Redattore

Niccolò Mochi–Poltri (1991): è impegnato da molti anni in attività di promozione culturale con le associazioni “Sur Les Murs” e Fondo Marco Mungai, delle quali è membro. Laureato in Scienze storiche, studioso appassionato di Filosofia, concentra i suoi interessi di ricerca sull’analisi della cultura politica dell’età moderna e contemporanea. Ha pubblicato Società. Divenire storico e conservazione (introduzione di F. Cardini, Roma–Cesena 2018).

Recensione a: F. Faggin, Irriducibile, Mondadori, Milano 2023, pp. 352, € 12,50.

 

Wan der mensche muos in im selber ein sin unt muos das suochen in ime selber unt in eim und nemen in eime:

das ist gotte schouwen alleine. Unt herwider komen das ist wissen unt bekennen, das man got bekennet unt weis.[1]

Meister Eckhart, Von dem edelen menschen

 

Fisico per formazione accademica, imprenditore di successo delle sue invenzioni nel settore tipico della terza rivoluzione industriale, cioè: nell’informatica; allora animato da spirito faustiano, Federico Faggin[2] già nella seconda metà degli anni Ottanta esplorò le possibilità della AI, sviluppando reti neurali artificiali.

Eppure, tutto ciò diventava di per sé sempre meno importante. Dice Faggin:

Fino all’età di quarant’anni avevo vissuto facendo quello che fa la maggior parte di noi: avevo cercato la felicità fuori di me, convinto che per ottenerla avrei dovuto adempiere a tutto ciò che il mondo prescrive a tale fine […] Mi ero affannato a spuntare ognuna delle caselle della mia “lista” immaginaria della felicità, cancellando dalla mente qualunque turbamento interiore […] Mi dicevo che, per essere felice, dovevo prima arrivare alla fine della lista (p. 12).

Ma il successo non donò la felicità, bensì la sofferenza. Se la sofferenza è una porta – come dice la citata Simone Weil – Faggin decise di attraversarla per scoprire quale fosse l’origine della sua sofferenza, del suo disagio.

Proprio come Faust, anche Faggin cercò la risposta nella sua scienza: tentò infatti di ricostruire artificialmente la sofferenza per risalirne alla causa, attraverso la creazione di computer che potessero provare quella sensazione, e che quindi fossero dotati di coscienza. I suoi sforzi furono però frustrati: i sentimenti e le emozioni recalcitravano a lasciarsi tradurre in segnali elettrici, suggerendo che appartenessero ad una realtà diversa. Fu da questa impasse che: «[…] a furia di riflettere, intuii che la causa della mia disperazione era collegata col mistero della coscienza, e che dovevo assolutamente impegnarmi a fondo per tentare di risolverlo» (p. 13).

La soluzione giunse sottoforma di rivelazione. Accadde che una notte del dicembre 1990, Faggin sentì all’improvviso un’energia fortissima emergergli dal petto. Quest’energia era amore, «ma un amore così intenso e così incredibilmente appagante che superava ogni sentimento e nozione che avevo sulla natura dell’amore» (p. 14). Essa si manifestò in un primo momento come luce bianca splendente, viva e «beatifica», zampillante direttamente dal suo cuore. Poi la luce esplose, colmando tutto l’universo — fu allora che Faggin comprese che quella è la sostanza di cui è fatto tutto ciò che esiste, e che ha creato l’universo a partire da sé stessa (p. 14).

E poi: meraviglia! Quella luce, quella sostanza luminosa fu da lui riconosciuta essere lui stesso. Cambiava così radicalmente la prospettiva da cui osservare le cose: l’universo non era più fuori, separato da lui; era bensì dentro di lui, creato da lui. Così Faggin spiega tale esperienza: «[…] l’essenza della realtà si è rivelata come una sostanza che conosce se stessa nella sua autoriflessione, e il suo autoconoscersi è vissuto come un amore irreprimibile, dinamico e pieno di gioia e di pace» (p. 15).

