Federico Nicolosi (2004) studia Filosofia presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università degli Studi di Catania. Si interessa di questioni concernenti la filosofia teoretica, con particolare riguardo all'ontologia e alla metafisica; attuali temi favoriti della sua ricerca sono il desiderio e il fenomeno amoroso all'interno di una prospettiva fenomenologica. È autore di articoli e saggi pubblicati e in fase di approvazione su diverse riviste scientifiche di area teoretica, tra cui “Vita Pensata”, “Il Pequod”, “In Circolo. Rivista di filosofia e culture”, “Dialoghi Mediterranei”, “Discipline Filosofiche”.

 

Recensione a: M.T. Russo, Corporeità e relazione. Temi di antropologia in José Ortega e Julìan Marìas, Armando Editore, Roma 2012, pp. 190, €16,00.

La corporeità intesa come fatto metafisico, come sistole e diastole del nostro stare al mondo, è forse il portato più fecondo del Denkweg orteghiano. Senza correre il rischio di risultare riduttivi, è possibile sostenere che essa costituisca il vero nucleo del pensare di José Ortega y Gasset, il sangue che ne irrora tutti i diversissimi capillari, vene e arterie. Il volume di Maria Teresa Russo Corporeità e relazione ripercorre questo intricato cosmo che è la produzione orteghiana – reso particolarmente ostico dalla sua assenza di sistematicità – sotto la luce di tale tematica cara al pensatore spagnolo e ha il merito di farlo (al di là del sottotitolo) ontologicamente, prima che antropologicamente.

A partire dalla critica impugnata da Unamuno contro l’humanitas astratta, cui già quest’ultimo opponeva l’interesse per l’uomo concreto e vivente, si può affermare che la centralità del corpo – o, per dirla con Ortega, della razòn vital – costituisca un vero e proprio file rouge della filosofia spagnola. Ciò che tuttavia rende originale la riflessione di Ortega, e la distingue in maniera netta da quella dei suoi predecessori, è proprio la sua articolazione radicalmente metafisica, non gnoseologica né antropo-sociologica (o comunque tale solo in un secondo momento). La corporeità, in altre parole, non è una questione filosofica rilevante perché ognuno di noi possiede un corpo con cui, volente o nolente, deve fare i conti, ma perché il vivente è corpo in quanto tale. Pensare il corpo vuol dire quindi pensare l’umano e, più in generale, l’animale. Per il filosofo dell’Escoriàl,

l’essere corpo implica pertanto non solo che tutte le altre cose siano corpi, ma che il mio corpo sia il punto di riferimento di tutto il resto. Ciò comporta una sorta di “servizialità”, di funzionalità delle cose, nel senso che le conosciamo in quanto funzionali a noi, non nella loro sostanzialità, ma ciascuna in quanto mezzo per un fine, che è a sua volta mezzo, in catene funzionali, in “architetture di servizialità”, che costituiscono altrettanti mondi, ambiti pragmatici di importanza, “sfere di fatti e di importanza”. Tutto questo forma un “diagramma del mondo ai cui quadranti e regioni riferiamo tutte le cose”: si tratta di una struttura formale del mondo, che solo parzialmente coincide con il mondo fisico, in quanto si tratta del mondo che pensiamo e che immaginiamo (p. 60).

L’animale umano è un impasto di corpo e di amor proprio: due termini, il primo materico e il secondo spirituale, che sono l’uno il contrappeso dell’altro; due significanti diversi per un solo significato, per un’unica e medesima costituzione d’essere che è appunto la semanticità dell’umano, il suo bisogno di classificare gli enti intorno a lui “per farne qualcosa”, per piegarli alla propria utilità. Se infatti «l’uomo può agire sul mondo solo suddividendolo, solo scomponendolo in singoli campi e in singoli oggetti di azione» (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. III – tomo I: Fenomenologia della conoscenza, a cura di M.G. Brega, Edizioni Ghibli, Milano 2020, p. 49), va da sé che «la semplice presentazione del fenomeno è al tempo stesso la sua interpretazione» (Ivi, p. 125).

Come prima circostanza tra tutte le circostanze, il corpo è il sito originario del nostro in-der-Welt-sein, il luogo d’incontro e di scambio con l’altro da sé, con la circunstancia geografica, culturale e storica in cui siamo immersi. La corporeità, quindi, è innanzitutto relazione.

Il fatto che noi non “abbiamo” un corpo scelto tra tanti ma che siamo necessariamente il nostro corpo fa sì che, agli occhi di Ortega, l’idea di Welt assuma un duplice volto: quello, per esprimersi con le parole di Heidegger, di ‘esistentivo preontologico’ – la circostanza propriamente intesa, ovvero tutto quanto vi è di fisico intorno a noi – e quello di concetto ‘ontologico-esistenziale’ – la mondanità, il nostro essere-mondo in quanto corpi senzienti. Un’intuizione accolta e ulteriormente sviluppata anche da Marìas, allievo di Ortega, per il quale «l’esistenza dell’io include già il mondo, come coesistente, che pertanto non deve essere aggiunto o giustificato nella sua presenza. Il mondo, però, non è qualcosa che circonda il corpo, ma è il corpo stesso» (p. 95).

