Marco Palladino (1993) è laureato in filosofia, presso l’Università Federico II DI Napoli, con una tesi dal titolo Trascendenza e malum mundi. Karl Jasperse Alberto Caracciolo. I suoi interessi di studio si rivolgono principalmente al rapporto tra filosofia e religione e tra filosofia e cinema. Di particolare interesse per la sua ricerca il dialogo con l’Oriente, come testimonia il saggio scritto per la rivista «Studi jaspersiani» sul rapporto tra Dōgen e Jaspers.
Perché Pasolini si dedica al cinema? La risposta credo si trovi negli scritti di Empirismo eretico dedicati alla funzione estetico-narrativa del piano-sequenza. Il piano-sequenza è l’unica tecnica artistica capace di rappresentare il flusso della vita, il suo perpetuo dispiegarsi, fasciando e ricucendo qualsiasi taglio operato dal montaggio. Il cinema, per il suo tramite, diventa la vita che imita sé stessa, il suo incessante e indecomponibile fluire. Fare cinema significa mostrare l’immagine mobile della verità, servirsi del falso per giungere all’evidenza violenta del vero. Il «metodo cinematografico» non consiste, come voleva Bergson, nell’indebita spazializzazione del tempo, nella fissazione arbitraria di ciò che, ontologicamente, sfugge ad ogni immobilizzazione concettuale. È l’inverso dell’isolamento del frammento, dell’atomo temporale svincolato dalla sua totalità concreta, dalla trama temporale che, al contempo, trascende e immane in ogni sua determinazione finita. Il neorealismo spurio di Pasolini è, dunque, un vitalismo, un vitalismo innervato di marxismo. Ciò che è in gioco non è solo la vita, ma le vite, quelle vite violente delle borgate, dei luoghi dimenticati dalla luce del cinema. Il tentativo, sempre nuovo, è quello di raccontare ciò che il progresso tecnico-economico pone ai margini del sociale. L’obiettivo è quello di trovare una nuova lingua, una lingua che non sia contaminata dall’alienazione capitalistico-borghese, capace di illuminare i volti e le storie sommerse, gettate nell’ombra dall’avanzare del progresso sociale.
Mamma Roma, però, non è solo un film imperniato sull’esattezza sociologica, sul proprio tempo appreso con la macchina da presa. È un’opera che indaga il rapporto viscerale di Pasolini con la figura della donna/madre e che ricalca, dall’angolazione del cinema, i versi struggenti di “Supplica a mia madre”. Mamma Roma, come la madre del regista, è capace di sapere, nel cuore del figlio, quello che è stato sempre. Questa preveggenza d’amore, questo sentire esorbitante, si scolpisce negli occhi vividi di Anna Magnani, l’unica attrice in grado di sovrapporsi alla genialità di Pasolini. È il suo dolore, rappreso nelle rughe e nelle occhiaie, a delineare il Vangelo laico del poeta-regista. Mamma Roma, infatti, assume i tratti di una Madonna caravaggesca. Il suo amore estremo, spinto fino al sacrificio di sé, passa per il martirio della prostituzione. La Kenosis, nel suo caso, è la crocifissione della carne ad opera del sociale. La femminilità di Mamma Roma, nel suo volontario atto di spoliazione, tracima dal modello maschilista che costringe il corpo femminile alla dicotomia madre/puttana. Mamma Roma, come le figure dei dipinti del Caravaggio, frantuma la barriera che separa il sacro dal profano, il divino dalle lacrime mortali di una madre che perde il sangue del suo sangue. Lo sguardo allucinato di Anna Magnani, trafitto dalla stolida mutezza della città, racchiude tutto il dolore del mondo. Come la Madonna, ai piedi della Croce, parla soltanto col silenzio infinito dei suoi occhi neri.
Мать и сын – Madre e figlio (1997) di Aleksandr Sokurov
Sokurov non ha bisogno di presentazioni. È, insieme a Tarkovskij e German, la testimonianza vivente che Dostoevskij, Turgenev, Tolstoj, Bulgakov, Oblomov, i numi tutelari della letteratura russa, si sono reincarnati nella Settima arte. Di fronte ad opere come questa sparisce ogni assurda gerarchizzazione delle arti e dei saperi.
