Laureato in Scienze Politiche al «Cesare Alfieri» di Firenze, si interessa di storia del periodo fascista e dell’Italia repubblicana. Sul fascismo apuano ha pubblicato Al gancio del Negroni. «Il Popolo Apuano» di Stanis Ruinas. Fascismo rivoluzionario e Regime nella provincia del marmo (Solfanelli 2016) e Fascismi di provincia. Pontremoli e l’Alta Lunigiana 1919-1925 (Youcanprint 2019). Ha pubblicato saggi e articoli su riviste di studi storici («Rassegna Storica Toscana», «Nuova Antologia», «Diacronie») e sulla rivista on line del Centro Studi Geopolitica.info.
L’accostamento tra la figura politica di Donald Trump e quella del settimo presidente degli Stati Uniti Andrew Jackson (1829-1837) fu avanzato dallo studioso americano Walter Russell Mead già nel gennaio 2016, alla vigilia delle primarie del partito repubblicano. Mead confermò il suo paragone sul «Wall Street Journal» all’indomani della vittoria di Trump nel novembre 2016, giudicata l’esito di una «rivolta jacksoniana». L’accostamento è poi passato sui media e accreditato dallo stesso Trump, forse in cerca di definizioni della propria figura politica, in interviste dove elogiava Jackson, il cui ritratto entrò con lui nello studio ovale.
Nel suo libro del 2001, Special Providence. American Foreign Policy and How It Changed the World, Mead aveva proposto una lettura della politica estera americana attraverso quattro “scuole” della politica americana, identificate ciascuna con statisti americani del passato: l’hamiltoniana, la wilsoniana, la jeffersoniana e la jacksoniana. Le prime due sono internazionaliste, convinte che la sicurezza e il benessere americano siano assicurati da un ordine internazionale liberale modellato sui principi americani. I realisti hamiltoniani, scettici sulla migliorabilità della conflittuale natura umana, ritengono che la ragion d’essere della politica estera siano commercio e business, fattori di pace e stabilità, perseguiti anche con la collaborazione delle corporation. Gli idealisti wilsoniani ritengono che il mondo possa essere migliorato dalla diffusione dei valori democratici e dei diritti umani. Entrambe le “scuole” assegnano agli Usa la responsabilità speciale di realizzare un ordine internazionale quanto più prospero, libero e democratico, come tale più stabile e pacifico, capace di contenere la conflittualità che potrebbe minacciare la sicurezza e la prosperità americane. Entrambe le “scuole” sono quindi interventiste, disposte a impegni in organizzazioni multilaterali, economiche e di sicurezza collettiva, ma anche a interventi militari quando, per i “mercantili” hamiltoniani, sia minacciato l’ordine internazionale del globalismo commerciale, e anche, per i “missionari” wilsoniani, per interventi umanitari o per esportare e difendere i valori democratici.
Le “scuole” jeffersoniana e jacksoniana, al contrario, temono che l’impegno americano negli affari del mondo comporti un rischio di coinvolgimento in conflitti costosi e inutili che non riguardano gli Usa. Scettiche sulla possibilità di esportare il modello americano in altre culture e paesi, ritengono di difendere l’eccezionalismo americano in patria più che portarlo all’estero. Entrambe sono diffidenti del governo federale, più favorevoli all’autonomia dei singoli Stati, e diffidenti, quando non ostili, verso le élites economiche e militari e le concentrazioni di potere. I jeffersoniani sono refrattari alla guerra, poiché essa è una via di rafforzamento del potere centrale, incluso il militare, quindi minacciosa per la democrazia di cui si ergono a intransigenti custodi, mentre i più pragmatici jacksoniani sono disposti a interventi militari solo quando ritengono che una minaccia alla sicurezza nazionale sia esiziale. Le due “scuole” sono considerate isolazioniste (marcatamente i jeffersoniani), anche se forse “nazionaliste” sarebbe la definizione più esatta, poiché l’isolazionismo è un paradigma da usare in termini relativi nella storia degli Usa.
