo ruolo in Italia) ove peraltro incontrò e lavorò con Antonio Gelardi, già allora un illuminato giovane vicedirettore e in seguito uno dei direttori carcerari più innovatori del nostro Paese. Dal 2007  ha diretto scuole di ogni ordine e indirizzo chiudendo dopo 44 anni la propria attività all'Istituto professionale Saffi di Firenze. E, non a caso, sull'importanza di ricostruire  una autentica formazione professionale nel nostro Paese continua a mantenere  un costante e motivato impegno. Ha fatto parte del “Gruppo di Firenze” e collabora da tempo con quotidiani e riviste.

Domenico A. è stato uno degli allievi più miti e svogliati che abbia mai avuto. Finì in riformatorio  forse perché la sua mitezza lo aveva reso vittima di bullismo in quel paese fuori Firenze dove egli abitava con la sua famiglia emigrata da non molti anni dal Sud. Era basso e taciturno e perfetta controfigura di un Antonio Ligabue ragazzino; figura, questa, entrata allora nelle case e nei cuori di molte persone grazie allo sceneggiato mandato in onda pochi anni prima dalla Rai e grazie soprattutto alla bellissima interpretazione del pittore da parte di Flavio Bucci. E Domenico, soprattutto in virtù del bullismo subìto e forse per una situazione familiare non facile, aveva trascorso le sue giornate saltando la scuola e rubacchiando, forse per non sentirsi inferiore rispetto agli altri suoi spregiudicati coetanei, qualcosa  nelle botteghe e nei bar da poter mangiare poi nelle lunghe giornate trascorse fuori da scuola e fuori da casa.

La sua detenzione in riformatorio coincise con quella di altri due ragazzi genovesi che, come Domenico, non avevano frequentato nessuna classe delle medie e che non potevano, vista la loro giovanissima età, essere avviati alle attività lavorative al di fuori della struttura: quelle interne erano allora quasi del tutto inesistenti. Fu così che insieme a Nicola Zuppa, mio collega fin dai tempi del carcere minorile, e ad Alessandro Targioni, educatore nostro coetaneo col quale collaboravamo con molta intesa su tante delle attività scolastiche, decidemmo di dividerci le discipline e di proporre ai tre ragazzini di affrontare il percorso della scuola media entro quell’anno scolastico. Ovviamente senza nulla togliere agli altri ragazzi che frequentavano la scuola elementare che aveva i suoi punti di forza nell’abituarli a convivere nel rispetto reciproco, a condividere e a trattare argomenti che giornalmente scaturivano con naturalezza dal momento in cui ci ritrovavamo tutti quanti all’interno dell’aula scolastica piena di un fumo che rendeva ancora più fioca la poca luce della stanza. Essendo in due, eravamo da sempre abituati ad alternarci tra la conduzione delle discussioni del gruppo e il lavoro separato con un altro, però piccolo,  gruppo di ragazzi, soprattutto nomadi, che dovevano imparare la lingua italiana o rafforzare, se italiani, le loro conoscenze elementari in fatto di lingua italiana e aritmetica. Ci sarebbe poi stato anche un gruppo di teatro, ma quello lo avremmo seguito facendo ritorno nei pomeriggi e sarebbe purtroppo finito quando, era il 1982, dopo la chiusura della scuola, in occasione della nostra “prima” in un teatro cittadino, i due ragazzi genovesi fuggirono dalla finestra di un camerino e riuscimmo a salvare la rappresentazione  mandando sul palco due ragazzi che avevano assistito a qualche prova e che recitarono grazie ai due suggeritori che dietro le quinte indicavano loro le battute e dove spostarsi sulla scena.

Le mattinate di solito terminavano con partite di calcio nel cortile, con tornei di calciobalilla o con il frantumarsi del gruppo in tanti gruppetti se nel frattempo era arrivata qualche decisione del Tribunale negativa o positiva per qualcuno dei ragazzi. Domenico rimaneva un solitario anche dentro il riformatorio e c’erano giorni in cui soffriva di un fortissimo dolore alla testa che lo teneva isolato per tutta la mattinata. Ero quasi certo che questo suo isolarsi e questo suo non condividere le esuberanze e le prepotenze che invece caratterizzavano tutti, o quasi, gli altri suoi compagni, lo portavano spesso a dover subire atti di bullismo quando la sera la vera vita sociale ed educativa sarebbe terminata e le loro ore si sarebbero misurate negli spazi delle camere e dei corridoi con il conseguente dominio di questi spazi da parte dei “capi” e degli elementi a loro legati. Domenico, in uno di quei suoi giorni bui, ebbe anche una crisi epilettica.