Io e mondo non si oppongono fra loro. Il sé e l’altro non stanno l’uno di fronte all’altro in una sorta di “lotta” per il riconoscimento della supremazia, come Sartre ha ritenuto di poter affermare sulla scorta della Fenomenologia hegeliana. La dialettica dell’essere è, invece, assai più complessa di così: il βίος, in quanto differenza che si stacca dall’identità della φύσις, intrattiene con questa un reciproco rapporto di conversazione e di significazione. Come due vasi comunicanti, individuo e natura si sostentano a vicenda, garantendo l’uno il senso dell’altra. L’individuo, infatti, può essere solo in quanto parte di una certa circostanza che lo precede (temporalmente) e lo eccede (ontologicamente); la circostanza, dal canto suo, non significa nulla finché non diventa la mia circostanza, la circostanza di qualcuno. «Il corpo è trasparente al mondo, ma anche il mondo è trasparente, nel senso che si lascia penetrare dai progetti dell’uomo, “come se le sue frecce fossero raggi luminosi”» (p. 126). Indagare questa trasparenza che abbraccia l’io e il mondo senza per ciò ridursi ad alcuno dei due, vuol dire dunque riflettere «sulla complessità delle sensazioni e sul carattere attivo della sensibilità, che non è una lastra fotografica» (ibidem).

Meditare su queste diramazioni del pensiero di José Ortega y Gasset e Juliàn Marìas permette a Russo di pervenire a una conclusione molto rilevante sia sul piano storiografico che sul piano teoretico. Se difatti il corpo e la circostanza dialogano di continuo e se tale dialogo è fondamentalmente un dialogo semantico nel quale l’uno si adatta all’altra e viceversa (cfr. J. Ortega y Gasset, Lo spettatore, a cura di C. Bo, Ugo Guanda Editore, Milano 1984, pp. 71-73), ne viene che la ‘prospettiva’ – altra coordinata centrale della filosofia orteghiana – deve in qualche modo essere coessenziale alla circostanza, ossia alla realtà stessa.

La circostanza è prospettiva, punto di vista dal quale affacciarsi alla realtà, non soltanto contesto vitale, ma condizione esistenziale dell’uomo. Non è, come in Uexküll, un insieme di funzioni esteriori, separate dal mondo interiore, dal semplice carattere organico, ma è la possibilità stessa della costituzione della nozione di mondo, grazie al suo valore percettivo e interpretativo.

La nozione di prospettiva è, pertanto, un’articolazione importante dell’idea di circostanza. […] L’affermazione che “l’essere definitivo del mondo non è né materia né anima, quanto piuttosto una prospettiva” non implica in alcun modo un soggettivismo radicale, à la Nietzsche. Non induce a ritenere che la realtà stessa sia una proiezione del soggetto, indica piuttosto il contrario, ossia l’esclusione di ogni pretesa di assolutismo da parte dell’intelletto. Mentre in Nietzsche la prospettiva si oppone alla realtà, in Ortega diventa la condizione della realtà e la possibilità stessa di conoscerla (pp. 25-26, corsivo mio).

Il prospettivismo di Ortega non è né una teoria epistemologica a sé stante né tantomeno un’“appendice” epistemologica dell’idea di circostanza. Laddove infatti le Meditaciones del Quijote si interrogavano intorno a ‘cosa c’è’ introducendo per la prima volta il concetto di circunstancia, le opere più mature della produzione orteghiana riflettono su come ciò che c’è – la circostanza – si dà. Se la prima opera (o meglio, la teoria in essa sviluppata) è da considerarsi per lo più ontologica, le altre sono quindi metafisiche in senso stretto.

Cosa vuol dire, concretamente, sostenere questa esegesi del pensiero orteghiano, ossia avvalorare la natura metafisica e non gnoseologica del suo prospettivismo? Vuol dire, in primis, compiere un esercizio di antropodecentrismo profondo: negando infatti che la prospettiva sia una categoria dell’intelletto, che essa sia soltanto il nostro “modo di vedere le cose”, è all’essere che stiamo restituendo autorità ontologica. Dire che la prospettiva è un fatto metafisico e non cognitivo significa, detto altrimenti, affermare che l’essere è prospettiva o, più propriamente, che la prospettiva è l’organizzazione dell’essere – il quale consiste appunto in un donarsi e aprirsi sempre eventuale e mai universale di uno scorcio, di una Lichtung che si sottrae nell’atto stesso di concedersi. In quanto frammenti di materia organica, noi non conosciamo in maniera prospettica, bensì siamo costitutivamente esseri prospettici, ‘espectadores’.