L’esperienza destò Faggin alla consapevolezza dell’esistenza di una dimensione più arcana della realtà, cioè: quella spirituale, «in cui una persona è tutt’uno con il mondo» (p. 15). Spiega ancora Faggin: «Così adesso intuisco che la mia identità è come uno degli infiniti punti di vista con cui Uno – il Tutto, la totalità di ciò che esiste – osserva e conosce se stesso» (p. 16).

Tale esperienza di risveglio indusse Faggin ad esplorare la sua interiorità, consapevole che la realtà esteriore fosse comprensibile e sensata solo in funzione di quella. Da allora Faggin si è dedicato a sviluppare una «scienza della coscienza» (p. 18) la quale ha trovato un fecondissimo supporto nella fisica quantistica. Tale incontro ha portato nel 2022 alla formalizzazione della teoria QIP[3], cioè: Quantum Information-based Panpsychism, elaborata insieme al prof. Giacomo d’Ariano (p. 182).

Prima di procedere nella ricostruzione di alcuni dei temi più importanti del saggio, è opportuno fare una premessa chiarificatrice: la fisica quantistica descrive la realtà, ma non è la realtà (p. 185) — non più di quanto una foto che ritrae Tizio sia Tizio stesso. D’altronde, essa descrive meglio la realtà rispetto alla fisica classica, perché, laddove questa può rappresentarne solo l’esteriorità; l’altra è capace invece di rappresentarne quell’interiorità che, secondo Faggin, ne è l’essenziale (p. 214).

Perché la rivoluzione gnoseologica che Faggin propone consiste effettivamente in ciò: indagare l’interiorità dell’universo. Il che presuppone che l’universo abbia un’interiorità, cioè: una coscienza! Faggin sostiene infatti che l’universo sia cosciente, e che tutto ciò che esiste ne sia un’emanazione altrettanto cosciente. Ecco cos’è quell’«irriducibile» a cui il titolo del saggio allude: è la coscienza, la quale è appunto irriducibile a qualunque alterità rispetto a sé stessa — compresa quella materia alla quale i materialisti ed i loro epigoni vorrebbero ridurre ogni ente e fenomeno. Dunque: l’universo sarebbe cosciente — laddove per «coscienza» s’intende la capacità di percepire sensazioni e sentimenti, cioè: i cosiddetti «qualia» (p. 147). Questa capacità permette a colui che la possiede di auto-esperimentarsi e conoscersi (p. 126), trasformando il significato oggettivo di un segnale in significato soggettivo, interiore. Tale significato soggettivo è ciò che costituisce l’aspetto semantico della realtà, cioè: il «significato» vero e proprio. Il significato è allora come il prodotto della distillazione che la coscienza fa dei qualia, e tale processo è ciò che Faggin identifica come «comprensione» (p. 157).

Si badi bene: la comprensione, come processo di “estrazione” del significato dai qualia percepiti coscienzialmente non sarebbe assimilabile con ciò che chiamiamo “ragione discorsiva”, dianoetica, la quale è appannaggio della capacità razionale stricto sensu; essa consisterebbe bensì nella “ragione intuitiva” (p. 162), assumendo la forma della νόησις, della conoscenza noetica. In altre parole: si tratta di una conoscenza sperimentabile interiormente, non algoritmica — quindi inaccessibile alla macchina (p. 162).

Ora: se c’è la comprensione è perché si dà la coscienza; se si dà la coscienza, si deve dare qualcuno che sia cosciente. L’Uomo è senz’altro un ente cosciente, perché è capace di percepire i qualia. D’altronde, non c’è una spiegazione scientifica valida che giustifichi l’emersione della coscienza da combinazioni di materia[4]; ed essendo la materia priva di coscienza, non è accettabile neanche logicamente che una proprietà più generale, cioè: la coscienza possa emergere da una proprietà particolare che non la contiene (p. 178). In altre parole: nel “meno” non può starci il “più”.