Sia per Domenico che per gli altri due ragazzi fu una fatica durissima doversi abituare a concentrarsi stando seduti intorno a uno di noi insegnanti per affrontare gli elementi di base per ciascuna delle discipline oggetto di studio. Tra le tante motivazioni che cercavamo di usare per spingerli a impegnarsi  e a progredire nello studio, ricordavamo loro che avrebbero sostenuto l’esame nella scuola del quartiere sedendo tra i banchi in mezzo a ragazzini più piccoli e con insegnanti che avrebbero preteso una preparazione almeno sufficiente, seria e responsabile al pari di quella dei loro allievi che avevano svolto i programmi in tre anni di scuola. Insistevamo comunque su tutto quello che ci poteva essere utile per  motivarli e incoraggiarli: dalla licenza premio alla possibilità di poter un giorno prendere la patente di guida perché, ce lo eravamo senz’altro inventato, si prospettava loro che presto sarebbe stata vietata la patente a chi non avesse avuto il diploma di scuola media. Fu, per i tre ragazzi, veramente faticoso abituarsi ad un impegno costante, ma col tempo e con l’avvicinarsi della data d’esame avvertimmo che qualcosa stava progressivamente cambiando e forse percepivano realmente e con soddisfazione quanto stavano faticosamente apprendendo.

Qualche settimana prima delle prove, il collega ed io li accompagnammo nella scuola sede di esame facendoli incontrare, su nostra richiesta, con una docente di riferimento che li avrebbe poi esaminati. L’incontro fu molto cordiale; la collega confermò che tutti i loro fascicoli erano a posto e che per nessuna cosa al mondo si dovessero preoccupare. Fece presente che non ci sarebbero stati problemi e che l’esame sarebbe senz’altro andato bene e che si sarebbe trattato più o meno di una pura formalità. Fu esattamente in quel momento che Domenico mi fulminò con lo sguardo e una volta usciti dalla scuola si rivolse a noi con ostentata prepotenza rinfacciandoci la nostra disonestà nell’aver chiesto loro un impegno che, secondo lui, non sarebbe stato invece necessario.

A fine estate lasciai il riformatorio perché incaricato presso il carcere femminile. So per certo che lo studio per la scuola media si interruppe almeno fino a quando, dopo qualche anno, non fu deciso finalmente di aprire dentro il riformatorio una sezione specifica per il percorso delle medie inferiori. Dopo un anno ebbi la cattedra alle superiori e la mia meraviglia fu scoprire che stava sempre più prendendo campo una categoria di docenti che, come la professoressa delle medie, si sentivano molto gratificati dall’essere generosi e buoni nei confronti dei ragazzi e talvolta, con ostentato orgoglio, perfino amici. Stava sempre più prendendo campo la pessima usanza di accettare che gli allievi si rivolgessero ai docenti in maniera del tutto informale usando gli orrendi termini “prof o spesso profe” in un clima di   quasi generale consapevolezza che finalmente anche così la scuola era vicina ai ragazzi. E per certi colleghi il sei politico non si doveva mettere in discussione. Spesso questa “generosità” era propria di quei docenti che preferivano il “dialogo” rispetto all’impegno nelle proprie discipline.

Naturalmente sopravvivevano docenti che non rinunciavano al loro ruolo che consisteva e consiste ancora oggi nel dare tutto se stessi per garantire ai propri studenti una preparazione adeguata e una formazione umana trasmessa innanzitutto con l’esempio e la passione per quello che avrebbero insegnato ai loro allievi. Non mancavano, come non mancano ancora oggi, docenti mai usciti dai loro schemi fatti di rigidità e attaccamento al sapere di puro stampo mnemonico e refrattari di fronte a qualsiasi opportunità per poter cambiare la loro professione. E c’erano, come purtroppo ci sono ancora oggi, docenti del tutto inadeguati al loro ruolo e, malgrado ciò, assolutamente inamovibili.

Di Domenico non seppi più nulla fino a quando, siamo alla fine degli anni Ottanta, non lessi sul giornale che un soldato di leva, proprio lui, aveva lasciato il proprio posto di guardia e con il fucile a tracolla si era recato in un bar per giocare al flipper. Al barista aveva solo detto che gli faceva male la testa e che era stanco. Sparerà, uccidendolo, al proprio capitano che, avvertito, si era recato nel medesimo bar per convincerlo a tornare in caserma. Poco dopo Domenico sarà ucciso a sua volta da una squadra di carabinieri che in assetto di guerra gli spareranno una raffica di pallottole.

Giuro che Domenico era un ragazzo davvero buono, mite e buono e per questo probabilmente vittima di quel feroce bullismo che nelle nostre caserme di allora non mancava e che riservava ai troppo buoni e remissivi sofferenze di ogni genere, compresa quella di costringerli a turni di guardia assidui e senza alcun rispetto per la dignità di un ragazzo che, pur soffrendo di crisi epilettiche e rassomigliando come una goccia d’acqua al giovane Antonio Ligabue, era stato ugualmente arruolato e al quale era stata negata perfino la soddisfazione di essersi conquistato, per proprio merito, la licenza di scuola media.

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