Dottore in Scienze della Politica, si è laureato nel 2020 presso la Scuola “Cesare Alfieri” dell’Università degli Studi di Firenze con una tesi dal titolo “Populisti si nasce: mentalità, azione e cultura populista nella democrazia americana”, relatore Prof. Marco Tarchi.
Attualmente è borsista del “Seminario Silvano Tosi” promosso dall’“Associazione per gli Studi e le Ricerche Parlamentari”, dove si occupa dello studio dei provvedimenti adottati in riposta alla crisi pandemica SARS-CoV-2.
Dal 2019, partecipa alla pubblicizzazione degli eventi dell’associazione “Sottosopra; Idee per ripensare il futuro”. I suoi ambiti di ricerca concernono la teoria politica, la storia delle istituzioni e la filosofia normativa.

Recensione a
N. Urbinati, Io, il Popolo. Come il populismo trasforma la democrazia
il Mulino, Bologna 2020, pp. 339, €24.00.

«Possiamo fidarci del populismo? La mia risposta è negativa. Il populismo getta un’ombra sinistra sulla democrazia costituzionale» (p. 9). In questa affermazione, contenuta nella prefazione all’edizione italiana, è espresso il parere, e riassunto l’intento, che l’autrice si pone di specificare.

Nadia Urbinati, ordinaria di Teoria Politica presso la Columbia University di New York, nelle oltre trecento pagine che compongono Io, il popolo, riprende e consolida un discorso iniziato sei anni prima in Democrazia sfigurata; Il popolo fra opinione e verità, dal quale si ricavano alcuni assunti che muovono l’analisi dell’autrice. Decisione e opinione sono indicati come i due pilastri che sorreggono la democrazia costituzionale: una democrazia “diarchica” (espressione che richiama i due volti della democrazia tratteggiati da Margaret Canovan) che dev’esser sempre guardinga nel tenere questi due “poteri” dei cittadini sovrani ben distinti, seppur in comunicazione, per mantenere differenza (tramite lo strumento delle elezioni) e distanza (tramite la rappresentanza) così da lasciare «aperto il processo politico alla formazione e all’azione dell’opinione e della partecipazione» (p. 23) dei cittadini. Esattamente il contrario di ciò che aspira a fare il populismo come forza di governo.

Qualsiasi regime che non preveda la scissione tramite procedure codificate di questi due ambiti ed una rigida divisione dei poteri (la critica è rivolta ai sostenitori della cosiddetta “democrazia illiberale”) è semplicemente non definibile democrazia, giacché non consente che il processo di formazione delle maggioranze rimanga «aperto e indeterminato» (p. 27), rendendo fuorviante considerare lo stile populista una pretesa di maggior aderenza al principio democratico e superfluo discutere tra “democrazia” e “democrazia-liberale”, poiché la prima è inconcepibile se non può contare sulle libertà politiche e civili garantite dalla dottrina della libertà.

Per questa via, a differenza della democrazia diretta e, ovviamente, della democrazia populista, che esaltano e sono il dominio dell’immediatezza a causa della rapida consequenzialità (o simultaneità) dell’azione dei due pilastri, ciò che rende solide le attuali poliarchie è il loro, al contrario, essere regno della longue durée, permettendo così alle istituzioni di esser luogo del potere legittimo ma, allo stesso tempo, oggetto di discussione, controllo e contestazione non soggetto alla maggioranza di turno che, invece, i leader populisti desiderano rendere centro permanente dell’ordinamento.

Fissati i presupposti teorici, nell’intento di analizzare gli effetti che il populismo produce sulla società e le tracce che lascia nel discorso pubblico, conscia della sterminata letteratura sull’argomento e delle numerose interpretazioni che si sono sovrapposte e smentite nel corso dei decenni, l’autrice mette in guardia su una sempre più comune ed errata convinzione odierna: l’assimilazione tra fascismo e populismo. Nonostante sia possibile evidenziare similarità e notare qualche nostalgico richiamo, o una certa placida benevolenza giustificatoria, negli appelli e nella retorica di alcuni leader populisti («estremo limite della democrazia costituzionale»), è fondamentale comprendere che il populismo nasce in seno alla democrazia e non è estraneo ad essa come il fascismo: il populismo è una sfida interna, usa a piene mani la validazione e la legittimità che discende dalle elezioni e dalle procedure democratiche e necessità di una costante ed entusiastica partecipazione tipica della “democrazia dell’audience”, conseguenza del traumatico epilogo della democrazia dei partiti. Tutto il contrario della soppressione elettorale, della ricercata apatia dei cittadini e della totale assimilazione tra Stato e Società che hanno tentato di conseguire i regimi sorti tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso. In errore, dunque, i molti commentatori che li equiparano, più per semplicità e comodità, senza un’accurata spiegazione: troppo riduttivo agitare la comune genesi movimentista e l’avversione antipartitica (tendenze che l’autrice riconosce come legittime in una democrazia e, anzi, caratteri ricorrente del regime sin dai tempi dell’esperienza della Grecia antica).