Ergo: la coscienza deve risalire ben aldiqua rispetto all’Uomo; e se tutto l’universo è cosciente, allora la coscienza è da sempre, dall’origine, anzi: è l’origine — qualcosa di assimilabile forse a ciò che i fisiologi antichi avrebbero chiamato: «ἀρχή». E così: l’universo inanimato, “materiale”, non sarebbe venuto prima, perché derivato da «una realtà quantistica più profonda, abitata da enti con coscienza e libero arbitrio che comunicano tra di loro trasmettendosi parte del significato della loro esperienza» (p. 196).

In principio vi sarebbe dunque la coscienza. Ora: siccome la coscienza esiste per la conoscenza, simul stabunt simul cadent; qualcuno che sia cosciente vuole allora conoscere, e solo chi vuole conoscere è cosciente — così che la coscienza arcaica voleva conoscere. E cos’altro avrebbe potuto conoscere, nella sua assoluta solitudine, se non sé stessa?

A questa coscienza arcaica Faggin attribuisce un nome che evoca ben più di quanto l’autore stesso ammette. Faggin si limita infatti a spiegare:

Chiamo Uno questo Tutto [il Tutto olistico descritto dalla fisica quantistica, che possederebbe non solo le proprietà fondamentali che permettono l’evoluzione dell’universo inanimato, ma anche i semi del libero arbitrio, della coscienza e della vita] per distinguerlo dal Campo della fisica, perché da Uno emergono i campi coscienti con libero arbitrio […] e non i campi inanimati delle particelle elementari della fisica […] (p. 190).

La biografia di Faggin presenta invece una sorpresa: egli è figlio di quel Giuseppe ben noto a chi ha studiato Plotino, in quanto è stato il primo benemerito traduttore per intero delle Enneadi in italiano. Impossibile allora resistere alla tentazione di supporre che in qualche modo l’Uno di Federico sia stato concettualizzato perlomeno avendo presente quell’Uno che traduceva, secondo Giuseppe, il nome che Plotino aveva attribuito alla Prima Ipostasi. E in effetti, riflettendo sul sistema che Faggin propone si percepiscono delle singolari e interessanti consonanze con il sistema di Plotino — si badi bene: non per emulazione; bensì perché entrambi risuonano forse della voce della Verità…

Dunque: Uno è la coscienza arcaica, originaria, che vuole conoscere ab aeterno sé stessa. Ma siccome conoscere significa anche venire ad esistenza (p. 198); allora conoscere è ontologico, ovverosia: sarebbe l’atto specifico col quale Uno crea l’universo, procedendo dal desiderio incessante ed insoddisfacibile di conoscere sé stesso — così che: «Uno vuole conoscere sé stesso per autorealizzarsi […]» (p. 200). Da ciò deriva immediatamente un corollario: l’universo ha una sua teleologia, un suo scopo; così come lo hanno tutti gli enti che costituiscono l’universo perché sono “creature” di Uno, alle quali tale scopo è stato impresso loro nella loro essenza ontologica da Uno (p. 200).

«Ogni atto di autoconoscenza di Uno dà esistenza a quella parte di sé che Lui ha conosciuto […] E ogni nuova esistenza […] è una parte-intero di Uno con lo stesso desiderio, capacità e libertà di conoscere se stessa che ha Uno» (p. 198). Ragion per cui, essendo noi esseri umani «[…] emanazioni di Uno, è ragionevole concludere che gli impulsi profondi che ci spingono a conoscere noi stessi provengano dallo stesso anelito che ha l’Uno di conoscere se stesso» (p. 199). Inoltre, dal momento che – come dice il citato Paracelso – la maggior conoscenza è congiunta indissolubilmente all’amore; «[…] più aumenta la conoscenza […] più aumenta l’amore» (p. 199) — il che comporta, siccome la conoscenza è ontologia, che la creazione sia integralmente un gesto d’amore ed amata. A loro volta, tutti gli enti coscienti possono compiere tale gesto d’amore conoscendo sé stessi.

