Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia. È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a: 7 aprile 1926: attentato al Duce. Violet Gibson, capace di intendere e di volere?, a cura di G. P. Lombardo, Fefè Editore, Roma, 2022, pp. 255, € 17,00.

Il “caso” (semmai lo sia stato davvero, un caso) di Violet Gibson, ovvero di uno dei diversi attentati contro Benito Mussolini avvenuti fra il 1925 e il 1926, è un indicatore significativo di uno dei modi “classici” in cui il mondo della medicina possa incrociare quello della politica, così come quello della giustizia.

Perché una donna straniera, di mezza età, di buona famiglia, per tanti versi “strana”, cercò di uccidere – non riuscendoci per poco –, sparandogli in faccia, il capo del governo italiano e duce del fascismo? Tutte le vicende successive (le indagini, l’internamento manicomiale, la perizia psichiatrica, il proscioglimento) ruotano attorno a un presunto “segreto”, a una verità nascosta che sarebbe rimasta per sempre inafferrabile: perché quel tentato omicidio? C’era qualche forza occulta che manovrava questa “vecchia signorina irlandese”, c’era forse una mente che aveva subdolamente suggestionato quella mente già di per sé turbata dalla malattia mentale? In altre parole: il segreto della Gibson era un mero delirio o poteva avere comunque un significato politico?

Alcuni dei saggi che compongono questo volume curato da Giovanni Pietro Lombardo, ci inducono a pensare che il percorso della Gibson a Roma nei giorni prima dell’attentato sia stato “orientato” alla realizzazione dello stesso, ma che, per svariate ragioni (di opportunità politica, di propaganda, di cautela diplomatica), questa presunta valenza politica non sia mai stata presa davvero in considerazione. La chiave di volta della vicenda è la via di uscita che, in fin dei conti, mise tutti d’accordo: Violet Gibson era semplicemente “pazza”. Lei stessa, a dire il vero, lo disse da subito, fin dal momento dell’arresto: il suo gesto era solo il frutto di un delirio; da anni aveva smarrito la ragione, tentando anche il suicidio. Il delirio della Gibson era una follia a sfondo prettamente religioso e il fascismo non c’entrava per niente. Anche uno dei suoi legali, il celebre Enrico Ferri, spinse per arrivare il prima possibile al proscioglimento per incapacità di intendere e di volere, evitando così che il processo dovesse aver luogo.

A farsi carico di questa volontà condivisa di minimizzare il fatto, e condivisa in primo luogo dal regime stesso, ci pensarono due psichiatri romani, Augusto Giannelli e Sante De Sanctis. Il loro lavoro di periti rappresenta forse un caso di uso politico della psichiatria: la loro descrizione della personalità della Gibson, i suoi precedenti ereditari, la condotta, il suo essere una incorreggibile “dissimulatrice” e, soprattutto, la diagnosi individuata (paranoia), portano il discorso verso una completa depoliticizzazione e decontestualizzazione della vicenda. D’altra parte, la stessa scienza psichiatrica si è servita in qualche modo di questa volontà condivisa per rimarcare il proprio territorio di competenza (l’individuazione e la gestione dei folli, in quanto tali non imputabili).

La Gibson fu prosciolta, il processo non ci fu e la donna fu rimandata in Inghilterra, dove rimase internata in un manicomio vita natural durante, senza avere mai la possibilità concreta di una liberazione.

Il gesto di questa “asociale” ebbe comunque un peso non trascurabile nell’evoluzione del potere fascista della metà degli anni Venti, nella sua intensificazione, capitando appunto nel 1926, ovvero nell’“anno napoleonico” di Mussolini, che determinò il ben noto rafforzamento nella gestione dittatoriale e violenta dell’ordine pubblico. Difficilmente, però, potrà esser tolto a quell’episodio il marchio di gesto sconsiderato, semmai soltanto utile al regime. La propaganda fascista vide infatti in esso una occasione propizia a celebrare il duce invincibile – basti pensare soltanto al visibilissimo cerotto sul naso esposto da Mussolini come un trofeo il giorno dopo l’attentato. Ad ogni modo, ben presto il caso di Violet Gibson, subito declassata da avversaria del regime ad avversaria del buon senso e della ragione, finì nel dimenticatoio e soltanto in anni recenti è tornato alla luce, in particolare grazie ai ricercatori che si occupano di storia dei manicomi e dell’assistenza psichiatrica nel nostro Paese.

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