Di recente, Mead ha confermato implicitamente il ricorso al paradigma delle “scuole” nell’interpretazione della politica estera americana esprimendo il suo favore per un ritorno al «pragmatismo hamiltoniano», realista ma illuminato, più adatto a fronteggiare le crisi del mondo contemporaneo (The Return of Hamiltonian Statecraft. A Grand Strategy for a Turbulent World, «Foreign Affairs», settembre-ottobre 2024). Il paradigma delle “scuole” è controverso, bersaglio di critiche consuete alle modellizzazioni degli approcci politologici, che accostano esperienze e fenomeni di momenti storici lontani. Né le “scuole” possono essere considerate categorie rigide, come avverte anche Mead, poiché la politica americana è spesso frutto di combinazioni tra istanze delle diverse “scuole”, che sarebbe meglio chiamare “correnti” di pensiero poiché non riguardano solo le élites politiche e intellettuali ma attraversano la società americana. L’accostamento tra Trump e Jackson è controverso quanto il paradigma storiografico.
Andrew Jackson, personaggio discusso della storia americana, ebbe un percorso biografico diverso da quello di Trump. Di umili origini, con un passato familiare precario, si fece da solo acquisendo esperienze di pubbliche funzioni, prima come giudice poi come comandante militare. Trump è un rampollo del capitalismo americano, non ha mai svolto servizio militare ed è privo di esperienze in pubbliche amministrazioni precedenti al suo impegno in politica. Jackson costruì la sua figura politica con la vittoria relativa nel voto popolare nelle elezioni presidenziali del 1824, rovesciata dal collegio elettorale (la Camera) a favore dell’uomo dell’establishment John Quincy Adams. La manovra parlamentare diede la stura a Jackson di ergersi a uomo dell’americano comune, del popolo tradito dalle oligarchie. Trump ha conquistato la presidenza nel 2016 con il voto del collegio elettorale (i grandi elettori) pur avendo perso nel voto popolare, ma dopo la sconfitta del 2020 ha rilanciato la sua figura come vittima delle oligarchie dell’establishment, sulla presunzione di una falsificazione del voto.
Jackson, ottenuta la rivincita alle presidenziali del 1828, rivoluzionò i partiti politici e favorì l’allargamento della vita politica oltre i circoli dei potentati notabilari, è considerato il fondatore del partito democratico moderno, il campione del populismo democratico americano, ostile alle élites finanziarie ed economiche e alle oligarchie politiche. Il partito democratico ha a lungo interpretato le emergenze populiste. Il People’s Party sullo scorcio dell’Ottocento affiancò senza successo i democratici alle presidenziali del 1896, le eterogenee insorgenze populiste degli anni Trenta, dal democratico radicale Huey Long in Louisiana, al prete cattolico Charles Coughlin in Michigan, all’avvocato Francis Townsend in California, furono riassorbite dall’accelerazione riformistica del New Deal di Roosevelt. Solo dagli anni Settanta del secolo scorso istanze populiste sono state raccolte anche dai repubblicani, fino a Trump, un outsider che ha guadagnato al partito repubblicano l’America jacksoniana e rivoluzionato l’identità del Gop.
Il fattore “culturale”, nel senso lato di insieme di principi, valori, mentalità, persino miti, pregiudizi, emotività, non esaurisce certo l’interpretazione della politica internazionale di un paese, che è legata alla dinamica del sistema internazionale e alle dinamiche interne al paese. Tuttavia, poiché Trump non è l’imprevedibile alieno della banalizzazione mediatica, il fattore “culturale” offre uno strumento per reinserire la sua figura politica eccentrica in una tradizione di lungo corso della storia americana. L’America jacksoniana ha una lunga storia che i seguaci delle altre tradizioni hanno inutilmente dimenticato se non disprezzato. Dai pionieri e i farmers dei tempi passati, la tradizione jacksoniana è passata agli uomini della middle class industriale, vittime di un declassamento sociale che li ha spinti a una ricollocazione politica. Trump non viene da questa America e certo non è stato votato solo da questa componente della società americana, ma ha interpretato e cavalcato la sua “rivolta”. Essa nella sua mobilità politica gli ha consentito la costruzione della sua figura politica e il suo successo.