Gli enti coscienti ai quali si fa riferimento sono emanazioni di Uno, e ne condividono le proprietà. Il nome che Faggin dà a questi enti è: «seity», che così definisce:

[La seity è] un ente cosciente che può trasformare il suo stato mantenendone la purezza e può creare una memoria classica della sua esperienza […] Nel contesto della QIP, una seity è definita come un ente cosciente che sa di esserlo, he può agire con libero arbitrio e che ha un’identità permanente (p. 186).

Una seity è un “campo” in uno stato puro che esiste in una realtà più vasta del mondo fisico che contiene il nostro corpo (p. 187).

Una seity non può esistere nello spazio-tempo dove esiste il nostro corpo. Essa può comunicare con il corpo che controlla usando informazione viva[5] (p. 188).

Il termine «campo» fa riferimento alla TQC (Teoria Quantistica dei Campi), secondo la quale l’ontologia non risiede nelle particelle elementari, bensì nei campi, di cui le particelle elementari sarebbero stati eccitati. In altre parole: la fisica quantistica afferma che le particelle elementari non sono affatto “oggetti” dotati individualmente di una loro autonomia ontologica, bensì sarebbero come onde del mare — laddove il mare in quanto tale sarebbe lo «stato puro», mentre le onde la «trasformazione» non compromettente la purezza del campo.

La fisica quantistica offre questa rappresentazione della realtà; una realtà che però, secondo Faggin, consiste sostanzialmente nella coscienza. Di conseguenza: ciò che la fisica classica e l’ideologia materialista ci hanno indotto a credere essere il fondamento della realtà, cioè: le particelle elementari, altro non sarebbe che lo stato eccitato delle seity, ovverosia: la loro attività di auto-conoscenza (p. 209).

Ogni seity avrebbe quindi una natura tale da essere sia una creatura dipendente da Uno sia un mondo a sé stante. In quanto cosciente e consapevole di esserlo, cioè: auto-cosciente, desidera conoscere sé stessa ed amarsi definendosi secondo un’identità permanente (p. 186). Avendo libero arbitrio, sceglierebbe autonomamente la maniera in cui conoscere, ed ogni miglioramento conoscitivo costituisce un’evoluzione i cui esiti vengono memorizzati — perché altrimenti non ci sarebbe evoluzione, semmai chiusura in un circolo vizioso dove le esperienze dimenticate potrebbero essere rivissute, per poi essere dimenticate ancora, ipotecando così l’evoluzione e l’identità stesse. La individualità di ogni seity, infine, si riscontra nel fatto che ognuna comunicherebbe con sé stessa secondo il proprio linguaggio specifico — esattamente come accade ad ognuno di noi per esprimere a noi stessi il significato di una nostra esperienza intima.

(fine prima parte)

NOTE

[1] L’uomo dev’essere uno in sé stesso e deve cercare l’uno in se stesso e nell’uno e coglierlo nell’uno: deve cioè guardare soltanto Dio. Ma deve anche ritornare: cioè deve conoscere e sapere che conosce ed è consapevole di Dio.