La fonte d’ispirazione primaria di quest’opera del genio russo, per sua stessa ammissione, è l’opera del pittore tedesco, esponente di punta del romanticismo pittorico, Caspar David Friedrich. In particolare, a ispirare questo affresco crepuscolare di immagini dolenti è l’opera Der Mönch am Meer (1808-1810), in una delle opere che più di altre hanno plasmato l’estetica del “sublime”. Sokurov riesce nell’intento di distillare virtuosamente l’essenza del sublime che promana da ogni pennellata e da ogni linea di Friedrich in una storia essenziale, volutamente spoglia, che sembra fare collassare qualsiasi linearità temporale. Il centro di gravità della narrazione è il rapporto fra una madre moribonda, che si avvia dolorosamente verso il crepuscolo della propria esistenza, e un figlio che, strenuamente, tenta di ricambiare con il suo amore quell’amore materno che non conosce contropartite. Il donarsi senza remore del figlio è il tentativo di rendere giustizia a quel dono totale che la madre offre, offrendo sé stessa nel parto. Fin dalle prime battute, in cui la madre confessa al figlio di avere un «Dio che si agita nel petto», è svelato lo sfondo teologico dell’opera. Quel Dio che pungola nella carne è l’essenza del materno. L’atto della generazione imita l’atto creativo di Dio, della Vita. Il dono materno dell’esistenza a un altro che giace nel suo grembo è un atto kenotico. Come Dio, la madre, generando, conduce l’esistenza dal nulla all’essere, ma per farlo occorre che ella stessa si svuoti, rinunci al proprio essere, al proprio conatus, passando dal pieno al vuoto, a un nulla, però, che è gravido d’amore e di presenza. La madre, come l’artista, come Sokurov e Friedrich, è il simbolo dell’Assoluto e viceversa. Il rapporto madre-figlio è l’essenza stessa della vita: ogni vivente, nella generazione, riproduce l’armonia relazionale che intride di sé tutti gli enti. In questa generazione, la necessità si trasforma in libertà e il vuoto, il nulla che aggredisce il senso di ogni cammino, si converte nell’essere. Questo sfondo metafisico-religioso nella pellicola di Sokurov è tratteggiato all’interno di una cornice ingiallita da cui si stagliano i corpi della madre e del figlio. La razionalità del figlio, che egli utilizza per impedire al cuore di spezzarsi, di fronte alla strettoia inevitabile della morte della madre, via via vacilla. E allora l’uomo, che nello spazio di quella relazione originaria scorgeva il volto benevolo dell’esistenza, si trova smarrito, solo dinanzi al potere sconfinato di una natura che resta muta al cospetto del suo dolore. A quel silenzio apparentemente stolido egli affida le sue lacrime. Ma le lacrime, invano, tentano di ricucire la distanza infinita che lo separa potere ascoso della Natura. Sokurov, grazie all’uso sapiente dei campi lunghi, riproduce con esattezza poetica lo smembramento del finito che si smarrisce nell’infinito di una Natura che non comprende. La parola incespica, sfuma nel respiro fragoroso di una Natura ammantata di una luce livida, respingente e attraente allo stesso tempo. La bellezza si trasfonde definitivamente nel sublime, nella misteriosa compresenza del bene e del male. Ma il figlio, diversamente dal monaco di cui è proiezione, ha bisogno di intingere il silenzio della natura nel silenzio, gravido d’amore, della madre. Anche sul capezzale della morte, quando le mani, percorse dalle rughe, sono l’ultima reliquia della presenza, quel silenzio parla più di qualsiasi altra parola.
Todo sobre mi madre (1999) di Pedro Almodóvar
Todo sobre mi madre non è solo un film sul mistero di essere madre, ma – soprattutto – sul mistero di essere donna. È un’opera in cui la macchina da presa diviene lo strumento attraverso il quale traspaiono le mille sfaccettature dell’universo femminile. Eppure, questo sguardo che si china sull’alterità non è mai contaminato dalla naturale inclinazione prensile dello sguardo/desiderio, dal suo istintivo bisogno di oggettivare e racchiudere in una forma ciò che intenziona. Ciò è evidente soprattutto nella scena madre del dramma almodóvariano, quella in cui osserviamo lo sgomento di Manuela attraverso gli occhi moribondi di Esteban. In questa dolorosa sovrapposizione di sguardi, l’utilizzo della soggettiva amplifica quel senso di intimità e distanza che impregna la visione del almodóvariana femminile. In quella distanza/vicinanza estrema, che coincide drammaticamente con la perdita più lancinante, si fa largo la chiara cognizione dell’irriducibilità/differenza della donna allo sguardo maschile. Almodóvar è consapevole che la differenza dell’essere donna si declina in molti modi. Non è possibile dire tutto su Manuela, perché Manuela non è solo Manuela, ma la figura in cui passano in filigrana tutte le possibili figurazioni dell’universo femminile. In Todo sobre mi madre prende vita e forma il principio guida del cosiddetto pensiero della differenza inaugurato dalla riflessione multidisciplinare della filosofa e psicanalista belga Luce Irigaray. Secondo Irigaray, tutta la storia del pensiero occidentale, da Platone ad Hegel, è una ontologia del Medesimo, di un Principio metafisico neutro, impersonale, che, sul piano concettuale, è l’ipostatizzazione dell’identità maschile e della sua coestensiva cancellazione della differenza femminile. Non è dunque l’uguaglianza, la sovrapposizione spinta fino all’identificazione, la strada che conduce al riconoscimento. Solo la differenza non dimentica dell’unione, del multipolarismo intrinseco all’esistere, restituisce la verità della vita, quella verità che si principia nella biforcazione originaria fra uomo e donna.
Chiara testimonianza di quanto il cinema di Almodóvar sia una fine educazione al riconoscimento della differenza è il piano meta-testuale intessuto di riferimenti a film oltremodo iconici: da Un tram chiamato desiderio (autentico fulcro meta-testuale e intra-testuale della narrazione) ad All About Eva.
Se Stella ritrova sé stessa abbandonando la morsa di Stanley Kowalski, Manuela riesce a riconquistare il suo io, la sua differenza, solo riconciliandosi con Lola, la figura che ha generato la ferita originaria da cui dipendono tutte le altre ferite. Sarà il desiderio di essere di nuovo madre a salvarla dal nulla di senso. Non solo ogni vita dipende dal sì di una madre, ma ogni vita, per acquisire significato, dipende dal sì dell’amore materno. Madri non si nasce, si diventa quando ci si apre all’amore che non chiede nulla in cambio: all’amore che, come la rosa di Silesius, è senza perché. Pago soltanto del suo slancio incondizionato.