Nel tentativo di esplicitare una fenomenologia definitiva del populismo, piuttosto che tratteggiarlo attraverso teorie di medio raggio dei differenti contesti (che si riconosce comunque essere rilevanti), per la Urbinati il populismo che da semplice movimento aspira a diventare forza di governo si costruisce a partire da una fondamentale pulsione contro l’establishment: il divario “pochi vs molti” è stato, infatti, da sempre uno dei filoni più prolifici del repubblicanesimo antico e della democrazia. Dal 1945 in poi questo conflitto intestino è stato tenuto a bada grazie la fictio costituita dal concetto di “popolo”: il “Popolo Sovrano” delle costituzioni è una finzione giuridico-politica fondamentale, poiché comprendente tutti e nessuno indistintamente, assolutamente inclusivo e sinonimo di imparzialità. La faziosità nella democrazia dei partiti si fonda sul riconoscimento altrui e sulla consapevolezza che solo legittimando le parti sia possibile, una volta al potere, governare nell’interesse di tutti; per i populisti, invece, la battaglia si conduce in termini morali (l’esser partecipi del potere politico rende automaticamente immondi e membri della “Casta”) dando vita ad una merelatria, il culto della sola parte giudicata sana, e perciò vero popolo, entità organica ed «unitaria dotata di soggettività morale e valore etico» (p. 131).

Il populismo, dunque, è un tentativo di estrazione del “vero Popolo” dal popolo empirico, che considera la politica e la gestione della cosa pubblica come un esercizio egemonico e che deve ridurre all’impotenza, degradando il discorso pubblico e attaccando le minoranze, chiunque gli si opponga e la cui sola validazione è la vittoria. In questa nuova santa crociata la figura fondamentale è quella del leader: secondo l’autrice, il populismo fa proprio un orizzonte estraneo alla democrazia diretta, perché concepisce ancora la rappresentanza come imprescindibile, ma in un rapporto nuovo, diretto e non mediato tra il leader e il popolo. Non più il mandato elettorale, ma «l’incorporazione che dà vita ad un profeta ventriloquo» (p. 203), esente da ogni responsabilità, in quanto mera cassa di risonanza e strumento d’azione del popolo, incline a disdegnare e ad abolire i corpi intermedi e le procedure di controllo al suo operato (poiché ciò che legittima è solo l’adesione fideistica dell’audience), nell’intento di cementificare il suo potere annullando la distanza tra politica ordinaria e costituzionale.

Dovendo restare continuamente in contatto con “la sua gente” per non rischiare di diventare a sua volta establishment, il leader populista distorce il concetto della votazione, insito nel processo decisionale, trasformando il “principio di” maggioranza in “potere della” maggioranza (maggioritarismo) che si «manifesta in relazione al pluralismo, non tollera opposizione, […] facendo di questa trasformazione della maggioranza – da procedura a dominio – la differenza normativa tra la democrazia costituzionale e la democrazia populista» (pp. 161-167).

Consapevole che «democrazia è la rivendicazione che ogni generazione fa di poter seguire le sue scelte» (p. 314), in un fitto confronto con autori classici e con alcuni filoni della teoria politica recente (numerosi i riferimenti e i confronti con le opere di Giovanni Sartori ed Ernesto Laclau) la Prof.ssa Urbinati tiene fuori dal fuoco d’analisi le vicende geo-politiche e socio-economiche che hanno accompagnato l’emergere del populismo, rivelando una parzialità dell’analisi riconosciuta nelle note finali, e sembra rischiare, in alcuni tratti, di cedere alla tendenza di accrescere eccessivamente il portato di conclusioni ricavate da un numero ristretto di casi (abbondanti i riferimenti al Sud America e, in particolare, al Venezuela di Chavez).

Cionondimeno compie un’opera di chiarifica dettagliata ed esaustiva su di un fenomeno ormai ridondante nel dibattito odierno; un’analisi lucida e severa per la compressione ai diritti fondamentali che il populismo può generare, ma anche consapevole e comprensiva, che tiene conto dell’importanza della riduzione delle diseguaglianze economiche per la stabilità della democrazie e che, nonostante tutto, riconosce come «il populismo tenta di colmare uno iato […] registra l’emergere di una volontà politica decisa ad esplorare nuove strade nel tentativo di reagire contro pratiche che non mantengono ciò che era promesso» (p. 314). Una lettura fondamentale per comprendere in maniera intellettualmente onesta in che direzione si stanno muovendo i regimi nei quali viviamo.

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