[2] Nato a Vicenza nel 1941, studia all’Istituto Tecnico nonostante il desiderio del padre di vederlo frequentare il Liceo Classico. Diplomato, inizia subito a lavorare per l’Olivetti, progettando un’unità aritmetica da utilizzare in una calcolatrice elettronica. Con lo stipendio di Olivetti si paga inoltre gli studi che gli permetteranno di laurearsi in Fisica all’università di Padova nel 1965. Poco dopo, inizia l’ascesa: nel 1967 viene assunto alla SGS di Agrate Brianza (oggi diventata la STMicroelectronics, un colosso italo-francese da 16 miliardi di fatturato annuo) e da lì, approfittando del gemellaggio della SGS, si sposta negli Stati Uniti, in California, alla pionieristica Fairchild Semiconductor. […] È così che Faggin, a 27 anni, sbarca a Palo Alto, nel cuore della Silicon Valley. Alla Fairchild, come spiega la sua pagina su Wikipedia, “si dedicò allo sviluppo dell’originale MOS Silicon Gate Technology, la prima tecnologia del mondo per la fabbricazione di circuiti integrati […]. Progettò e produsse anche il primo circuito integrato commerciale che usasse la Silicon Gate Technology, il Fairchild 3708″. Nonostante i successi, la carriera di Faggin alla Fairchild dura poco: nel 1970, le sirene che giungono da Santa Clara, circa venti chilometri di distanza da Palo Alto, lo attirano e lo portano a trasferirsi alla Intel, fondata soltanto da due anni prima da una coppia di transfughi della Fairchild: Gordon Moore e Robert Noyce. Alla Intel, gli ingegneri informatici Ted Hoff e Stanley Mazor avevano ideato una nuova architettura per le calcolatrici della giapponese Busicom, che fino ad allora si basavano sul Programma 101 di Olivetti. Hoff semplificò il progetto originale, che utilizzava sette chip, riducendolo a quattro grazie all’uso delle nuove memorie ram di Intel. Tuttavia, Hoff non era un designer di chip, così l’idea rimase ferma allo stadio iniziale. È in questo passaggio che fu decisivo  il contributo di Faggin, che permise di portare a termine il lavoro dando così vita al 4004: il primo microchip della storia. […] Faggin supervisionò lo sviluppo di tutti i microprocessori Intel nei primi cinque anni trascorsi in quell’azienda, compreso l’8008, il primo microprocessore a 8 bit, e l’8080, che propose e di cui formulò l’architettura. Nonostante abbia dovuto aspettare sei mesi per l’approvazione del progetto, l’8008 e l’8080 divennero i precursori della famiglia di processori 8086, che ancora oggi domina il mercato dei personal computer. Nel 1974 lascia però l’Intel e si mette in proprio, fondando la Zilog e creando il processore Z8, ancora in produzione. Negli anni Ottanta sviluppa inoltre i primi touchscreen e touchpad con la società Synaptics e si occupa anche di reti neurali, che oggi sono alla base della rivoluzione dell’intelligenza artificiale. Faggin è insomma un uomo di successo, che guadagna bene, ha dato e continua a dare un contributo enorme allo sviluppo delle nuove tecnologie. (biografia ricavata da: https://www.wired.it/article/federico-faggin-inventore-microchip-storia/)

[3] D’Ariano, Faggin, Hard Problem and Free Will: An information-theoretical approach, in F. Scandagli, Artificial Intelligence Versus Natural Intelligence, New York, Springer, 2022, pp. 145-192

[4] Per avere un quadro di riferimento di quelle teorie materialiste che sostengono la teoria secondo la quale fenomeni come la coscienza, o la mente siano prodotto di aggregazioni di materia, cfr. Daniel C. Dennett, Dai batteri a Bach. Come evolve la mente, trad. it. di S. Frediani, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018. Per avere un quadro di riferimento ed un’esposizione della teoria cosiddetta “emergenziale” dell’universo, cfr. Harold J. Morowitz, La nascita di ogni cosa. Come l’universo è diventato complesso, a cura di L. Anzolin, V. Perna, T. Siciliano, Lindau, Torino 2014.

[5] Così Faggin definisce l’informazione viva: «[…] è l’aspetto informatico, energetico e materiale degli organismi viventi che può essere spiegabile solo con l’informazione quantistica» (p.110). Essa si distingue dall’informazione classica descritta da C. Shannon, che valuta solo la quantità oggettiva di ogni simbolo e non il significato che questo può avere.

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