Sorprende che una filosofia lucida come quella di Ortega y Gasset abbia potuto partorire una riflessione sull’amore incredibilmente povera e quasi del tutto incompatibile con la propria metafisica – aspetto, questo, senz’altro oscuro della produzione orteghiana su cui il volume di Russo non manca di interrogarsi con acume storiografico, smascherandone le incongruenze e le aporie interne. Oltre a risultare poco funzionale sul piano argomentativo, il dualismo introdotto dal filosofo madrileno negli Estudios sobre el amor tra incantamento/fascinazione (encantamiento) e consegna (entrega) inaugura infatti una visibile contraddizione con l’impianto filosofico discusso precedentemente e in particolar modo con il suo prospettivismo: per Ortega, l’amore vero – diversamente dalla semplice infatuazione – consiste in una libera elezione dell’amato alla cui base vi è il “carattere radicale” del soggetto con le sue scelte e le sue personali inclinazioni. L’amore qui consiste in un’attività non di perenne decodificazione di quel geroglifico dalle numerose e cangianti sfaccettature che è la creatura amata, bensì di volontaria gravitazione intorno alla natura più intima dell’altro, per la quale l’amante è tenuto a prodigarsi.

Tributario di una visione cristiano-cattolica dell’amore che ispirerà anche Denis de Rougemont, Scheler e von Hildebrand, il pensatore spagnolo sembra affannarsi – finendo spesso per autocontraddirsi nell’arco di poche pagine – in una «concezione puramente sentimentale, quasi emotivista dell’amore» (p. 83) che è incapace di rendere conto della complessità di tale Erlebnis. Contro Ortega, e in linea con Marìas, occorre invece ribadire il «carattere costitutivo, non avventizio» (p. 150) della condizione amorosa, «che è originaria, perché deriva dalla struttura essenziale della vita umana e dalla sua struttura empirica» (p. 148). L’innamoramento non è un fenomeno dell’attenzione e come tale non è distinto dall’amore, nel quale “fluirebbe” in un preciso momento e in un modo che restano peraltro da chiarire. Innamoramento e amore, al contrario, sono un fenomeno cosmico, la voce di quella dimensione stabile dell’esistenza in virtù della quale ogni cosa intorno a noi e noi stessi acquisiamo un senso.

L’interesse di un’analisi metafisica, e non psicologica, dell’amore (come quella proposta da Marìas e condivisa dall’autrice del libro) consiste perciò nel fatto che essa «allevia la condizione di dipendenza in cui vive chi è innamorato o, meglio, lo rende più autonomo dal partner desiderato, nel senso che diventa consapevole del fatto che il suo benessere non è causato da un unico, specifico artefice esterno, senza il quale non vivrebbe alcuna gioia, ma da un soddisfacimento personale che trova nell’oggetto amoroso la sua migliore occasione» (L. Fava, Paradigmi dell’amore nella tradizione filosofica, in C. Giarratana [a cura di], EUROAD. Percorsi della cultura europea tra filosofia e scienza, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2025, p. 120). Questo tipo di consapevolezza metafisica, che trasuda da opere come le Meditaciones del Quijote, El Espectador, El tema de nuestro tiempo, è totalmente perduta negli scritti orteghiani sul tema dell’amore – i quali sembrano fare di tutto per mantenere almeno una certa coerenza con quanto sostenuto negli altri lavori.

Comprendere, come mirabilmente fa Maria Teresa Russo, che «l’amore non è antirazionale e illogico, piuttosto è arazionale e alogico, ma logoide, in quanto risponde a un uso più ampio di ragione, che è l’orientamento al significato» (p. 79), mette in luce l’importanza capitale di una chiarificazione fenomenologica preliminare del sentimento amoroso ai fini di una metafisica dell’umano stare al mondo. L’amore è infatti la prova più irrefutabile dell’unum psicosomatico che noi animali umani siamo, del fatto che non si dà σῶμα che non sia al tempo stesso σῆμα, cenno, rimando ad altro e, ancora, del fatto che esistere non è per l’uomo un puro “stare lì” ma è «una faccenda poetica, da drammaturgo o romanziere» (J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, intr. di D. Argeri, trad. di C. Rocco e A. Lozano Maneiro, SugarCo Edizioni, Milano 1996, p. 60).

Il volume di Russo esplora tale verità con pacatezza e rigore, lasciando parlare due tra i pensatori più incisivi del Novecento spagnolo fino a che i rispettivi punti di forza e debolezza si facciano avanti da soli, conciliati da un piacevole ma stimolante dialogo. Corporeità e relazione è, già dal titolo, una fenomenologia del significato incarnato, una difesa dell’unicità dell’esistenza individuale, un’apologia della materia viva. Tutto ciò – come l’“anima” – che si pretende di far ricadere all’infuori della materia, infatti, «è solo una parola per qualcosa che è nel corpo. Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore» (F. Nietzsche, Così parlo Zarathustra, a cura di S. Mati, Feltrinelli, Milano 2017, p. 34).

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