Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, insegna Filosofia teoretica, Metafisica e Filosofia delle menti artificiali. Ha anche insegnato Epistemologia, Sociologia della cultura e Storia dell’estetica. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Altri temi di cui si occupa sono: la mente come dispositivo semantico; la vitalità del pensiero classico greco e romano; le strutture ontologiche delle intelligenze artificiali; la questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Ždanov. Sul politicamente corretto (Algra Editore, 2024). Il suo sito web è www.biuso.eu

Nata nel mare e dal mare, come tutto.

Addormentata dentro una carrozza di Versailles, che le viene regalata da un ricco armatore ancora prima che lei nascesse.

Cresciuta e diventata splendida, quell’armatore amico di famiglia, il quale aveva suggerito ai genitori come chiamarla, le chiede: «Se avessi quarant’anni di meno, mi vorresti sposare?»[1]. Al che lei risponde che non è quella la domanda giusta. Quale sarebbe tale domanda? «Se avessi quarant’anni di più, lei vorrebbe sposare me?». Divertito, l’uomo ne conclude che la ragazza ha sempre la risposta pronta. Un’osservazione che molti le rivolgeranno ancora. Questo dialogo sull’età mi ha ricordato un’affermazione di Schopenhauer: «Nel complesso vanno bene tutti gli anni compresi tra l’inizio e la fine delle mestruazioni, anche se noi diamo decisamente la preferenza al periodo che va dal diciottesimo al ventottesimo anno. Al di fuori di quell’arco di tempo, invece, non c’è donna che ci possa eccitare: una donna vecchia, vale a dire non più mestruata, suscita il nostro ribrezzo. La giovinezza senza bellezza ha pur sempre il suo fascino; la bellezza senza giovinezza non ne ha alcuno»[2].

Invitata da molti a diventare attrice, entra in contatto con ex dive e con maestre di recitazione ma non ne trae giovamento.

Si iscrive all’Università al corso di antropologia, dove il Professor Devoto Marotta, esigente e cattivissimo, diventa per lei un modello non soltanto di studio ma anche di vita. Marotta la sceglie come allieva prediletta, le chiede di partecipare a un concorso da ordinario all’Università di Trento con l’auspicio che poi torni a Napoli a prendere il suo posto. A poco a poco scopriamo che proprio l’insegnamento è stato il suo lavoro, da docente di antropologia. E a Trento resterà per tutta la vita. Come argomento della tesi aveva chiesto a Marotta di occuparsi delle ragioni antropologiche del suicidio ma il professore la indirizza verso l’antropologia del miracolo.

Per studiare l’argomento, incontra monsignor Tesorone, arcivescovo di Napoli, impegnato nel miracolo del sangue di San Gennaro e che la introduce alla bellezza dei luoghi sacri, tra gli ori e i diamanti del tesoro del Duomo, tra i paramenti sacri dei quali la riveste tutta, tanto da farle dire: «Sembro una reliquia».

Tra le attrici che ha frequentato ve n’è una che è tornata dopo tanto tempo, che viene accolta come una regina e che durante un incontro ufficiale con le autorità e il pubblico pronuncia una dura requisitoria contro i napoletani, contro la loro presunzione, viltà, vittimismo e rassegnazione. Questa attrice ha le fattezze di Sophia Lorén (come pronunciano i napoletani).
 La sera stessa incontra un giovane camorrista che la porta nei bassifondi della città, dove vede la profonda miseria dei suoi abitanti e assiste alla «fusione», allo sposalizio carnale tra i rampolli di due famiglie prima nemiche che ora diventano una cosa sola. I due si accoppiano davanti a tutti, in modo da sancire apertamente la pace. In queste scene di miseria e di sesso mi sembra evidente la suggestione di Curzio Malaparte, del suo capolavoro anche antropologico: La pelle[3].

Nelle feste, nei vicoli, a Capri e ovunque viene da tutti appellata con espressioni quali ‘Si n’a Maronna’. Respinge miliardari, si offre allo scrittore americano John Cheever, geniale e alcolizzato ospite a Capri e del quale ha letto molte opere, ma lui la ringrazia e le risponde che prima dovrebbe convincersi «di non essere attirato dagli uomini».

Dopo alcuni anni di collaborazione, il Prof. Marotta le fa conoscere suo figlio Stefano, malato e sul quale fioriscono leggende. E in effetti si tratta di una creatura enorme e interamente glabra, che trascorre il suo tempo ridendo e guardano il televisore. Stupefatta, lei dichiara: «ma è bellissimo». E il padre: «Sì, è bellissimo. È fatto di acqua e di sale». Come il mare.

Un altro personaggio trascorre il suo tempo rimanendo fisso davanti al televisore e nella casa ormai cadente: è il padre della ragazza ormai spento dopo una grave disgrazia accaduta alla famiglia. Come se il televisore fosse l’ultimo rifugio dei non più esistenti o dei non mai venuti all’intelligenza. Intuizione corretta.

Tornata dopo quarant’anni a Napoli, nel 2023, la trova e si trova immersa nella festa per il terzo campionato di calcio vinto dalla squadra della città. L’ultima scena è ancora una surreale barca di tifosi che incede non sul mare ma sulle strade. Davanti all’albergo ci sono soltanto lei e questi tifosi colorati d’azzurro, rumorosi, festanti.

Al di là e dentro la sua bellezza e la sua gloria, questa donna è pervasa da una malinconia che a volte diventa sorriso candido, altre volte assume la forma di una profonda tristezza e del pianto.

Parthenope è uno dei film più proustiani che abbia visto. Lo scrittore omosessuale è una sorta di Charlus per la protagonista; uno Charlus al quale si affiancano personaggi che ricordano Jupien, Berma e forse anche Morel. Proustiano, oltre che meridionale, è lo splendore delle cattedrali e di un cattolicesimo intriso di bellezza, soltanto di bellezza. Al di là di tali e altri elementi, Parthenope è la fuggitiva, è Albertine diventata una cosa sola con il Narratore. Nessuno può averla, alla fine, se non forse l’uomo sacro. Ed è quest’uomo a pronunciare le due frasi che vogliono comunicare il senso del film: «Il tempo scorre accanto al dolore» e «Dio non ama il mare».

L’epigrafe è tratta anche stavolta da Céline, come accaduto per La grande bellezza: «Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto».

In questo film, come nell’esistenza, non ci si può che perdere poiché la poetica di Sorrentino è fatta di primi piani e insieme di immagini che si aprono al cielo e alla terra sconfinati, è fatta di fotogrammi tra di loro irrelati ma intensissimi, è fatta di salti onirici e di accadimenti grotteschi e surreali. Una poetica che qui vuole raccontare ciò che non è possibile dire. Parthenope è infatti un film impossibile poiché ha l’intenzione e l’ambizione di svelare l’essenza della donna e l’essenza di Napoli. Due entità non svelabili, incomprensibili sempre, avvolgenti e tremende, tenere e cupe, carnali e astratte. Barocche.

NOTE

[1] P. Sorrentino, Parthenope, Italia 2024. Se non diversamente indicato, le citazioni successive sono tratte dal film.

[2] A. Schopenhauer, Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione», a cura di G. Brianese, Einaudi, Torino 2013, cap. 44, Metafisica dell’amore sessuale, p. 693.

[3] C. Malaparte, La pelle (1949), a cura di C. Guagni e G. Pinotti, Adelphi, Milano 2020.

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