In politica estera, i jacksoniani sono realisti. Vedono il mondo come un ambiente anarchico e violento, le relazioni internazionali governate dai rapporti di potenza e regolate dalla forza. Sono pessimisti, non credono che questa realtà possa essere modificata dal missionarismo idealistico wilsoniano e sono scettici sull’efficacia delle organizzazioni internazionali care agli internazionalisti. Non sono guerrafondai, considerano la guerra costosa di risorse materiali e umane, in sé un rischio per la prosperità e la libertà americane. La scelta dell’intervento armato per essi è determinata dalla convinzione di una minaccia chiara e imminente per la nazione, non sono favorevoli a interventi di polizia a tutela di un ordine internazionale che non vedono, a esperimenti di esportazione del modello americano ai quali non credono, a interventi umanitari in conflitti che non coinvolgono un preciso e vitale interesse americano. Tuttavia, la loro pessimistica visione del mondo li rende favorevoli, assai più dei jeffersoniani, a un apparato militare forte. Nonostante la loro diffidenza verso le élites di potere coinvolga anche quella militare, pongono nella forza e superiorità militare la vera garanzia di sicurezza per la nazione. Benché meno inclini all’interventismo internazionalista di hamiltoniani e wilsoniani, ritengono l’arruolamento e l’impegno militare un punto d’onore e hanno verso la guerra, una volta iniziata, un rapporto spiccio: l’unico scopo di essa non può essere che la vittoria totale e la resa incondizionata del nemico. Portarli in guerra non è facile, vanno convinti della sua necessità, ma una volta in battaglia è difficile convertirli a soluzioni negoziali e diplomatiche con il nemico.
L’approccio contenuto negli interventi militari, mostrato da Trump nel primo mandato, può derivare dalle diffidenze jacksoniane, ma è forse legato al suo percorso personale: non è un politico o un militare di professione, è un imprenditore, cioè un uomo d’affari aduso a vantaggiosi contratti più che a costosi conflitti, una formazione che privilegia l’approccio negoziale. Ha intitolato la sua autobiografia del 1987 Trump. The Art of the Deal, un’arte non necessariamente benevola, specie se sostenuta dalla forza. Tuttavia, dovrà tenere conto che l’America jacksoniana non ama il negoziato con tutti, ma solo con interlocutori ritenuti “onorevoli” ed esclude con disprezzo quelli disonorevoli, come i terroristi, gli Stati canaglia, gli avversari ostinati e fanatici, ai quali non intende concedere quartiere. Il senso dell’onore jacksoniano domanda rispetto in quanto fattore di credibilità e forza in campo internazionale.
Trump ha già scompigliato il dibattito sulla sua attribuzione alla “scuola” jacksoniana. Nel discorso inaugurale dello scorso 20 gennaio, presenti big delle corporation, ha evocato le figure hamiltoniane dei repubblicani William McKinley e Teddy Roosevelt, e ha promesso di intitolare di nuovo a McKinley, « a natural businessman», il monte Denali in Alaska, promessa mantenuta da un ordine esecutivo. McKinley, vincitore delle presidenziali del 1896 e del 1900 contro il democratico populista William Jennings Bryan, è noto per il forte protezionismo a sostegno dell’espansione industriale del paese, ma anche per l’espansionismo americano con impegni militari fuori delle Americhe. Trump aveva già in passato indicato negli anni a cavallo del XIX e XX secolo un periodo di giusto equilibrio nella politica estera tra difesa e commercio, quando il paese costruì una «macchina basata sull’imprenditorialità», un riferimento più alla crescente influenza economica del paese in quel periodo che alla guerra ispano-americana del 1898 a Cuba e nelle Filippine. Insomma, forza economica e business strumenti privilegiati di politica estera: un’incursione hamiltoniana?
Il ritratto di Jackson è comunque tornato con Trump nello studio ovale, ma la concessione più sostanziale all’America jacksoniana resta il vicepresidente. J.D. Vance è un autentico rappresentante dell’America jacksoniana. Le origini sociali difficili in una famiglia dispersa lo avvicinano più di Trump alla biografia di Jackson. L’impegno per il riscatto individuale riuscito con l’impiego militare prima, con quello imprenditoriale poi e con lo studio, lo rendono un perfetto rappresentante dell’America jacksoniana che crede nell’etica individualista dell’autentico americano, rispetta chi lotta per il proprio riscatto, disprezza i “parassiti” del sussidio statale e onora chi serve anche con le armi il proprio paese. Il suo libro di memorie Hillbilly Elegy. A Memoir of a Family and Culture in Crisis è un’elegia dell’America jacksoniana.
Il paradigma “culturale” suggerisce che il nazionalismo jacksoniano non è sinonimo di isolazionismo: “America first” non significa “America alone”. L’insofferenza verso vincoli multilaterali e la preferenza per accordi bilaterali con altri paesi non è sinonimo di disimpegno. Inoltre, l’eccezionalismo jacksoniano ritiene il modello americano unico, non universale, i jacksoniani non credono alla possibilità e all’utilità di esportarlo. “America first” significa “americanismo, non globalismo”: nell’America di Trump le priorità della politica interna daranno le direttive a quella estera. Per dirla con uno slogan di McKinley, “prosperity at home, prestige abroad”.